Coordinamento dei lavoratori auto-organizzati e tattica d’intervento

Creato: 03 Agosto 2012 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 2781

Il coordinamento dei lavoratori “auto-organizzati” nato in questi ultimi mesi a Bologna rappresenta per il partito un fatto di notevole interesse politico per le novità che questo presenta rispetto ad una situazione che vede il proletariato drammaticamente passivo rispetto agli attacchi sferrati a trecento sessanta gradi dalla borghesia internazionale. Altrettanto importante è stata l’azione politica svolta dai nostri compagni di Bologna all’interno del coordinamento, tanto più importante visto che si tratta di un primo e tuttora isolato tentativo d’intervento del partito fra un gruppo di lavoratori appartenenti a diversi settori produttivi.

Gli elementi di novità e d’interesse del coordinamento bolognese non ci devono però portare ad una sopravvalutazione politica né tantomeno a perdere di vista le ridottissime dimensioni di questa esperienza, visto che essa vede come protagonisti pochissimi lavoratori. Guai se così fosse: le conseguenze, non solo sul piano dell’intervento politico del partito, ma anche per gli eventuali contraccolpi psicologici  sui militanti, sarebbero così negative da rischiare di bruciare molte delle nostre limitate risorse umane. Questo è un rischio che la nostra organizzazione non può permettersi. Occorre pertanto fissare alcuni punti nella valutazione dell’esperienza del coordinamento bolognese e quindi evitare che si brucino energie utilizzabili in altre direzioni.

Finora il coordinamento bolognese è stato definito come un coordinamento di lavoratori auto-organizzati, i cui promotori sono genericamente legati da una comune visione antisindacale, che rifiuta la logica della delega e che ha come prospettiva il rilancio delle lotte operaie dal basso. Ma definire il coordinamento bolognese come l’espressione genuina di lavoratori auto-organizzati è politicamente fuorviante e il rischio che si corre è quello di sbagliare  le modalità d’intervento. Un coordinamento di lavoratori “auto-organizzato” è tale quando i settori più sensibili e combattivi della classe lavoratrice, appartenenti a diverse realtà produttive, si pongono spontaneamente l’obiettivo di unificare le proprie lotte e istanze per opporsi agli attacchi padronali cercando di rompere le gabbie sindacali. Questi lavoratori, nella loro stragrande maggioranza, non sono l’espressione diretta di un partito né tantomeno fanno propria una particolare visione politica, ma l’iniziativa parte autonomamente all’interno della classe e trova nelle sue condizioni di vita e di lavoro le ragioni del suo manifestarsi.  Sono le condizioni materiali del proletariato a determinare l’emergere di queste forme radicali della lotta di classe. L’auto-organizzazione operaia è tale se sono settori significativi della classe ad esprimersi spontaneamente sul terreno della lotta non accettando la logica delle deleghe sindacali e contrastando gli attacchi padronali.

Nel corso del permanente scontro di classe tra borghesia e proletariato si possono quindi verificare episodi che vedono alcuni settori di classe, sicuramente quelli più combattivi e più avanzati, mobilitarsi sul terreno della difesa dei propri interessi, rompendo la pace sociale e l’argine delle compatibilità erette dai sindacati a difesa degli interessi del capitale. Queste forme di lotte proletarie spontanee hanno da sempre caratterizzato la storia del movimento operaio fin dal suo nascere, non rappresentano una novità dell’ultima ora; anzi proprio in questi ultimi decenni, segnati drammaticamente dalla controrivoluzione stalinista e dal totale dominio dell’ideologia borghese, episodi di questa portata sono stati alquanto rari. Le lotte dei ferrotranvieri milanesi sono state l’ultimo e più eclatante episodio che ha visto alcuni settori del proletariato auto-organizzarsi violando le leggi che regolamentano gli scioperi nei servizi pubblici e  di fatto scavalcando i classici schemi della delega sindacale.

In una situazione in cui settori di classe operaia dovessero coordinarsi per lottare e difendere i loro interessi, quale deve essere l’azione del partito? Ovviamente laddove sono presenti all’interno di una stessa unità produttiva militanti del partito questi devono lavorare per costruire gruppi di fabbrica, attraverso i quali il partito stesso interviene nella classe. E’ attraverso l’azione dei gruppi di fabbrica che il partito cerca di spostare la lotta del proletariato da un terreno quasi esclusivamente economico ad un terreno politico, facendo emergere che la risoluzione dei problemi della classe passa in definitiva solo attraverso l’abbattimento del modo di produzione capitalistico. Questo non significa assolutamente sottovalutare o snobbare le lotte operaie che non si collocano su un terreno di rivendicazioni politiche ma rimangono solo su un terreno economico-sindacale. I gruppi di fabbrica o più semplicemente i singoli militanti, laddove la ridottissima presenza di militanti non permette di costruire un gruppo,  hanno il compito di inserirsi attivamente in qualsiasi movimento reale della classe per diffondere le posizioni programmatiche, strategiche e tattiche del partito, per spostare sul proprio terreno quanti più proletari possibile. In altre parole, per andare oltre i limiti propri di ogni iniziativa spontanea della classe. L’intervento del partito, quindi, non si esaurisce con il sostegno alla lotta, seppur radicale e che rompe con la logica del sindacato ma si deve concretizzare nella massima diffusione del programma comunista tra la classe per rompere con  le compatibilità del capitale e ponendo in primo piano l’obiettivo del superamento di questo sistema sociale.

Altra cosa rispetto ai proletari “auto-organizzati” sono quei coordinamenti che nascono sulla spinta di un’azione comune di gruppi già caratterizzati sul piano politico. Soprattutto nella prima metà degli anni settanta del secolo scorso, sulla scia del riflusso delle lotte operaie e a chiusura del ciclo politico apertosi negli anni sessanta, abbiamo assistito in Italia e in altri paesi europei alla nascita di una miriade di coordinamenti tra diversi gruppi politici. Si costituivano cioè dei coordinamenti di discussione tra diversi gruppi politici con l’obiettivo di raggiungere un comune obiettivo. L’attività del coordinamento era quindi già delineata dalla presenza di organizzazioni già fortemente caratterizzate sul terreno politico, e la presenza spontanea di settori di classe operaia era pressoché nulla. I famosi intergruppi non sono nati dall’iniziativa spontanea del proletariato, ma sono stati il risultato dell’iniziativa di raggruppamenti politici che attraverso il coordinamento pensavano di allargare la propria sfera d’influenza all’interno dei gruppi concorrenti.

Mentre nei coordinamenti dei lavoratori “auto-organizzati” è la classe il soggetto attivo di queste forme di lotta, l’esperienza degli intergruppi vede la classe praticamente assente e l’attività è alimentata dal dimenarsi del ceto politico. Questa differenza ovviamente si riflette sui compiti del partito e sulla tattica d’intervento che devono utilizzare i militanti comunisti. Se nei coordinamenti spontanei degli operai il partito, attraverso la sua azione, cerca di spostare sul proprio terreno quanto più operai possibile, diffondendo il programma rivoluzionario e la prospettiva del comunismo, negli intergruppi la partecipazione del partito non può avere gli stessi scopi visto che i pochi operai presenti sono già politicizzati e difficilmente si riesce a spostarli dalle loro posizioni.  La partecipazione dei militanti all’interno degli intergruppi ha come unico scopo quello di denunciare le posizioni politiche degli altri gruppi politici, ritenute errate e/o opportunistiche,  con la prospettiva alquanto remota vista l’esperienza del passato, di recuperare sul proprio terreno politico non le altre organizzazioni ma solo ed esclusivamente loro singoli militanti. Se non si ha chiara questa differenza sostanziale tra intergruppi e coordinamenti spontanei il rischio che corrono i militanti del partito è quello di sbagliare tipo d’intervento, con la conseguenza che l’azione del partito risulti assolutamente sbagliata in relazione alla situazione reale. Se si pensa di diffondere il programma rivoluzionario all’interno della classe intervenendo nell’attività degli intergruppi si prende un grosso abbaglio, visto che in questi organismi il proletariato è sostanzialmente assente.

Il coordinamento degli auto-organizzati nato in questi ultimi mesi a Bologna è il prodotto dell’agire di significativi settori di classe operaia, di ceto politico o di altro? Comprendere fino in fondo la natura dell’esperienza bolognese è di fondamentale importanza per evitare errori nell’intervento da parte dei nostri militanti e dell’insieme del partito.

Il coordinamento bolognese non può essere definito un coordinamento di lavoratori “auto-organizzati”, non perché siano assenti gli operai, ma in quanto la stragrande maggioranza di quelli che ne fanno parte sono portatori di una posizione politica già acquisita e non l’espressione di lotte in corso. Peraltro, le ridottissime dimensioni del coordinamento inducono a considerare l’esperienza bolognese come un qualcosa di diverso anche rispetto agli intergruppi. Infatti, le diverse posizioni presenti all’interno del coordinamento non sono l’espressione di gruppi politici, ma in molti casi di singole personalità. Senza voler sminuire l’importanza di questa esperienza, se consideriamo che uno dei gruppi più numerosi che partecipano a questo coordinamento è il nostro, possiamo renderci conto delle ridottissime dimensioni di tale fenomeno. Il coordinamento bolognese si differenzia dagli intergruppi degli anni settanta non solo per la diversa dimensione e composizione, ma anche perché si manifesta in un contesto politico completamente diverso. Se gli intergruppi possono essere definiti come il colpo di coda del movimento nato del “68, il coordinamento di Bologna è il primo embrionale esperimento di costruzione di una rete di lavoratori appartenenti a diverse realtà produttive il cui scopo è superare la logica del sindacato.

In primo luogo non è ipotizzabile pensare che lavorando nel coordinamento s’intervenga nella classe, visto che la classe lavoratrice è nei fatti assente. Chi partecipa al coordinamento lo fa ovviamente in rappresentanza solo di se stesso visto e non rappresenta nessuno degli operai della propria fabbrica. Se a questo aggiungiamo che i lavoratori partecipanti al coordinamento sono nella stragrande maggioranza portatori di una consolidata posizione politica (la nostra, autonomi, anarchici, ecc), possiamo ben capire come nell’esperienza bolognese siamo ben lontani dal parlare di un reale coordinamento spontaneo  di lavoratori, ma ci troviamo di fronte ad un lodevole tentativo di diffondere la critica al sindacato e al sindacalismo nelle sue diverse componenti.

Se la natura del coordinamento è quella che si è delineata come sopra descritto, il coordinamento bolognese per le sue ridottissime dimensioni non può avere nelle proprie finalità immediate l’obiettivo di orientare le eventuali lotte degli operai delle rispettive fabbriche. Purtroppo non stiamo vivendo una fase in cui la classe si mobilita e il nostro compito è quello di cercare di orientare le lotte operaie nella direzione politica dell’anticapitalismo; su questo terreno siamo drammaticamente indietro. Il coordinamento dei lavoratori auto-organizzati di Bologna è una sorta di laboratorio politico composto da diverse anime e in cui l’azione dei militanti rivoluzionari deve essere mirata alla massima diffusione delle posizioni del partito. Compito dei militanti è quello di influenzare il più possibile l’attività del “coordinamento” e far passare le posizioni politiche del partito nei documenti prodotti. Nei documenti preparati da nostri militanti su delega degli altri membri del coordinamento è ovvio che l’elaborazione della bozza sia fatta  facendo riferimento alle posizioni del partito. In ogni circostanza è prioritario che i nostri militanti denuncino come il peggioramento delle condizioni dei lavoratori sia determinato dall’operare della crisi economica del capitale su scala internazionale, rilanciando la critica politica al sistema capitalistico e ponendo l’obiettivo della costruzione del partito di classe. Nella successiva discussione queste posizioni dovranno essere difese dalle possibili critiche e solo in seguito accettare tatticamente le eventuali proposte di modifica al documento. Ovviamente se il contenuto delle modifiche non è assolutamente condivisibile è necessario prendere atto di ciò e rompere. L’attività dei militanti rivoluzionari ha lo scopo di diffondere le posizioni del partito, ad altri il compito di elaborare documenti il cui contenuto è pensato solo per attenuare le differenze politiche tra le diverse anime del coordinamento, i rivoluzionari devono lavorare per ricostruire il partito internazionale del proletariato e diffondere tra la classe il programma comunista.

 

Catanzaro, Maggio  2005