Transizione: abolire lo scambio delle merci per distribuire prodotti

Creato: 15 Ottobre 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 4284
Dalla  rivista  D-M-D' n °5
La ricchezza della società capitalistica si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare”. E’ l’oggetto, quasi misterioso per la quantità di relazioni che implica, su cui regge tutta l’impalcatura della società borghese. L’operaio, ridotto a merce al pari di tutte le altre, col suo lavoro genera la ricchezza e permette al capitale di accumularsi. Tutto questo dovrà essere abolito se si vorrà una società liberata dalla schiavitù salariata. Alla società dello scambio delle merci, Marx contrappone la società della distribuzione dei prodotti. Si tratta dell’abolizione dello sfruttamento e del più grande rivolgimento sociale della storia.
Introduzione.

Riprendiamo il tema della Transizione per mettere a fuoco alcune fondamentali linee di intervento necessarie al superamento del modo di produzione capitalistico: si  tratta dell’abolizione delle principali categorie economiche della società borghese e della loro sostituzione con quelle della società socialista. Riprendendo i primi capitoli del Libro Primo de Il capitale, dobbiamo richiamare alcuni fondamentali concetti con i quali Marx identifica il capitalismo.

Richiamando la teoria del valore-lavoro, siamo costretti a una lunga introduzione e a lunghe citazioni, entrambe necessarie. Questa parte è rivolta soprattutto a chi non conosce sufficientemente il pensiero economico di Marx, soprattutto alle giovani generazioni a cui l’asfissiante cappa del pensiero ideologico borghese ha tolto ogni riferimento teorico per la comprensione dei meccanismi di funzionamento dell’attuale società e dei rapporti di classe che vi presiedono. L’intento non è quello di fornire una lettura sostitutiva ai testi originali ma quello di indicare una traccia di studio che serva da guida alla lettura delle opere originali.

Inoltre il richiamo della teoria del valore-lavoro e la definizione degli interventi economici volti all’eliminazione del capitalismo permetteranno di avere a disposizione gli strumenti concettuali per distinguere il programma per il rivoluzionamento della società borghese dalle varie proposte del riformismo socialisteggiante che oggi, in tempo di crisi, si ripropongono con una nuova vitalità ma che si risolvono sempre e comunque in un sistema di idee volto alla conservazione del capitalismo.

La merce.

Marx, nella Prima sezione de Il capitale, inizia con l’analisi della merce.

“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce… L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso. Ma questa utilità non aleggia nell'aria. E' un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, un diamante, ecc., è quindi un valore d'uso, ossia un bene… I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio… Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso d'un tipo sono scambiati con valori d'uso di altro tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi… Come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d'uso. Ma, se si prescinde dal valore d'uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro… Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto… il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali. Ognuna di queste forze-lavoro individuali è una forza-lavoro umana identica alle altre, in quanto possiede il carattere di una forza-lavoro sociale media e in quanto opera come tale forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro necessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un qualsiasi valore d'uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro…Quindi è soltanto la quantità di lavoro socialmente necessario, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario per fornire un valore d'uso che determina la sua grandezza di valore… La grandezza di valore di una merce rimarrebbe quindi costante se il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, e da situazioni naturali… In generale: quanto maggiore la forza produttiva del lavoro, tanto minore il tempo di lavoro richiesto per la produzione di un articolo, tanto minore la massa di lavoro in esso cristallizzata, e tanto minore il suo valore. Viceversa, tanto minore la forza produttiva del lavoro, tanto maggiore il tempo di lavoro necessario per la produzione di un articolo, e tanto maggiore il suo valore. La grandezza di valore di una merce varia dunque direttamente col variare della quantità e inversamente col variare della forza produttiva del lavoro che in essa si è realizzato… Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore d'uso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d'uso, ma valore d'uso per altri, valore d'uso sociale. (E non solo per altri semplicemente. Il contadino medievale produceva il grano d'obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete. Ma né il grano d'obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto d'essere prodotti per altri. Per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso all'altro, a cui serve come valore d'uso, mediante lo scambio)… E, infine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d'uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore..”1

Lo scambio delle merci e il denaro.

Marx, dopo aver definito il valore d’uso e il valore di scambio della merce, passa ad analizzare le relazioni che intercorrono tra le diverse merci quando si scambiano nel mercato.

Ci avvaliamo di quanto ho scritto in proposito Carlo Cafiero, importante divulgatore dell’Ottocento, che sintetizza efficacemente quanto Marx analizza estesamente nella Prima sezione de Il capitale intitolata Merce e denaro.

“Ora, la base del valore di scambio, o valore propriamente detto, è il lavoro umano richiesto per la produzione. La merce è procreata dal lavoratore; il lavoro umano è la sostanza generativa che le dà l'esistenza. Tutte le merci adunque, benché diverse fra loro per le qualità, sono perfettamente simili nella sostanza, perché, figlie di un medesimo padre, hanno tutte il medesimo sangue nelle loro vene. Se 20 chili di caffè si scambiano con un abito, o con 20 metri di tela, egli è appunto perché per produrre 20 chili di caffè ci vuole tanto lavoro umano, quanto ce ne vuole per produrre un abito, o 20 metri di tela. La sostanza dunque del valore è il lavoro umano, e la grandezza del valore è determinata dalla grandezza dello stesso lavoro umano. La sostanza del valore è la stessa in tutte le merci; dunque non resta che eguagliarne la grandezza, perché le merci siano, come espressione di valore, tutte uguali fra loro, tutte scambiabili cioè l'una con l'altra. La grandezza del valore dipende dalla grandezza del lavoro; in 12 ore di lavoro si produce un valore doppio di quello che si produce in sei ore solamente. Dunque, direbbe alcuno, più un operaio è lungo a lavorare, per inabilità o per pigrizia, più valore produce. Niente di più falso. Il lavoro, che forma la sostanza del valore, non è il lavoro di Pietro o di Paolo, ma un lavoro medio, che è sempre uguale, e che è detto propriamente lavoro sociale. Esso è quel lavoro, che, in un dato centro di produzione, può farsi in media da un operaio, il quale lavori con una media abilità ed una media intensità”.2

Così il Cafiero descrive lo scambio: “Le merci, dunque, si scambiano tra loro; l'una, cioè, si presenta come l'equivalente dell'altra. Per la maggiore comodità degli scambi si comincia a servirsi sempre di una data merce come equivalente; la quale esce così dal rango di tutte le altre, per mettersi di fronte ad esse quale equivalente generale, cioè moneta. La moneta perciò è quella merce che, per la consuetudine e per la sanzione legale, ha monopolizzato il posto di equivalente generale. Così è avvenuto da noi per l'argento. Mentre prima 20 chili di caffè, un abito, 20 metri di tela e 250 grammi di argento erano quattro merci, che si scambiavano indistintamente fra loro, oggi invece si ha che 20 chili di caffè, 20 metri di tela ed un abito sono tre merci, che valgono 250 grammi di argento, cioè 50 lire. Però, sia che lo scambio si faccia immediatamente da merce a merce, sia che lo scambio si faccia mediante la moneta, la legge degli scambi resta sempre la stessa. Una merce non si può mai scambiare con un'altra, se il lavoro che ci vuole per produrre l'una non è uguale al lavoro che ci vuole per produrre l'altra. Questa legge bisogna tenerla bene in mente, perché sopra di essa è fondato tutto ciò che verremo a dire in seguito. Venuta la moneta, gli scambi diretti od immediati, da merce a merce, finiscono. Gli scambi devono farsi tutti, d'ora in poi, mediante la moneta; dimodoché una merce che voglia trasformarsi in un'altra, deve, prima, da merce trasformarsi in moneta, poi da moneta ritrasformarsi in merce. La formula degli scambi, dunque, non sarà più una catena di merci, ma una catena di merci e moneta”.3

Notiamo che il Cafiero, per necessità divulgativa, passa a trattare subito la moneta mentre Marx ci arriva solo dopo aver analizzato la funzione dell’oro e dell’argento come denaro. Tralasciamo di approfondire questo aspetto. Questo non ci impedisce di mettere in luce ciò che vi è di essenziale ai fini dell’analisi che condurremo, ovvero il fatto che, storicamente, ad un determinato stadio dello sviluppo del commercio, si sia affermato il denaro come equivalente generale delle merci. Il denaro, in quanto merce particolare, il cui valore è dato, come per tutte le altre merci, dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrlo, è stato sostituito successivamente dalla moneta coniata dallo Stato, cioè da un ente certificatore, riconosciuto dalla società, atto a garantirne peso e qualità. Successivamente ancora, quando lo sviluppo del commercio ha determinato un ulteriore allargamento del mercato, lo Stato ha sostituito la moneta coniata con la banconota cartacea, del tutto priva di valore ma che permetteva ugualmente lo scambio, evitando gli inconvenienti della moneta metallica, in primo luogo il suo consumo e la conseguente perdita di peso.

La formula generale D-M-D’.

Nella Seconda sezione de Il capitale Marx analizza il processo generale dello scambio delle merci.

Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione.

La forma insediata della circolazione delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M.D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro nel suo movimento descrive quest’ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione…

Ora è evidente, certo, che il processo di circolazione D-M-D sarebbe assurdo e senza sostanza se si volesse servirsene come d’una via indiretta per scambiare l’identico valore in denaro contro l’identico valore in denaro, dunque, per es., cento lire sterline contro cento lire sterline. Rimarrebbe più semplice e più sicuro, senza paragone, il metodo del tesaurizzatore, che tiene strette nel suo cento sterline e non le abbandona al pericolo della circolazione.”4

Marx giunge così alla formula generale del processo di accumulazione del capitale, quella che mostra il tratto distintivo della società borghese che si fonda sullo sfruttamento della forza-lavoro dell’operaio. Questo sfruttamento permette al capitale di accrescersi indefinitamente, pur all’interno di quelle contraddizioni che Marx individua e descrive nel Terzo libro de Il capitale. Qui vogliamo solo mostrare il tratto caratteristico, l’accumulazione del capitale, che distingue la società borghese da tutte le altre che l’hanno preceduta.

“La forma completa di questo processo è quindi D-M-D’, dove D’=D+D, cioè è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore (surplus value) questo incremento, ossia questa eccedenza di valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa si altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale.”5

Ci pare opportuno evidenziare che il ciclo che termina con il denaro accresciuto non implica affatto che il capitalista persegua la valorizzazione del capitale per il proprio godimento, per il proprio consumo di valori d’uso bensì per l’accrescimento del capitale in quanto tale a causa della concorrenza che si genera nel mercato con gli altri capitalisti. Perciò l’accumulazione del capitale è un processo che parte dal singolo capitalista, ma che lo stesso capitalista subisce come processo a lui immanente, per effetto del mercato in cui opera, che lo costringe alla perpetua accumulazione senza la quale sarebbe certo il suo declino, o per il fallimento della sua impresa o per l’assorbimento di essa da parte di un’impresa più forte.

“… la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza  misura. Il possessore di denaro diventa capitalista nella sua qualità di veicolo consapevole di tale movimento. La sua persona, o piuttosto la sua tasca, è il punto di partenza e di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione - la valorizzazione del valore – è il suo fine soggettivo, ed egli funziona come capitalista, ossia capitale personificato, dotato di volontà e consapevolezza, solamente in quanto l’unico motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore d’uso non deve essere mai considerato fine immediato del capitalista. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare”.6

La produzione del plusvalore.

Delineato il processo di accumulazione, tipico della società capitalistica, Marx nella Terza sezione de Il capitale passa ad analizzare il meccanismo dello sfruttamento della forza-lavoro, cioè il processo con cui il capitale fa produrre ricchezza per appropriarsene e per accumularsi.

“…per il nostro capitalista si tratta di due cose: in primo luogo egli vuol produrre un valore d’uso che abbia un valore di scambio, un articolo destinato alla vendita, una merce; e in secondo luogo vuol produrre una merce il cui valore sia più alto della somma dei valori delle merci necessarie alla sua produzione, i mezzi di produzione e la forza-lavoro, per le quali ha anticipato sul mercato il suo buon denaro. Non vuole produrre solo un valore d’uso, ma una merce, non soltanto valore d’uso, ma valore, e non soltanto valore, ma anche plusvalore….”7

“…il lavoro trapassato, latente nella forza-lavoro, e il lavoro vivente che può fornire la forza-lavoro, cioè i costi giornalieri di mantenimento della forza-lavoro e il dispendio giornaliero di questa, sono due grandezze del tutto diverse. La prima determina il suo valore di scambio (il cui prezzo assume la forma di salario, ndr), l’altra costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all’operaio di lavorare per una giornata intera. Dunque il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista quando comperava la forza-lavoro…

Il possessore di denaro (il capitalista, ndr) ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di tutt’un giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza-lavoro costi soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata - e che quindi il valore creato durante una giornata superi del doppio il suo proprio valore giornaliero - è una fortuna particolare per il compratore…

Il nostro capitalista ha preveduto questo caso, che lo mette in allegria. Quindi il lavoratore trova nell’officina non solo i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di sei ore, ma quelli per dodici ore”.8 Nella citazione ovviamente, il mantenimento giornaliero della forza-lavoro pari a mezza giornata lavorativa è solo un esempio.

“Il capitalista, trasformando denaro in merci che servono per costituire il materiale di un nuovo prodotto, ossia servono come fattori del processo lavorativo, incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore autovalorizzantesi;9 mostro animato che comincia a “lavorare” come se avesse amore in corpo.

Ma confrontiamo ora il processo di creazione di valore e il processo di valorizzazione: quest’ultimo non è altro che un processo di creazione di valore prolungato al di là di un certo punto. Se il processo di creazione di valore durasse soltanto fino al punto nel quale il valore della forza-lavoro pagato dal capitale è sostituito da un nuovo equivalente, processo semplice di creazione di valore; se il processo di creazione di valore dura al di là di quel punto, esso diventa processo di valorizzazione”.10

Con questo Marx spiega il processo di sfruttamento dell’operaio.11 In sintesi, l’operaio lavorando produce più valore di quello che consuma per vivere (in questo è merce particolare che si differenzia da tutte le altre merci), il capitalista se ne appropria (plusvalore) e in questo modo, dopo aver venduto le merci prodotte dall’operaio che incorporano il nuovo valore creato, realizza il profitto e accumula il capitale. Marx ci svela così la fonte della ricchezza, cosa che gli economisti precedenti non erano riusciti a fare a causa del loro angusto punto di vista borghese.

Dopo questo lungo richiamo alla teoria del valore-lavoro e al processo di accumulazione del capitale, abbiamo a disposizione le categorie economiche su cui durante la Transizione, quando il proletariato avrà fatto la sua rivoluzione politica e avrà in mano il governo della società per mezzo del suo Semi-Stato, si dovrà intervenire per avviare il processo di riorganizzazione della produzione e, di conseguenza, della società intera.

L’abolizione delle merci e del denaro.

“Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. L’anarchia all’interno della produzione sociale viene sostituita dall’organizzazione cosciente secondo un piano”.12

Ecco, in sintesi, il programma economico della Transizione: l’abolizione della legge del valore-lavoro e dello scambio delle merci. Naturalmente stiamo parlando della situazione, come viene precisato da Engels nella citazione, in cui i più importanti mezzi di produzione siano stati già socializzati; aggiungiamo che questo deve avvenire in un’area sufficientemente estesa a scala mondiale per poter avviare il processo di smantellamento delle categorie economiche del capitalismo. Il semi-Stato, organizzato localmente e centralizzato nel soviet (consiglio) mondiale, nel momento in cui disponesse del controllo delle più importanti forse produttive, disporrebbe dei mezzi per attaccare la legge del valore abolendo le principali categorie economiche della società capitalistica. La centralizzazione del potere e l’estensione dell’area rivoluzionaria, consentirebbero di governare il processo con il piano economico centralizzato, piano definito in funzione dei bisogni rilevati perifericamente. Lo scambio di informazioni tra centro e periferia, facilitato dalle attuali tecnologie, sarebbe un aspetto fondamentale del processo di partecipazione delle masse al processo decisionale.

Precisiamo che tutto il processo di trasformazione economica, complesso per estensione ed intensità, è indefinibile a priori, dato che non si può prevedere quante e quali forze produttive vengano socializzate dal processo rivoluzionario. Sicuramente dovrà trattarsi delle principali industrie, di quelle che costituivano i settori portanti dell’economia capitalistica; viceversa non si avrebbe alcuna possibilità, come più volte detto, di avviare alcun processo di transizione.

Nella Rivoluzione d’Ottobre la limitatezza del controllo delle principali forze produttive ha posto problemi drammatici. La grande industria, disastrata dalla guerra ed economicamente poco rilevante, era solo all’inizio del suo sviluppo e la terra era in mano soprattutto ai contadini ricchi. L’industria era presente in poche città e la parte preponderante dell’economia era costituita dall’agricoltura in cui era impiegata la quasi totalità della popolazione. Oggi la situazione, ovunque, è completamente differente. Ogni settore industriale ha raggiunto dimensioni gigantesche, estendendosi addirittura a scala mondiale, metà della popolazione risiede ormai nei grandi agglomerati urbani mentre le campagne si spopolano e l’attività agricola diventa sempre più marginale rispetto ai flussi finanziari globali. In queste condizioni l’avvio del processo rivoluzionario in un’area ad alta industrializzazione non potrebbe che innescare, a causa dell’interdipendenza economica raggiunta dall’economia mondiale, uno scontro di classe che avrebbe immediatamente carattere internazionale. Se il proletariato ne uscisse vittorioso, cosa tutt’altro che scontata visto che l’esito dello scontro dipende da una infinità di fattori, controllerebbe un potenziale produttivo di dimensioni gigantesche. Grazie a questa forza avrebbe la possibilità di incidere profondamente sulle categorie economiche e sulle leggi del capitalismo, e avrebbe la possibilità di avviare il processo di trasformazione dell’intera società mondiale. Oggi, con il mercato pienamente sviluppato a scala globale, tutto ciò sarebbe possibile. Non ci dilunghiamo su questo tema dato che ne abbiamo già parlato nel numero precedente della rivista.

Torniamo all’abolizione della legge del valore-lavoro e dello scambio delle merci. Premettiamo che se si abolisse lo scambio basato sul valore delle merci, e con questo il carattere di merce dei prodotti stessi, si potrebbe abolire il denaro come mezzo di scambio e di appropriazione della ricchezza socialmente prodotta. Accanto a questo, l’abolizione della produzione del plusvalore e del ciclo D-M-D’, eliminerebbe l’accumulazione del capitale. Si aprirebbe così la strada all’affermazione di un modo di produzione fondato sull’uso collettivo e consapevole dei mezzi di produzione.

La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire sulla unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero.13

Appena questo processo di trasformazione ha decomposto a sufficienza l’antica società in profondità ed estensione, appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma l’ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente, cioè in mezzi di produzione collettivi, e quindi assume una forma nuova anche l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati. Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai.

Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in maniera sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento… Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori diventano espropriati…si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo.”14

Questa analisi, compiuta circa centocinquanta anni fa, ci sorprende per la sua attualità; essa individua il fenomeno dell’impoverimento generale della società come tendenza storica del capitalismo. È quello che si sta verificando oggi, un fenomeno accentuato dalla crisi economica, una crisi che coinvolge anche ampi strati della piccola borghesia buttandoli sul lastrico e proletarizzandoli. Se consideriamo il periodo storico in cui il capitalismo si afferma, si sviluppa e decade, oggi, molto di più che solo pochi decenni fa, sono giunte a maturazione le condizioni obiettive per il superamento del modo di produzione capitalistico.15

Il carattere sociale della produzione si è definitivamente affermato con una divisione del lavoro che  ha carattere mondiale e, di contro, la concentrazione della ricchezza e della proprietà del capitale hanno assunto dimensioni che la storia mai aveva conosciuto. A tal punto che, a causa degli sconquassi economici e sociali che producono, “diventano incompatibili col loro involucro capitalistico” e pongono l’umanità intera di fronte al problema della necessità dell’abbattimento dei vincoli che la società borghese pone a qualsiasi ulteriore sviluppo della società stessa. Che il proletariato, la classe sociale potenzialmente rivoluzionaria, sia di fronte a questo problema non significa affatto che sia nelle condizioni di poterlo risolvere ed è proprio questa la situazione di oggi. Vogliamo ribadire questo concetto per evitare qualsiasi equivoco.

Abbiamo già visto le condizioni entro cui il superamento del modo di produzione capitalistico possa avvenire: l’alto grado di sviluppo delle forze produttive e un processo rivoluzionario affermato a scala mondiale. Si tratta di due condizioni fondamentali senza le quali non è possibile pensare di avviare alcun processo di Transizione al comunismo.16 Del processo di internazionalizzazione dell’evento rivoluzionario e del fatto che non sia possibile una fase temporalmente lunga di convivenza dell’area rivoluzionaria colla restante area capitalistica abbiamo detto nel numero precedente della rivista.

Nelle condizioni ora richiamate, l’abolizione del valore di scambio e del connesso scambio delle merci, la loro sostituzione con la semplice distribuzione dei prodotti, ovvero dei valori d’uso, basato solo sulle quantità necessarie a soddisfare un bisogno, sono il passaggio obbligato e il punto di partenza per la transizione al comunismo. Il denaro allora perderebbe la sua funzione, non avrebbe più ragione d’esistere e di conseguenza potrebbe essere abolito. Il valore di scambio, le merci e il denaro rimarrebbero per un tempo e uno spazio limitati, solo nei settori dell’economia non ancora socializzati dal processo rivoluzionario.

La distribuzione dei prodotti tra i diversi settori della produzione.

Marx divide la produzione sociale in due grandi sezioni: la prima è quella che produce i mezzi di produzione, la seconda i mezzi di consumo. La socializzazione dei mezzi di produzione, indispensabile per i settori più importanti delle due sezioni, consentirà di avviare la produzione su nuove basi, svincolate dalla legge del valore-lavoro. Per produrre un nuovo valore d’uso sarà sempre necessario un determinato tempo di lavoro da parte dell’operaio, l’impiego e il consumo di materie prime e di macchine. Di queste ultime se ne consumerà nel ciclo produttivo una parte che, nel tempo, dovrà essere prodotta e rimpiazzata. Dunque tra i settori socializzati, della prima e seconda sezione, verranno distribuiti determinati prodotti, nelle quantità necessarie a realizzare nuovi prodotti, fino a quelli destinati al consumo. Questa distribuzione è altra cosa rispetto allo scambio della società capitalistica. Lì, lo scambio avviene con la vendita delle merci e con l’uso del denaro, qui, una unità produttiva (una fabbrica) fornisce prodotti nelle quantità necessarie ad un’altra per permetterle di compiere la sua produzione, così fino a realizzare un valore d’uso in grado di soddisfare un bisogno. Il piano economico, tanto più preciso e aderente ai bisogni sociali, quanto più potrà avvalersi di sofisticati modelli statistico-matematici e delle più avanzate tecnologie per il trattamento dei dati e per la comunicazione, definirà le risorse umane e le quantità di valori d’uso (prodotti) necessarie all’attività di ogni unità produttiva. Ad esempio, consideriamo per semplicità due aziende, la prima che produca solo cavi elettrici, la seconda che produca solo motori elettrici. Ora una industria, la prima, che producesse per un’altra, dovrebbe consegnarle le quantità di cavi necessari alla produzione di determinate quantità di motori elettrici senza nessuna transazione economica, senza nessuna vendita, senza avere in cambio del denaro. L’operazione verrebbe solo contabilizzata dal piano. Sarebbe così adempiuto un atto, elementare, della distribuzione complessiva dei prodotti prevista dal piano economico. Ai lavoratori impiegati nelle due aziende a fine mese verrebbe rilasciata una certificazione del lavoro svolto per ritirare nel mese successivo, dai magazzini sociali, i valori d’uso per il loro consumo familiare. Di questa certificazione parleremo più diffusamente dopo.

Questo, in generale, per la distribuzione dei prodotti tra i settori socializzati della produzione.

In determinate sfere secondarie dell’economia invece, ci si potrebbe trovare di fronte all’assenza del controllo del proletariato dei mezzi di produzione e della relativa socializzazione. Potrebbe trattarsi di piccole produzioni agricole, di servizi per le imprese, di servizi per la persona, di piccole attività di trasporto, ecc.. Questa situazione, che nella rivoluzione del Diciassette è stata un enorme problema, soprattutto nelle campagne dove si esprimeva la resistenza alla rivoluzione da parte della piccola borghesia contadina, oggi si presenterebbe molto semplificata dato che lo sviluppo capitalistico della grande industria ha già marginalizzato le piccole imprese, rendendole completamente dipendenti da essa. La possibilità da parte del proletariato di procedere rapidamente, avvalendosi del piano economico, all’organizzazione in proprio e su larga scala delle attività non socializzate, metterebbe in breve tempo fuori gioco le imprese di piccole dimensioni. Senza dimenticare che, se la resistenza politica od economica di tali settori si facesse sentire negativamente, si avrebbe anche a disposizione la forza per una socializzazione forzata.

Notiamo che il declino della piccola borghesia è un processo in atto già oggi nella stessa economia capitalistica, dove le grandi imprese produttive e distributive determinano con il loro potere economico la continua moria di migliaia di piccole e piccolissime aziende. E’ cronaca degli ultimi mesi la tragica sequela di suicidi dei piccoli imprenditori europei, impossibilitati a continuare la loro attività economica e disperati per la loro incipiente proletarizzazione. L’attuale fenomeno del ridimensionamento della piccola impresa rappresenta un altro fattore a favore della possibilità del socialismo, cioè della produzione organizzata su larga scala al servizio dei bisogni sociali. Dunque, la circolazione delle merci e del denaro in sfere secondarie dell’economia non dovrebbe rappresentare un grosso ostacolo al processo di transizione.

In ogni caso, tra le sfere della produzione socializzata e le sfere della produzione non socializzata il denaro e lo scambio sussisterebbero ancora e la legge del valore-lavoro sarebbe operante ma, come si può capire da quanto abbiamo detto, si tratterebbe del permanere dello scambio delle merci e della circolazione del denaro per un tempo e uno spazio limitati; di fronte a un rivolgimento mondiale della portata che ipotizziamo, è presumibile che questo problema possa essere affrontato  con l’avanzare del processo di transizione stesso.

Merita un cenno il fatto che il piano economico abolirebbe, non appena possibile, tutte le attività presenti nella società capitalistica legate alla vendita delle merci, alla presenza del denaro, all’esistenza del credito, della finanza, ecc. Molte di queste potrebbero essere abolite immediatamente. Si avrebbero a disposizione enormi risorse, innanzitutto umane, per delle attività di tutt’altra natura. Di questo parleremo più dettagliatamente in futuro, quando analizzeremo i vantaggi dell’economia di piano rispetto a quella di mercato del capitalismo.

L’abolizione del salario, del plusvalore e dell’accumulazione.

Nell’ipotesi dell’avvio del processo di transizione, nell’area in cui il processo rivoluzionario avesse prodotto la socializzazione delle forze produttive mediante l’abolizione della proprietà borghese, con l’abolizione dello scambio delle merci, ovvero con l’abolizione delle scambio basato sulla vendita delle merci, si abolirebbe anche la vendita della forza-lavoro, merce per eccellenza destinata alla produzione di plusvalore e allo sfruttamento da parte del capitale. Abolendo il salario e il plusvalore, si eliminerebbero, insieme al denaro, le basi materiali per l’esistenza del capitale e del suo processo di accumulazione. Si delineerebbe in questo modo la nuova società, una società che produrrebbe e distribuirebbe senza le merci, cioè distribuirebbe prodotti senza l’uso del denaro ed  esclusivamente sulla base delle quantità necessarie a soddisfare dei bisogni, sia che si tratti del consumo individuale, sia che si tratti di fornire a una qualsiasi attività produttiva un prodotto utile alla sua produzione. Così, senza merci, senza denaro e senza capitale, la società potrebbe produrre per finalità diverse da quelle della società borghese. La produzione non sarebbe una produzione di merci finalizzata al profitto e all’accumulazione di capitale ma una realizzazione e distribuzione di prodotti finalizzati a soddisfare i bisogni sociali definiti dal piano economico, piano elaborato dagli organismi dello stato proletario. Sottolineiamo che i cosiddetti bisogni e i relativi mezzi per soddisfarli, (si tratti del riempimento della pancia o dell’ascolto della musica più raffinata) saranno senza dubbio completamente ridefiniti di fronte al rivolgimento sociale che il processo rivoluzionario determinerebbe. Non avrebbe senso oggi addentrarsi nella previsione di tali cambiamenti. Diciamo solo che un’infinità di merci inutili prodotte dal capitalismo verrebbe soppiantata da nuovi prodotti volti a soddisfare bisogni completamente diversi da quelli precedenti caratterizzati dal consumo tipico dell’economia capitalistica; si tratterebbe di nuovi bisogni incentrati sulla necessità di sviluppare una produzione sociale, una produzione al servizio degli uomini, una produzione finalizzata a consentire agli uomini la più ampia realizzazione delle loro molteplici facoltà umane.

Vediamo cosa dice Marx sulla produzione socializzata considerando, a rivoluzione politica avvenuta, lo scambio tra il lavoro e i prodotti del lavoro. Marx, nella Critica al programma di Gotha,17 Lenin poi riprende in Stato e rivoluzione18 i medesimi concetti, innanzi tutto si occupa del prodotto sociale complessivo dal quale

“si deve detrarre:

primo: la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati.

secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione.

Terzo: un fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc.

Queste detrazioni…sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in base ai mezzi e alle forze presenti, in parte con un calcolo di probabilità…

Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinato a servire come mezzo di consumo. Prima di arrivare alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:

primo: le spese generali d’amministrazione che non sono pertinenti alla produzione. Questa parte è ridotta in modo considerevole rispetto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si andrà sviluppando.

Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva dei bisogni, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc.

Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc. in breve ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri.

Soltanto ora…arriviamo a quella parte dei mezzi di consumo che viene ripartita tra i produttori individuali della comunità”.19

Come si vede, il processo di accumulazione capitalistico fondato sull’estrazione del plusvalore è stato sostituito da una produzione con finalità sociali definita dal piano economico, tenuto conto di quanto serve alla società. Non esiste più plusprodotto, né plusvalore, né accumulazione di capitale e quindi la giornata lavorativa non si prolunga oltre quanto serve a produrre per soddisfare i bisogni sociali elencati sopra. La divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro, esistente nel capitalismo, sparisce. Con l’abolizione del plusvalore, verrebbero meno lo sfruttamento della forza-lavoro e un’altra fondamentale categoria economica del capitalismo.

Dunque, la produzione finalizzata all’accumulazione del capitale scompare ed è sostituita dalla produzione destinata a soddisfare, come si nota considerando le parti della produzione elencate, le diverse esigenze sociali. Notiamo che Marx, al punto secondo, afferma che serve tout court una estensione della produzione. La società capitalistica che lui osserva è caratterizzata da una ancor relativamente limitata produzione di merci e dalla penuria di mezzi di sussistenza a disposizione del proletariato. Per questo egli afferma senza altre specificazioni la necessità, nella fase di transizione, di estendere (sviluppare) le forze produttive per passare dalla penuria all’abbondanza.

Su questo punto, l’abbiamo sottolineato altre volte, noi pensiamo sia necessaria oggi un’articolazione del piano rispetto ai diversi gradi di sviluppo delle forze produttive raggiunti nelle differenti aree geografiche. Oggi il problema diventa soprattutto quello della qualità di questo sviluppo e non tanto della quantità. Per qualità intendiamo l’estensione delle forze produttive nei settori destinati a fornire prodotti che permettano il miglioramento della qualità della vita degli uomini nel pieno rispetto delle risorse dell’ecosistema Terra. In Occidente, per esempio, dove i consumi iperbolici di una produzione iperbolica hanno generato immensi problemi all’ambiente, è verosimile pensare che le forze produttive debbano essere notevolmente ridimensionate, per avere una produzione adeguata ai bisogni sociali della nuova società e rispettosa delle risorse limitate dell’ecosistema Terra. A scala mondiale poi, il capitalismo ha prodotto una situazione piuttosto differenziata. Accanto alle aree geografiche di capitalismo molto sviluppato, abbiamo delle aree in forte sviluppo, come quelle asiatiche e sudamericane, e aree ancora capitalisticamente arretrate. Il piano economico dovrà tenere conto di tutto questo e articolarsi di conseguenza ma in generale esso dovrà dare massimo sviluppo ai prodotti che serviranno a curare e migliorare la salute degli individui, ad accrescere la loro formazione culturale e professionale, a permettere che le loro inclinazioni e attitudini possano esprimersi in tutta la loro potenzialità, a sostenere una scienza libera di sviluppare la conoscenza in ogni settore ritenuto di utilità sociale e così via. Si ridurranno o elimineranno invece tutte quelle produzioni, ereditate dalla società capitalistica, che si sono sviluppate per il meccanismo di funzionamento del processo di accumulazione del capitale e che hanno portato a enormi distorsioni nei consumi individuali e a veri e propri eccessi. Naturalmente nelle aree arretrate in cui il nutrimento della popolazione non sarà stato ancora risolto, le priorità del piano economico saranno ben diverse.

Lo sviluppo delle forze produttive raggiunto oggi col capitalismo permette tutto questo. L’abbondanza dei mezzi di produzione, l’alta produttività del lavoro, la grande quantità di prodotti atti a soddisfare i bisogni legati alla sussistenza degli individui insieme a una giornata lavorativa che potrebbe ridursi fino a divenire la parte meno estesa del tempo a disposizione degli individui, mettono la società intera di fronte a una grande opportunità storica che solo il rivoluzionamento del modo di produzione capitalistico ad opera del proletariato può cogliere per trasformarsi in un grande processo di emancipazione. Ecco perché oggi, infinitamente più di ieri, riteniamo sia necessario riproporre il programma comunista. Che situazione avremmo invece se lo sviluppo delle forze produttive fosse ancora limitato? L’arretratezza delle forze produttive obbligherebbe a indirizzare la produzione al loro sviluppo, quindi all’accumulazione dei mezzi di produzione sufficienti a perseguire solo successivamente la finalità sociale della produzione. Si tratterebbe allora di attivare ancora una volta il processo di accumulazione dei mezzi di produzione a scapito dei mezzi di consumo atti a soddisfare i bisogni sociali e, di conseguenza, anche il lavoro non potrebbe essere liberato dalla costrizione di una giornata lavorativa che sarebbe finalizzata alla massimizzazione della produzione. L’esperienza storica del fallimento della Rivoluzione d’Ottobre ha mostrato come il socialismo e lo sviluppo delle forze produttive arretrate siano incompatibili.

Non è questo il problema che oggi abbiamo di fronte. Lo stesso capitalismo, col suo poderoso sviluppo, l’ha risolto. Riteniamo allora necessario mettere in guardia contro una lettura del marxismo, come ha fatto tutta la scuola di pensiero nata con lo stalinismo, che concepisca il socialismo come uno sviluppo delle forze produttive senza alcun’altra specificazione. Questa concezione potrebbe portare, come ha fatto in passato, ad aberranti concezioni produttivistiche.

Torniamo a Marx. Egli, nella Critica al programma di Gotha, considera successivamente l’abolizione del salario. In pratica, ci dice che ogni individuo dovrà lavorare per avere diritto a mangiare (principio ripreso ed enunciato nel capito quinto della costituzione del 1918 della repubblica dei soviet) e che a ognuno dovrà essere data la medesima quantità di prodotti di consumo, quantità corrispondente in valore al tempo di lavoro speso da ognuno nella produzione. Dunque, tutti gli individui della società sarebbero egualmente obbligati al lavoro e avrebbero un medesimo beneficio in termini di distribuzione dei prodotti. Marx evidenzia come questo primo fondamentale passo del socialismo abbia però un carattere ancora limitato. Con questa misura egualitaria, permarrebbe un residuo della vecchia società borghese: l’ugual diritto di ogni lavoratore a prelevare per sé una medesima parte della produzione sociale contrasterebbe con l’oggettiva diversità tra i lavoratori, diversità dovuta alle condizioni naturali e sociali della loro esistenza (uno sarebbe più forte o più debole, avrebbe più o meno bisogno di nutrirsi, avrebbe una famiglia più o meno numerosa, ecc.). Questo, dice Marx, sarebbe la conseguenza del fatto che la prima fase del comunismo, come egli chiama la fase di transizione, non sarebbe il risultato del parto di chissà quale mente illuminata ma una società che si delineerebbe a partire dalle condizioni ereditate dalla vecchia società borghese e che, dunque, sarebbe caratterizzata da inevitabili limiti, che solo successivamente potrebbero essere superati. Sentiamolo: “in una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”20

La sostituzione del salario col buono del lavoro.

Marx, pensando al programma di trasformazione della società borghese, sostituisce il salario con uno scontrino che certificherebbe la prestazione lavorativa effettuata: “la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro…e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società, in una forma, la riceve in un’altra. Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale”.21

Cosa implica l’abolizione del salario e la sua sostituzione con lo scontrino che, per meglio caratterizzarlo, chiameremo buono del lavoro? Innanzi tutto verrebbe meno il carattere di merce della forza-lavoro e sarebbe avviato il processo di smantellamento della legge del valore-lavoro. Dal punto di vista sociale, si affermerebbe l’impossibilità per qualsiasi individuo di accumulare prodotti ovvero l’impossibilità di impossessarsi di prodotti realizzati dal lavoro altrui e quindi di arricchirsi. Questo provvedimento, la sostituzione del salario col buono del lavoro, unico e uguale per tutti, porterebbe a un rivoluzionamento completo della società. Il buono del lavoro permetterebbe solo di ritirare quanto necessario per vivere per un determinato periodo di tempo fissato dal piano economico, nulla più di questo! La scadenza del buono, l’impossibilità di utilizzarlo oltre il periodo di tempo fissato, impedirebbe qualsiasi possibilità di accumulazione dei prodotti e con questo qualsiasi possibilità di arricchimento. Infine, con l’inutilizzabilità del buono oltre la scadenza verrebbe meno anche l’eventuale possibilità del riformarsi del denaro anche sotto le spoglie dello stesso buono del lavoro.

L’introduzione del buono del lavoro, attaccherebbe la legge del valore-lavoro da un altro importante punto di vista: equiparerebbe il lavoro di ogni individuo, fosse esso un lavoratore impegnato nella produzione materiale, un lavoratore impegnato in compiti direttivi, un lavoratore che si occupasse di attività inerenti il soddisfacimento di bisogni non direttamente materiali (attività nel campo dell’istruzione e della formazione, dell’assistenza all’infanzia e alla vecchiaia, dell’assistenza sanitaria, della cultura, della ricerca, dell’arte, ecc.). Col buono del lavoro, ogni unità di tempo di lavoro prestato sarebbe di identico valore, senza distinzione alcuna e avrebbe in cambio un’eguale quantità di prodotti. Ogni individuo col suo lavoro darebbe alla società in base alle proprie attitudini, competenze e capacità, e ogni individuo riceverebbe in cambio la medesima quantità di prodotti di consumo. Tutti avrebbero gli stessi obblighi lavorativi, tutti il medesimo compenso con una parte dei prodotti del lavoro sociale complessivo. Dunque, nella fase di transizione, il lavoro del chirurgo ad alta specializzazione o del più specializzato degli ingegneri, che certamente ancora esisterebbero, e il lavoro estremamente semplice dell’operaio qualsiasi che lavorasse in una qualsiasi unità produttiva, sarebbero considerati alla stessa stregua e darebbero diritto alla medesima quantità di prodotti di consumo. Così, il lavoro sarebbe ancora l’unità di misura per la distribuzione dei prodotti di consumo ma si tratterebbe di lavoro indifferenziato e non più, come avviene nel capitalismo, di lavoro differenziato che viene pagato con un diverso salario.

Inoltre, chi vieterebbe di compensare i lavori fisicamente e psicologicamente più gravosi con una ulteriore riduzione delle ore di lavoro giornaliere rispetto agli altri lavoratori? Cosicché la legge del valore-lavoro potrebbe essere ulteriormente indebolita.

Quindi, individui diversi (diverse attitudini, conoscenze, abilità, esperienze, ecc.), riceverebbero l’incentivo a lavorare non più dal mercato e dal salario ma dai vantaggi della produzione socializzata. Uno dei principali sarebbe la riduzione della giornata lavorativa, cosa possibile con l’impiego di tutti gli individui abili al lavoro e di quelli derivanti dall’eliminazione delle attività inutili sviluppate dal capitalismo. Di questo sarà necessario parlarne dettagliatamente in futuro. Qui ci basta evidenziare che la riduzione della giornata lavorativa libererà l’individuo dalla costrizione del lavoro salariato, lo libererà dalla necessità di impiegare la maggior parte del suo tempo per procacciarsi i mezzi di sussistenza e gli permetterà, col tempo di lavoro liberato di cui disporrebbe, di dedicarsi alla cura di sé e degli altri.

Peraltro, già oggi nel capitalismo, la differenziazione salariale, che presuppone l’incentivo del guadagno individuale, sta progressivamente e velocemente sparendo. L’estensione del mercato a scala mondiale e la concorrenza che si è creata nel mercato del lavoro tra le aree economiche più sviluppate e quelle più arretrate, unite al massiccio uso delle tecnologie che via via hanno soppiantato anche i lavori ad alto contenuto professionale, hanno prodotto un abbassamento generale dei salari e un loro livellamento. Le professioni che vengono ben pagate sono sempre meno e l’incentivazione tramite il guadagno individuale riguarda una fascia sempre più ristretta di lavoratori ad alta specializzazione. Tutti gli altri vengono pagati con un salario sempre più basso che inchioda alla condizione di povertà. Il fenomeno riguarda in particolare le giovani generazioni di lavoratori che, oltre a trattamenti economici che spesso non consentono neanche l’acquisto dei mezzi necessari alla sussistenza, subiscono il degrado di rapporti di lavoro precari, limitati nel tempo e senza alcuna tutela. Si tratta delle nuove forme di povertà, oggi in forte espansione, che si stanno producendo nei paesi capitalisticamente avanzati in seguito alla concorrenza dei bassi salari dei lavoratori dei paesi meno sviluppati.  Qui ci siamo limitati, per ragioni di spazio, a indicare il fenomeno nelle sue generali linee di tendenza nonostante il tema sia di grande attualità e meriterebbe di essere trattato con ben altro approfondimento.

Il fenomeno è anticipato da Marx: “Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva… i disoccupati – ndr) Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito operaio attivo, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro… quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione degli operai sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria la loro condizione d’esistenza…Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare…Questa legge determina un’ accumulazione di miseria proporzionata all’ accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale”.22

Dunque, la diffusione della povertà, un fenomeno che pareva scomparso negli anni dello sviluppo economico seguiti al secondo dopoguerra, è un problema di grande attualità che mostra quanto sia necessario liberare la forza-lavoro dalle catene della schiavitù salariata. Il salario, lo strumento con cui il capitalismo soggioga milioni di lavoratori salariati, avrebbe bisogno di essere abolito per permettere la liberazione di tutte le potenzialità insite nell’impiego dei lavoratori nella produzione socializzata. Questo, come sappiamo richiede un profondo rivolgimento sociale che oggi non si intravede ancora ma che se ci fosse permetterebbe al buono del lavoro di essere lo strumento di questa liberazione. I lavoratori, non più soggiogati dal capitale, non più sottomessi agli affanni della ricerca dei mezzi di sussistenza necessari alla loro sopravvivenza, liberati da questo enorme fardello, avrebbero modo di esprimere tutta quanta la loro forza creatrice mettendola al servizio dell’intera società e in definitiva di loro stessi.

Il rivoluzionamento delle relazioni tra gli uomini.

Con l’abolizione delle merci e del denaro, si determinerebbe anche il rivoluzionamento delle relazioni tra gli individui. Sentiamo Marx: “poiché i produttori (nella società capitalistica - ndr) entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi,  i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose23 Dunque, nella società borghese i rapporti tra gli uomini sono rovesciati, spersonalizzati, trasformati in rapporti tra cose, in rapporti mercificati. Nel capitalismo, quasi tutto viene ricondotto a puro interesse economico, a limitata relazione che esiste solo e in quanto è mediata dallo scambio di una merce. Con questo, il capitalismo determina individui alienati, espropriati di tutto. Sono espropriati  nella loro attività lavorativa che, al posto di essere il mezzo per soddisfare le loro necessità diviene il mezzo per realizzare il profitto; sono espropriati del prodotto del loro lavoro perché ciò che essi producono appartiene al capitalista; sono espropriati della loro intelligenza e creatività perché la produzione mediante le macchine riduce il lavoratore a semplice esecutore di operazioni decise da altri per finalità a lui estranee; sono espropriati della loro vita spirituale  in quanto ogni aspetto della vita interiore viene immiserito a causa dello sforzo, fisico e psicologico, che l’individuo deve fare per procacciarsi i mezzi materiali necessari alla sua sopravvivenza, sforzo che occupa praticamente quasi tutto il tempo della sua esistenza.

L’eliminazione delle merci e del denaro restituirebbe agli uomini ciò di cui sono stati espropriati. I loro rapporti tornerebbero ad essere rapporti tra uomini, rapporti semplici e diretti, personali, rapporti permeati da un medesimo fine sociale e da una volontà comune, espressa dal loro controllo cosciente del processo materiale di produzione realizzato secondo un piano. Sentiamo ancora Marx: “immaginiamoci in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale…Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione, rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori…Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione…Tuttavia, affinché ciò avvenga, si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che, a loro volta, sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso.”24

Il travagliato svolgimento storico della società umana ha determinato le condizioni per ristabilire quelli che, nelle forme economiche precedenti al formarsi della proprietà privata, erano i rapporti tra gli individui, cioè rapporti personali, di mutua collaborazione per il fine comune della produzione e del sostentamento. Ora però, dopo l’affermazione della società borghese, oltre il sostentamento, si avrebbe la possibilità, per lo sviluppo raggiunto delle forse produttive, della liberazione dell’uomo dal bisogno e della piena realizzazione di tutte le sue facoltà umane. In breve, l’uomo potrebbe riappropriarsi di se stesso, riappropriandosi dei prodotti del suo lavoro e riappropriandosi della possibilità di esprimere pienamente, in armonia e non più in conflitto con gli altri esseri umani, tutte le sue facoltà nei diversi ambiti del suo operare e del suo vivere. Tutto quanto viene negato dal capitale avrebbe qui, con l’abolizione della merce e del denaro, la possibilità di manifestarsi sostituendo l’uomo alienato con un uomo nuovo, liberato dalle costrizioni del lavoro salariato e in grado di esprimere pienamente tutte le sue potenzialità.

La demarcazione tra riformismo e programma rivoluzionario.

Per concludere, vogliamo sottolineare che gli elementi di analisi che abbiamo indicato sono, a nostro parere, sufficienti almeno per una chiara demarcazione tra il programma di superamento del capitalismo e le proposte del riformismo di ispirazione marxista che oggi tornano a riproporsi con maggior frequenza. Non mettendo in discussione le categorie economiche fondamentali del capitalismo, finiscono per proporre sostanzialmente delle riforme che intervengono solo sui meccanismi della distribuzione delle merci, lasciando inalterato il complesso dei rapporti di produzione, trascurando il fatto fondamentale che il processo di produzione e il processo di distribuzione sono strettamente legati e che sia impossibile modificare sostanzialmente il modo della ripartizione dei prodotti senza modificare i rapporti di produzione capitalistici. Tanto meno prendono in considerazione l’abolizione delle merci, del denaro, del capitale e del ciclo D-M-D’, gli elementi fondanti la società borghese. Così, queste proposte finiscono per essere sostanzialmente dei programmi di conservazione della società capitalistica.

Note.

1 Molti sono i testi, alcuni preparatori, altri definitivi, con i quali Karl Marx espone la teoria del valore lavoro. Citiamo Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974 i Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (“Grundrisse”), Einaudi Editore, Torino, 1977 e Il capitale, Einaudi Editore, Torino, 1975. Le citazioni riportate nel paragrafo sono tratte da quest’ultima pubblicazione, da pag. 43 a pag. 50.

Chi volesse fare uno studio veloce ed essenziale della teoria esposta nel primo libro de Il capitale, legga il libretto di Carlo Cafiero, Compendio del capitale, in

http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1867/capitale/compendiocafiero.html . Il testo è stato molto apprezzato dallo stesso Marx

2 Carlo Cafiero, Compendio del Capitale, ibidem

3 Carlo Cafiero, ibidem

4 K. Marx, Il capitale, Einaudi Editore, Torino, 1975, Seconda sezione, Capitolo quarto, paragr. 1, pag. 178

5 ibidem, pag. 182

6 ibidem, pag. 185

7 ibidem, pag. 226

8 ibidem, pag. 234 e 235

9 la forza-lavoro vivente é quella degli operai contrapposta al lavoro morto oggettivato nelle merci, in questo caso i mezzi di produzione da loro stessi creati ma in passato, e in quanto passato Marx, per distinguerlo dal lavoro presente dell’operaio, lo definisce morto; solo la forza-lavoro vivente, col suo lavoro vivo, è creatrice di nuovo valore cioè di nuova ricchezza, quando viene impiegata per un tempo superiore a quello necessario a produrre i suoi mezzi di sussistenza

10 ibidem, pag. 236 e 237

11 per una più veloce comprensione dei concetti richiamati il lettore inesperto potrebbe leggere Lavoro salariato e capitale dello stesso Marx

12 F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Editori Riuniti, 1976, Roma

13 Qui Marx ha descritto il passaggio dalla società feudale, caratterizzata dal lavoro artigiano, alla società borghese

14 ibidem, pag. 936, 937, 938

15 vedere l’articolo di Giorgio Paolucci, Il capitalismo è in crisi. La sua alternativa, il socialismo, incute timore, su D-M-D’, 2011, n. 4

16 vedere l’articolo Decadenza del capitalismo e attualità della proposta comunista, su D-M-D’, 2011, n. 4

17 K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, Editori Riuniti, 1976, Roma, pag. 30 e seguenti

18 V. Lenin, Stato e rivoluzione, 1917, Editori Riuniti, 1976, Roma, pag. 166 e seguenti

19 K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, 1976, Roma, pag. 28 e 29

20 K. Marx, Critica al programma di Gotha, ibidem, pag. 32

21 K. Marx, ibidem, pag. 30

22 K. Marx, Il capitale, ibidem, pag. 793, 794 e 795

23 K. Marx, Il capitale, ibidem, pag. 89

24 K, Marx, ibidem, pag.95, 96 e 97