Il comunismo è la pianificazione consapevole dei liberi produttori associati

Creato: 26 Settembre 2013 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 5106
Dalla  rivista  D-M-D' n °7
I teorici dell'economia borghese affermano che il capitalismo, con tutti i suoi limiti, è il miglior modo di produrre ricchezza. Essi, a suffragio delle loro affermazioni, sbandierano il fallimento degli ex paesi del cosiddetto socialismo reale. Il comunismo, per loro, al di là delle belle intenzioni, ha dimostrato di non poter funzionare perché la razionalità umana non è in grado di imbrigliare la complessità socio economica della realtà. Quindi, all'unione cosciente degli individui della comunità, sostituiscono il Dio mercato quale regolatore delle loro relazioni economiche. Di fatto, questa è un'ammissione di impotenza e di sottomissione al loro feticcio: il Capitale. Il comunismo, che non è mai esistito sino ad ora, al contrario, vuole abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo affinché libertà, razionalità, consapevolezza e giustizia sociale prendano il posto dell'idolatria e della barbarie a cui ci sta conducendo il capitalismo.

Sono passati oltre vent'anni dal crollo del presunto socialismo dell'Europa orientale, eppure i nefasti risultati prodotti dai regimi che presero corpo da quel mondo si fanno sentire ancora oggi. Buona parte delle analisi o dei dibattiti, anche accademici, che pongono la questione sociale all'ordine del giorno, vista la gravità della crisi sistemica del capitalismo, sono sempre inficiati dall'errore di considerare quelle esperienze come comunismo realizzato. Data la premessa ne scaturisce che, supposto che quello fosse comunismo e avendo fatto una brutta fine, l'alternativa al capitalismo è il capitalismo stesso, magari riveduto e corretto, a cui si consigliano un'infinità di medicine, più o meno strampalate, per farlo guarire. Non è accaduto, invece, quanto ci si poteva aspettare e auspicare, cioè un ripensamento critico di quell'esperienza tra coloro che in qualche modo, anche solo idealmente, avevano a cuore le sorti del proletariato e auspicavano un'alternativa reale al capitalismo. Tutto è stato gettato via, il bambino e l'acqua sporca, sia le mostruosità partorite dallo stalinismo, cioè il cosiddetto socialismo reale, come pure qualsiasi altra ipotesi. Alla rassegnazione, ha fatto da contro altare la propaganda volgare della borghesia e quella più sofisticata e furbesca della sua intellighenzia, alimentando l'idea dell'impraticabilità di un mondo diverso da questo, la fine delle ideologie e quant'altro, ma soprattutto che il capitalismo con tutti i suoi difetti è quanto di meglio l'umanità abbia espresso sino ad ora dal punto di vista dell'organizzazione sociale, in quanto questo sistema, malgrado tutte le disuguaglianze, è l'unico che producendo tanta ricchezza ha permesso l'accesso ai consumi anche alle classi meno abbienti.

Sempre secondo le tesi dominanti, il socialismo ha fallito perché la proprietà statale dei mezzi di produzione soffoca la creatività e la libera iniziativa individuale, viceversa la concorrenza permette di produrre di più e meglio, mentre pensare di potere disciplinare la complessità dell'economia in un piano gestito centralmente non soltanto l'esperienza ha dimostrato che non può funzionare, ma è causa di inefficienza e miseria generalizzata. Allorché si cantava vittoria, accadeva che anche in occidente il ciclo economico cominciava a perdere colpi rispetto alla crescita del dopoguerra. A fine anni settanta, vista la nuova aria che tirava, venne rispolverata la dottrina liberale a supportato e giustificazione teorica delle politiche dei sacrifici e di smantellamento dello stato sociale nei vari paesi occidentali.

Allo statalismo, inteso come sostegno alle fasce più deboli e bisognose, è stato associato tutto il male possibile, in quanto fonte di spreco e corruzione, mentre rispuntava più forte che mai il vecchio cavallo di battaglia tanto caro alla coscienza borghese, ossia l'individuo posto al centro dell'universo, là dove per individuo si intende l'arrampicatore sociale senza scrupoli che sgomita per emergere e arricchirsi. Per costoro l'uomo si trova a dover collaborare con i suoi simili perché non ne può fare a meno, la divisione del lavoro gli viene in aiuto per soddisfare le sue egoistiche necessità. La molteplicità dei bisogni mette in relazione le persone che altrimenti ne potrebbero soddisfare ben pochi con la loro sola individuale operosità. Questo concetto è esemplificato perfettamente da un classico del liberismo, l'economista britannico Adam Smith, il quale agli albori del capitalismo percepisce concretamente lo spirito del suo tempo, dandone una celebre spiegazione in cui si afferma che l'essere umano, contrariamente alle altre specie animali, si contraddistingue per la convenienza nello stare nella collettività: “L'uomo ha invece quasi sempre bisogno dell'aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza: avrà molta più probabilità di ottenerlo volgendo a suo favore l'egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ciò che egli chiede... Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi.”1

Questo, in sintesi, senza tanti giri di parole, permea la natura dell'uomo borghese e della società capitalistica.

La pianificazione del defunto socialismo reale.

L'esperienza della ex Unione Sovietica e dei suoi satelliti, miseramente disintegratasi nel 1991, da sempre è stata oggetto di critiche, sia durante che dopo la sua esistenza. Le stroncature di quei regimi si riferivano alla mancanza di quelle garanzie fondamentali, solidamente presenti nei paesi occidentali, riguardanti le libertà democratiche borghesi, come il diritto di associazione e di opinione, senza contare il fatto che qualsiasi dissenso nei confronti del potere era vietato e perseguito. Ancora di più, se quei luoghi erano la patria dei lavoratori, dove bisognava fare code interminabili per acquistare i generi di prima necessità, allora in confronto stavano cento mila volte meglio i proletari occidentali. Mentre là si regrediva, qua il capitalismo dava speranze anche alle fasce più disagiate di potere accede a maggiori beni di consumo, di migliorare e guardare con fiducia al futuro. Le ragioni di tale fallimento venivano imputate alla natura stessa del comunismo e nell'ugualitarismo propugnato, tradottosi alla prova dei fatti in una inefficiente pianificazione economica centralizzata.

Ancora una volta, siamo costretti a soffermarci su questo punto, per ribadire e confutare l'asserzione che quella società fosse l'inizio, tanto atteso, di un cambiamento epocale che avrebbe portato l'umanità verso il comunismo, cioè il regno dell'uguaglianza e della giustizia sociale, dell'abolizione delle classi e dello sfruttamento. In primo luogo il comunismo abolisce la condizione fondamentale che contraddistingue la società borghese, il rapporto tra capitale e lavoro: ovvero lo sfruttamento del lavoro salariato. Finché una qualsiasi realtà economico/sociale baserà la propria riproduzione sociale su tale fondamenta avremo sempre e solo capitalismo. Già a fine ottocento Engels aveva anticipato la possibilità dell'affermarsi del capitalismo di Stato, previsione ancora più appropriata in riferimento a quanto si è prodotto in Russia dopo il fallimento della rivoluzione: “Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta.. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice.”2

Dopo oltre settant'anni dalla rivoluzione d'Ottobre in Unione Sovietica e nei paesi satelliti il lavoro salariato non soltanto non era scomparso, ma al contrario si era rafforzato come in qualsiasi altro paese capitalistico occidentale. Più precisamente il fallimento della rivoluzione russa, personificato dallo stalinismo, aveva prodotto il capitalismo di Stato e una gigantesca macchina burocratica e repressiva che aveva colpito in primo luogo proprio il proletariato. Il soggetto della rivoluzione stessa era stato sconfitto, uomini e donne in carne e ossa da portatori di un programma di emancipazione per l'umanità si trasformarono al contrario in vittime di uno spietato e sanguinario regime.

In un primo momento l'estrema concentrazione del potere politico ed economico nelle mani dello Stato aveva permesso alla Russia arretrata di recuperare posizioni sullo scacchiere politico globale. La Seconda Guerra Mondiale vide l'affermazione dell'Unione Sovietica quale super potenza imperialistica mondiale. Tutto ciò fu possibile in breve tempo proprio a causa dell'impulso dato, suo malgrado, dall'Ottobre rosso, in quanto il fallimento della prospettiva rivoluzionaria a scala internazionale aveva prodotto un particolare capitalismo di Stato e non il socialismo. Uno sviluppo capitalistico tanto rapido sarebbe stato impossibile attraverso l'evoluzione normale delle cose. Il governo borghese giunto al potere dopo la caduta dello zarismo avrebbe potuto fare uscire il paese dal sottosviluppo in cui versava, a eccezione di alcune zone sviluppate, in tempi molto lunghi. Invece, il capitalismo di Stato di stampo staliniano, permise, attraverso l'esercizio di un potere politico tirannico e la collettivizzazione forzata, che altro non fu che sfruttamento bestiale della forza lavoro come mai si era visto prima, di serrare i tempi di realizzazione di una industrializzazione, soprattutto dal punto di vista quantitativo, che avrebbe dovuto porre l'Urss tra le prime potenze mondiali.

Questo schema non poteva funzionare all'infinito. Una volta passate le circostanze storiche eccezionali che permisero l'affermazione di quello specifico capitalismo di Stato, si trattava di andare oltre. Il dopoguerra, specialmente dopo la morte di Stalin, pose la questione urgente di un rinnovamento economico e politico. Alla destalinizzazione del regime, però, non corrispose un adeguato ammodernamento dell'economia e del suo sistema di pianificazione.

La permanenza della legge del valore alla base della pianificazione del capitalismo di Stato

L'Unione sovietica e i paesi fratelli che adottarono lo stesso sistema economico a pianificazione centralizzata, adesso dovevano dimostrare di poter competere sul mercato internazionale col mondo capitalista. Naturalmente, per noi, era ed è scontato che la natura del capitalismo di Stato è identica a quella del capitalismo cosiddetto di mercato di stampo occidentale. Cambia la forma fenomenica ma la sostanza è la stessa. La consustanzialità del capitale nelle sue diverse forme è stata una specie di controversia teologica sulla quale si sono scontrati tanti presunti marxisti, i quali, ancora oggi, disputano sulla natura ibrida e indefinibile della vecchia società sovietica, né socialista né capitalista a loro dire. Va spazzato via, invece, qualsiasi equivoco, per ribadire che sostanza e vita al modo di produzione capitalistico sono dati unicamente dallo sfruttamento della forza lavoro, il plusvalore estratto all'operaio salariato è il suo nutrimento, senza questa condizione indispensabile il capitale non avrebbe nessuna fisionomia particolare, semplicemente non potrebbe esistere.

Dal rapporto tra capitale e lavoro discendono tutte le altre categorie del modo di produzione borghese, come le merci, i prezzo, il denaro, il profitto, ecc. In questo brano dove il capitalismo di Stato dell'Europa orientale viene definito sistema dirigistico si afferma “Nel sistema dirigistico le disposizioni interne possono essere classificate in quattro categorie: anzitutto il sistema di contabilità generale dell'impresa, ossia il modo di formare il bilancio e la definizione e  classificazione dei costi e delle attività patrimoniali; in secondo luogo, l'indicatore (o gli indicatori) di successo dell'impresa, cioè il volume dei profitti, delle vendite e del reddito lordo, oppure un certo rapporto tra queste voci e i costi o il capitale; in terzo luogo le norme per la remunerazione dei dirigenti, dei tecnici e degli operai... infine le norme per la distribuzione dei profitti e delle quote di ammortamento tra l'impresa, l'associazione industriale e le autorità preposte alla pianificazione, e per le eventuali limitazioni alla libertà dell'impresa stessa di usare i fondi lasciati in tal modo a sua disposizione.”3

Nessuno negava l'esistenza di queste categorie tra i difensori e detrattori del socialismo reale, però non se ne traevano le dovute conclusioni, per ignoranza o per convenienza, affermando che comunque quello era il socialismo realizzato. Il controllo centralizzato dell'economia, che nulla aveva a che fare con la pianificazione comunista, rispondeva alla necessità di gestire meglio, nei limiti del possibile, le contraddizioni derivanti dall'esistenza della legge del valore e dal rapporto di produzione salariato, dilemma irrisolvibile per qualsiasi società capitalista. Oltre a questo, era permanente il contrasto tra le autorità centrali e i direttori delle fabbriche, gli uni timorosi di non perdere potere, mentre gli altri rivendicavano maggiore autonomia direzionale. Nel dopoguerra, dal raffronto tra l'area capitalista e l'area del presunto socialismo reale, la borghesia occidentale colse l'occasione per propagandare le proprie convinzioni di superiorità rispetto al fronte nemico invitando l'opinione pubblica internazionale a giudicare quale dei due sistemi era maggiormente adeguato a fornire un dignitoso livello di vita alla popolazione. O il capitalismo tradizionale, il quale col suo genio affaristico, le vetrine sfavillanti delle sue città, stava indirizzando ai consumi di massa inglobando nella sua ragnatela la classe operaia; oppure il collettivismo di oltrecortina, una realtà abulica e malinconica emanante un senso di vuoto, che pur dando alcune garanzie di base ai cittadini, offriva complessivamente un basso tenore di vita accompagnato da un immobilismo che non faceva presagire nessun cambiamento in meglio. Indubbiamente la differenza c'era, tuttavia non era diversità tra capitalismo e socialismo, ma tra capitalismo di mercato e capitalismo di Stato.

Stessi sintomi stessa malattia

La crisi sistemica che si abbatte oggi sul capitalismo occidentale viene da lontano. Già nei primi anni settanta le statistiche ufficiali segnalano un calo dei profitti industriali e un'inversione di tendenza del ciclo economico. I capitali cominciano a spostarsi, più di quanto non abbiano fatto in passato, dalla produzione alla speculazione finanziaria. I processi di ristrutturazione prima e il decentramento produttivo poi, nelle zone a basso costo della manodopera, danno luogo a riprese economiche e a ricadute. Intanto prende piede nella sovrastruttura politica e ideologica il liberismo rampante, quale traduzione governativa di quanto era già in essere nei fatti: l'ulteriore spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Gli Stati aiutano le grandi imprese e la finanza e tagliano la spesa pubblica. In sostanza si determina una grande animazione in questa parte del mondo nel tentativo di contrastare il cancro che colpisce il sistema capitalista ad un certo punto del suo decorso: la caduta del saggio medio del profitto. Con tanti saluti al libro dei sogni della borghesia e alle fandonie liberiste sulla presunta “mano invisibile” o sull'inverosimile fattibilità di una “teoria dell'equilibrio economico generale” che il mercato da se stesso dovrebbe realizzare.

La stessa crisi inasprisce la già precaria situazione del capitalismo di Stato orientale, con la differenza che quest'ultimo non ha la stessa dinamicità e flessibilità per rispondere al declino. Come un enorme pachiderma fa sempre più fatica a scuotersi. In precedenza ci fu il tentativo in Unione Sovietica, con la riforma Liberman del 1965, di dare una svolta all'economia concedendo una certa autonomia alle singole aziende, ottenendo, però, risultati troppo modesti rispetto a quanto sarebbe stato necessario per risollevare le sorti di un meccanismo logoro che faceva acqua da tutte le parti: “Nella fase di attuazione del piano il dirigente organizza la produzione in modo da ricavarne i massimi premi individuali e di gruppo, preoccupandosi nello stesso tempo di garantirsi un obiettivo anche per il successivo periodo di preparazione del piano; un superamento troppo elevato degli obiettivi infatti potrebbe indurre le autorità superiori a innalzare gli obiettivi per il periodo seguente... Il basso ritmo del progresso tecnico è uno dei motivi di insoddisfazione costante delle autorità centrali, giacché i disincentivi alle innovazioni sono forti, mentre gli incentivi sono scarsi.”4

Mentre in occidente, a partire dagli anni settanta, il sistema economico risponde alla crisi con imponenti ristrutturazioni tecnologiche volte a recuperare margini di profitto, permettendo all'organizzazione di fabbrica di aumentare il plusvalore relativo e assoluto estorto alla classe operaia mediante l'aumento della produttività del lavoro e l'allungamento della giornata lavorativa, quindi con l'intensificazione dello sfruttamento, all'est avviene il contrario, il sistema non ha la duttilità e la forza di fare altrettanto, la produttività continua a diminuire: “L'inefficienza degli operai e la loro prestazione non entusiastica sul lavoro è stata commentata sino alla nausea dagli specialisti sovietici. Ma il fatto rimane: il diritto a non lavorare duramente in fabbrica è una delle poche conquiste residue a cui l'operaio sovietico tiene... Il lavoratore sovietico, così come quello occidentale, è sempre meno contento di operare in modo monotono e stereotipato alla catena.”5

Come si vede l'alienazione del lavoratore è una condizione ben presente anche nel capitalismo di Stato, esattamente come in occidente. E d'altra parte come potrebbe essere diversamente? Sempre di capitalismo si tratta. E in quanto capitalismo è soggetto alla stessa contraddizione fondamentale tra capitale e forza lavoro. La borghesia di Stato, attraverso le sue specifiche forme di dominio determinatesi nel contesto storico che ne ha permesso la comparsa e l'affermazione, non è più in grado, attraverso lo strumento rigidamente centralistico della sua pseudo pianificazione, governata  da una struttura gerarchica piramidale, di porre in essere delle misure efficienti che contrastino la caduta del saggio medio del profitto, quelle che Marx chiama misure antagonistiche.

In Urss, in particolare, il disequilibrio tra la sezione I che produce mezzi di produzione, e la sezione II che produce beni di consumo, argomento sulla riproduzione e circolazione del capitale complessivo sociale analizzata da Marx nel secondo libro de il Capitale, si è dilatato nel tempo con  risultati pessimi per la popolazione data la scarsità generalizzata di prodotti di consumo. La sproporzione tra industria pesante e industria leggera insieme ai perversi meccanismi che si determinarono nell'economia sovietica tra la nomenclatura statale e i dirigenti delle imprese, accelerarono l'aumento della composizione organica del capitale. Al costante ammasso degli impianti industriali, poco innovativi dal punto di vista tecnologico, solo raramente corrispondeva l'aumento della produttività del lavoro, mentre nel lungo periodo i risultati si rilevarono disastrosi. Anche in questo caso si poneva in essere un'altra contraddizione caratteristica del capitalismo, la sovraccumulazione di capitale, a cui corrispondevano saggi di profitto decrescenti, all'interno di una già precaria dinamica del processo di valorizzazione del capitale.

Non socialismo, ma due facce della stessa crisi capitalistica

L'implosione del socialismo reale, definizione, tra l'altro, attribuitasi dalla stessa borghesia di Stato sovietica durante la presidenza Brežnev, in contrapposizione ai presunti socialismi dissidenti nascenti nel mondo, in primo luogo quello cinese, per rimarcare che il vero socialismo era solamente quello dell'Unione sovietica e dei suoi paesi satelliti, è stato ed è tutt'ora il più potente strumento ideologico di cui si serve la borghesia internazionale per ribadire che l'alternativa al capitalismo non esiste, tanto meno può essere il comunismo. L'esperienza storica ha dimostrato che le contraddizioni del capitalismo sono insopprimibili, sia che si tratti di capitalismo tradizionale o di capitalismo di Stato e che, prima o poi, portano alle crisi e infine alla decadenza e alla barbarie se questa formazione sociale non viene archiviata dalla storia. Il superamento di questo stato di cose non può che essere il comunismo, il quale non ha funzionato proprio perché non è mai esistito, mai è stata realizzata una nuova organizzazione sociale in grado di prendere il meglio della vecchia società - lo sviluppo delle forze produttive e delle scienze nei vari campi del sapere - per volgerlo ai propri scopi nell'interesse della collettività. Tutto questo non ha nulla a che fare con i passati regimi dittatoriali dell'est. La questione della pseudo pianificazione in quei paesi è stata una grossolana fandonia per mascherare l'anarchia della produzione, ovvero il non soddisfacimento dei bisogni dei produttori, e i privilegi goduti con lo sfruttamento della forza lavoro e la rapina del plusvalore estorto alla classe operai da parte di una borghesia rossa che gestiva centralmente i rapporti di produzione borghesi, potendo fare a meno del libero mercato interno e sfruttando quello estero, soprattutto nello scambio di materie prime e di prodotti agricoli. Un meccanismo che alla fine si è disintegrato sotto i colpi delle contraddizioni capitalistiche amplificate dalla crisi, la stessa crisi che oggi colpisce violentemente il capitale mondiale.

Cosa contraddistinguerà il comunismo dalle sue patetiche caricature? La direzione del proletariato della vita politica ed economica attraverso i propri organismi rappresentativi, e non certamente delegando la conduzione della propria schiavitù salariale ad una borghesia di Stato. Ce l'hanno insegnato i nostri maestri sulla base di esperienze concrete di lotta di classe. Marx ed Engels, analizzando gli eventi e il contenuto delle lotte che portarono alla nascita della Comune di Parigi del 1871, compresero per la prima volta che la dittatura del proletariato doveva essere la forma specifica del potere operaio: “Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro... Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato.”6 Qualche decennio dopo, un nuovo urto sociale di altrettanta importanza, la rivoluzione in Russia del 1905, permise di delineare con maggiore precisione che i soviet o consigli operai dovevano essere gli strumenti che il proletariato avrebbe dovuto adottare per esercitare il proprio potere. E così si tentò di fare dopo la rivoluzione d'Ottobre del 1917: “Il controllo operaio è stato istituito da noi con forza di legge, ma comincia a penetrare con difficoltà nella vita e persino nella coscienza delle grandi masse del proletariato... E finché il controllo operaio non sarà divenuto una realtà...non si potrà passare al secondo passo verso il socialismo, cioè passare alla regolamentazione operaia della produzione... Il nostro scopo è di far partecipare praticamente tutti i poveri all'amministrazione dello Stato...”7

Le cose si fermarono qui. La rivoluzione rinculò prima, degenerò successivamente sino ad essere sconfitta con l'avvento dello stalinismo, e il secondo passo verso il socialismo non fu possibile perché il controllo operaio era diventato una chimera irrealizzabile.

Il carattere universale della transizione e della pianificazione

Il comunismo inferiore, dovrà prendere le mosse dalla realtà sociale così com’è, come ce la consegna il capitalismo, mettendo in conto i possibili disastri che esso potrebbe continuare a produrre se la sua permanenza si prolungherà nel tempo. Dopo la rivoluzione e l’instaurazione del potere proletario, appena le condizioni oggettive lo consentiranno, auspicando comunque nel più breve tempo possibile, devono seguire i provvedimenti propri del Nuovo Modo di Produzione Associato, espressione tangibile di un mondo inedito finalmente aperto all'umanità, egualitario e partecipativo, in completa antitesi con la vecchia società. Subito va marcata la rottura col passato, sostituendo le categorie economiche capitalistiche con quelle proprie della società comunista, basate sulla negazione della legge del valore a cominciare dalla abolizione del lavoro salariato. La riproduzione sociale dovrà avvenire attraverso un piano di produzione e distribuzione dei prodotti atto a soddisfare i bisogni di tutti. Pianificare significa fare una contabilità generale delle risorse a disposizione, uomini, mezzi di produzione, materie prime, terreno agricolo, ecc. a livello globale. Quest'ultimo punto è essenziale, perché è da escludere che un paese o un'area delimitata pervenuta alla rivoluzione, possa avere materie prime e tecnologia a sufficienza per potere non ricorrere allo scambio con fonti esterne. L’autosufficienza sarebbe bandita da una simile ipotesi, la compravendita di merci continuerebbe a esistere, come il valore di scambio e la sua unità di conto, la moneta. In ogni caso, sarebbe impossibile la stessa convivenza col rimanente mondo capitalista. La rivoluzione o diventa veramente mondiale oppure è destinata a perire e tutto ritornerebbe come prima, poiché le forze della conservazione avrebbero ancora una volta il sopravvento.

E' importante ribadire il carattere universale della rivoluzione, nel senso che le dinamiche degli eventi, in un determinato arco di tempo, devono coinvolgere le aree più industrializzate del mondo. Senza questa condizione il comunismo non è realizzabile, così pure non sarebbe fattibile mettere in pratica lo strumento tecnico della trasformazione, la pianificazione economica. Il marxismo rivoluzionario ha storicamente considerato l'internazionalismo proletario una condizione indispensabile per la riuscita dell'evento rivoluzionario. Però all'enunciazione, molto spesso, non sono seguite le debite considerazioni sul significato profondo che ha tale concetto. Qualora scoppiasse la rivoluzione in un paese, non è pensabile che esso possa restare in una sorta di stand-by a tempo indeterminato, in attesa che, chi sa quando, venga in aiuto la rivoluzione internazionale. O questo avviene in un tempo ragionevolmente breve, oppure è la sconfitta. In Russia è successo proprio questo, tanti hanno spiegato giustamente l'involuzione della situazione a causa dall'isolamento, e questo è corretto, ma continuare a dire la stessa cosa nei decenni successivi, come se nel frattempo i rapporti di produzione fossero rimasti congelati in una specie di indeterminata neutralità, in attesa della loro rivivificazione in senso comunista ad opera della futura ondata rivoluzionaria, è profondamente sbagliato. Marx e Engels su questo argomento sono chiari già dalle loro opere giovanili: “Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in 'una volta' e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale delle forze produttive e le relazioni mondiali che esso comunismo implica... Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza 'storica universale'.”8

In fondo, è il capitalismo stesso, oggi come non mai, a consegnarci un mondo e un'economia sempre più globalizzati, dove ogni fatto di una qualche rilevanza ha immediatamente ripercussioni ovunque. Figuriamoci cosa potrebbe succedere nell'epoca attuale se una rivoluzione proletaria rompesse il fronte imperialista in qualche angolo del pianeta, la propagazione sarebbe rapidissima, il risultato, nel bene o nel male, altrettanto.

I principali elementi di pianificazione nel comunismo inferiore

“Immaginiamoci in fine, per cambiare, un'associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale... Il prodotto complessivo dell'associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un'altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell'associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo del produttori. Solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni  produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro reciterebbe una doppia parte. La sua distribuzione, compiuta socialmente secondo un piano, regola l'esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D'altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte del prodotto comune consumabile individualmente. Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotto del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione.”9 Così Marx sinteticamente tratteggia in modo esemplare la futura società comunista.

Dopo la rottura rivoluzionaria e la sconfitta della reazione in una determinata zona geografica, il proletariato una volta diventato classe dominante, per mezzo dei soviet e del suo semi-Stato dovrà cominciare la trasformazione socio-economica della comunità. Bisogna prestare molta attenzione, comunque, a questo stadio delle cose: la proprietà privata insieme al suo alter ego, la divisione del lavoro, una volta cacciate dalla porta possono rientrare dalla finestra se non viene instaurata la più rigorosa dittatura del proletariato. La dittatura del proletariato non è altro che la democrazia proletaria, il termometro della rivoluzione, senza di essa non può esistere comunismo, né il partito e nessun'altra organizzazione di classe vi si può sostituire. Senza la gestione diretta della classe lavoratrice dell'economia e della società è sempre presente il pericolo, pur avendo eliminato la proprietà privata, che una minoranza di amministratori del sistema produttivo, separata dal resto della popolazione, possa dar luogo a una nuova divisione del lavoro basata sulla direzione e sul  possesso di fatto dei mezzi di produzione, e con i privilegi tutto ricomincerebbe da capo.

In attesa che la rivoluzione si espanda, il nuovo Modo di Produzione Associato, là dove è stato istituito, dovrà attaccare da subito la legge del valore e le categorie economiche capitalistiche. Abolita la proprietà privata ed espropriati i capitalisti, quindi socializzati i mezzi di produzione, si dovranno contabilizzate le risorse a disposizione per avviare un piano di produzione, una volta stabilite le priorità, adeguato a soddisfare i bisogni sociali. Soppresso il valore di scambio, il valore d'uso sarà l'unico metro di valutazione per la realizzazione del piano. La pianificazione dovrà prevedere al più presto la riduzione dell'orario di lavoro, sempre che, naturalmente, l'apparato industriale e tutti i beni che servono alla vita delle persone non abbiano subito gravi danni a seguito degli eventi storici. Avere più tempo a disposizione è indispensabile a rendere operativi la conduzione della produzione/distribuzione dei beni e la direzione dello Stato proletario. Tempo a disposizione e consapevolezza dei produttori sono gli ingredienti necessari per amministrare le nuove relazioni tra i liberi individui associati.

La riduzione del tempo di lavoro non sarebbe un grosso problema. Basti pensare al contributo che potrebbe dare immediatamente la massa impressionante di disoccupati, soprattutto giovani, che il capitalismo ha emarginato da qualsiasi prospettiva lavorativa. Poi la riqualificazione del lavoro che la pianificazione dovrà promuovere per liberare nuove energie. Il capitalismo ha creato una quantità enorme di lavori inutili funzionali a se stesso, soprattutto nei paesi avanzati, ma che non servirebbero a niente in una società razionale e al sevizio dell'uomo come quella comunista. Per esempio i settori della finanza e delle banche, degli armamenti, della pubblicità e della vendita delle merci, il marketing, la burocrazia statale in tutte le sue articolazioni, ecc. Insomma sarebbe un'incredibile risparmio di lavoro che permetterebbe una consistente riduzione dell'orario di lavoro. A questo punto lo slogan lavorare tutti per lavorare meno, inattuabile nel capitalismo, poiché da una parte si licenzia e dall'altra si allunga la giornata lavorativa, avrebbe forza di necessità nel comunismo. Tutti gli abili al lavoro avrebbero l'obbligo di contribuire al bene comune impiegando poche ore del proprio tempo. Il tempo di lavoro resta l'unità di misura della partecipazione individuale alla realizzazione del piano e al corrispondente prelievo di prodotti dal fondo comune. Operazione che richiederà una semplice carta magnetica, o qualsiasi altro strumento informatico per la registrazione dell'intervento di ciascuno.

A queste misure di base realizzabili in tempi abbastanza brevi, dovranno seguire, contemporaneamente,  programmi di più lungo respiro ma di cruciale importanza. Sviluppare le numerose aree arretrate del pianeta e riequilibrare la distribuzione dei mezzi di produzione, è uno di questi. Come pure mettere mano all'annoso problema del rapporto tra città e campagna, e invertire drasticamente la dinamica al gigantismo abitativo delle megalopoli. Consumo del suolo e inquinamento sono problemi legati indissolubilmente al degrado dell'ambiente, argomenti improrogabili per la salvezza della specie umana.

Gli organi direzionali della pianificazione

La pianificazione socio-economica dovrà avvalersi di una rete organizzativa composta dai consigli o soviet di fabbrica dei lavoratori partendo dalle singole unità produttive, le quali si coordineranno a livello territoriale, nazionale e sovranazionale sino al soviet mondiale. I delegati responsabili dovranno essere eletti dalle assemblee e potranno essere revocati in qualsiasi momento. I bisogni dovranno essere regolati con equilibrio man mano che la pianificazione si estenderà geograficamente sino a comprendere tutto il pianeta. L'interscambio informativo e gestionale tra l'organo centrale e quelli decentrati dovrà essere costante, in modo che le informazioni e i bisogni provenienti dalla base abbiano una super visione complessiva centrale. Dare inizio a questo processo inizialmente non sarà certamente semplice: ci vorrà tempo e bisogno di una continua messa a punto dei risultati ottenuti e di aggiustamento degli errori o dei limiti emersi. Il sistema dovrà avere una sua permanente elasticità in grado di rielaborare i propri paradigmi in perenne divenire: “Il piano , in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso considerati in rapporto tra di loro e in rapporto alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. Gli uomini sbrigheranno ogni cosa in modo assai semplice senza l'intervento del famoso 'valore'.”10

La riuscita della pianificazione economica è nelle mani della classe lavoratrice, non esiste nessun'altra scorciatoia. La partecipazione diretta alla vita della comunità deve diventare una specie di automatismo, una cosa “normale”, come nel capitalismo sono considerati spontanei il mercato e la concorrenza, feticci tanto cari e indispensabili alla teoria economica borghese. I teorici liberali sostengono, avendo sempre come riferimento gli ex paesi del cosiddetto socialismo reale, sui quali abbiamo già detto sopra, che la gestione statale dell'economia è fallimentare, in quanto sarebbe troppo complicato gestire tutta l'economia centralmente. Senza il mercato e il denaro non si avrebbero punti di riferimento per stabilire il grado di efficienza di un sistema. Alla fine regnerebbero l'inefficienza, lo spreco e la miseria. A tali ragionamenti rispondono le crisi devastanti del capitalismo, come l'attuale, con tutte le conseguenze sociali che ne derivano. La dottrina economica borghese non concepisce che si possa produrre efficientemente in un altro modo, compatibile con la giustizia sociale e la salvaguardia dell'ambiente. Essa pensa che lo sfruttamento, il profitto e l'anarchia della produzione attengano alla natura umana, che il capitalismo sia eterno e  che dunque bisognerebbe convivere con le sue insanabili contraddizioni o al massimo adoperarsi per tenerle sotto controllo.

L'efficienza e il risparmio del tempo di lavoro sono le condizioni indispensabili per la futura società comunista. Migliorare qualitativamente le forze produttive, quando questo potrà diventare il principale criterio di valutazione, per aumentare il tempo libero disponibile, sarà l'indicatore del progresso e dell'ulteriore passo in avanti della società, la quale, nella fase successiva di comunismo realizzato, non avrà nemmeno più bisogno di misurare la distribuzione dei prodotti col corrispondente tempo di lavoro individuale: “Il risparmio di tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero,ossia del tempo dedicato allo sviluppo pieno dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del lavoro. Esso può essere considerato, dal punto di vista del processo di produzione immediato, come produzione di capitale fisso; questo capitale fisso è l'uomo stesso... Il tempo libero – che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori -  ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato. Il quale è, insieme, disciplina, se considerato in relazione all'uomo che diviene, ed esercizio, scienza sperimentale, scienza materialmente creativa e oggettivantesi, se considerato in relazione all'uomo divenuto, nel cui cervello esiste il sapere accumulato della società.”11

La pianificazione comunista antitesi alla devastazione del pianeta

Per concludere è doverosa una breve riflessione sul rapporto uomo-natura che nel modo di produzione capitalistico raggiunge l'apice della insensatezza. Sono sempre più numerosi gli allarmi che le stesse organizzazioni internazionali borghesi lanciano da anni per segnalare il degrado inarrestabile del pianeta. Alle parole non seguono i fatti perché non rientra nella natura del capitalismo porre ostacoli o costi supplementari al suo processo di autovalorizzazione. Tutte le società umane che si sono succedute hanno avuto un impatto conflittuale con la natura, i danni dell'uomo sull'ambiente sono testimoniati sin dall'antichità. Il capitalismo li ha moltiplicati all'infinito mettendo a rischio la stessa vivibilità futura sul pianeta. Inquinamento della terra, dell'aria, dei fiumi, dei mari, cambiamenti climatici con devastanti conseguenze sono all'ordine del giorno. L'autodistruzione è una peculiarità esclusiva della specie umana. A questo proposito sono profetiche le parole di Engels: “L'animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l'uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l'ultima, essenziale differenza tra l'uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze.”12

Il processo di accumulazione capitalistico è illimitato dal punto di vista del capitale stesso, è la sua stessa condizione di funzionamento. Ma questa sua necessità assoluta si scontra con i limiti della natura, con la finitezza del mondo. E' un meccanismo impersonale che consuma ogni cosa, esso trova nel capitalista la sua asservita volontà operativa, che non può fare altro che quello che fa per tenere in vita la sua creatura. Il capitalismo è l'ultima forma di società naturale, cioè di organizzazione sociale classista in cui prevale l'irrazionalità nei rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura, dove a dettare le azioni sembra essere una forza cieca:“Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfanno questi bisogni; la libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò: che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa.”13

Lo stato dell'ambiente è palesemente una questione globale, la struttura ecologica del pianeta è la negazione dei localismi nazionali. Pensare di schivare i disastri, o differirli nel tempo, delocalizzando le produzioni, soprattutto le più nocive, nei paesi del Sud del mondo a basso costo della manodopera o con regimi maggiormente accondiscendenti, è pura follia. I danni prodotti dal modo di produzione capitalista non hanno barriere, e il loro superamento risiede, ancora una volta, nella soluzione della questione sociale, nel programma comunista per l'abbattimento di questo sistema.

Crisi economiche  e disastri ambientali sono lì a testimoniare che c'è bisogno di comunismo. Come diceva Marx già cento cinquanta anni fa, l'uomo socializzato deve regolare il proprio ricambio organico con la natura in modo equilibrato, e lo può fare solamente, una volta valutati i bisogni della collettività, pianificando la produzione e tenendo nella massima considerazione la tutela dell'ambiente. Armonizzare il rapporto tra natura e uomo, non bisogna dimenticare che l'uomo stesso è natura, è un compito fuori portata per il capitalismo, il quale, appunto, è dominato dalla forza cieca del profitto. Deve intervenire, allora, la capacità cosciente e razionale degli individui associati per disciplinare una problema improcrastinabile. La pianificazione economica e sociale dovrà farsi carico, con un approccio scientifico multidisciplinare, di mettere mano a questa immane emergenza che il capitalismo lascerà in eredità: il dissesto ecologico è una priorità assoluta, pena l'invivibilità del pianeta.



1 Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, volume primo. Oscar Studio Mondadori, 1977, pag. 18.

2 Friedrich Engels, Antidühring. Editori Riuniti, Roma 1971, pag. 297.

3 Michael Caser e Janusz G. Zieliński, La pianificazione nell'Europa orientale. La gestione statale dell'industria. Feltrinelli Editore, Milano 1975, pagg. 88-89.

4 Ivi, pagg. 172-173.

5 Michael Cox, Chris Goodey, Bohdan Kravčenko, Goffrey Kay, Hillel H. Ticktin, Il compromesso sovietico. Per la critica dell'economia politica dell'URSS. Feltrinelli Editore, Milano 1977, pagg. 176-177.

6 Karl Marx, Indirizzo del consiglio generale della Associazione Internazionale dei Lavoratori sulla guerra civile in Francia nel 1871. tratto da Karl Marx, Opere - lotta politica e conquista del potere, Newton Compton Editori, Roma 1975, pagg. 820-821.

7 V. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, in Opere Scelte – IV volume, Editori Riuniti, Roma ed Edizioni Progress, Mosca, 1975, pagg. 668-669-684.

8 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, in Opere Complete – volume V, Editori Riuniti, Roma 1972, pag. 34.

9 Karl Marx, Il Capitale. Libro primo. Editori Riuniti, Roma 1977, pagg. 110-111.

1 0 Friedrich Engels, Antidühring, op. cit., pag. 330.

1 1 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica. Vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1978, pag. 410.

1 2 Friedrich Engels, Dialettica della natura. Editori Riuniti, Roma 1978, pag. 192.

1 3 Karl Marx, Il Capitale. Libro terzo, op. cit. pag. 933.