Sulla crisi della SC: risposta all'articolo “E’ mezzanotte nella sinistra comunista”

Creato: 02 Novembre 2010 Ultima modifica: 20 Febbraio 2020
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 3611

E’ mezzanotte nella Sinistra Comunista

Il documento che pubblichiamo di seguito scaturisce dal confronto che da qualche tempo  si è avviato fra noi e i compagni francesi che pubblicano la rivista Controverses (www.leftcommunism.org). Nella sezione Sulla crisi della Sinistra Comunista di questo stesso sito pubblichiamo anche  la traduzione del loro articolo “E’ mezzanotte nella sinistra comunista” (aprile 2010)  e del  loro documento “Riflessioni sulla scissione in seno a Battaglia Comunista”.

L’auspicio è che la discussione, che  verte sulla crisi in cui versa la Sinistra Comunista, stimoli una  seria e più ampia  riflessione critica tanto  sulle cause che l’hanno determinata quanto sulle possibili  vie d’uscita di uscita da essa.

 

Compagni,

dopo aver approfonditamente discusso sia il vostro articolo “E’ mezzanotte nella sinistra comunista” sia le vostre riflessioni sulla nostra fuoriuscita da Battaglia Comunista, crediamo che esistano i presupposti per poter avviare con voi un serio e proficuo confronto. Ci accomuna la constatazione che la Sinistra comunista, quella che si richiama all’esperienza della Sinistra comunista Italiana, è attraversata da una crisi teorica, politica e organizzativa ormai irreversibile; ma riteniamo anche che il confronto potrà essere realmente fecondo solo se non ci nasconderemo le differenze che esistono fra noi.

 

In particolare, a noi sembra fuorviante ricondurre questa crisi essenzialmente all’incapacità delle organizzazioni, che si richiamano a questa corrente politica, di accettare il costituirsi al loro interno di correnti o frazioni minoritarie, e quindi il dibattito e il confronto con esse. Se così fosse ne dovremmo necessariamente dedurre che le responsabilità della crisi siano sostanzialmente riconducibili al settarismo di un ridotto numero di individui. Pur non negando che vi siano anche responsabilità di tipo personale, riteniamo però che questa crisi abbia radici molto profonde.

 

E’ stata proprio la preoccupazione che ciò potesse essere semplicisticamente occultato dalla denuncia dei comportamenti dei singoli, che ci ha indotti a non rendere pubblici documenti che provavano in modo inoppugnabile il comportamento, diciamo così, poco ortodosso dei componenti della maggioranza del Comitato Esecutivo di Bc prima, durante e dopo la vicenda che si è conclusa con la nostra espulsione. In realtà, era già da parecchio tempo che in noi andava maturando un dissenso teorico e politico molto profondo e il bisogno, come abbiamo già sottolineato nel nostro Punto e a Capo, di trarre un bilancio molto rigoroso di tutta l’esperienza storica della sinistra comunista, delle sue luci e delle sue ombre, quale presupposto indispensabile perché una nuova prospettiva politica avesse modo finalmente di riaprirsi. Peraltro, attardandoci nella valutazione critica delle responsabilità soggettive, ci troveremmo a discutere dei comportamenti di figure piuttosto sbiadite e di scarso spessore teorico, politico e perfino morale, comunque nani al confronto dei fondatori di questa gloriosa corrente politica.

 

Mai disconosceremo il merito che questi ultimi hanno avuto nell’aver saputo cogliere per tempo e con straordinaria lucidità la natura capitalistica di stato delle sedicenti Repubbliche Socialiste sovietiche, del carattere controrivoluzionario della svolta staliniana e della teoria del socialismo in un solo paese; di aver compreso che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione è solo una condizione per la costruzione di una società socialista, ma non è il socialismo e cosi via. Ma resta il fatto che come qualsiasi esperienza umana anche questa non è stata scevra di contraddizioni, limiti ed errori che, soprattutto negli ultimi trenta anni, l’hanno resa incapace di cogliere la straordinaria capacità del sistema capitalista di rinnovarsi e affinare le forme del suo dominio pur rimanendo sostanzialmente uguale a se stesso.

 

Prigioniera del suo passato, non è stata capace di cogliere con la necessaria puntualità i grandi mutamenti che si stavano producendo in conseguenza della crisi strutturale dei primi anni ’70 del secolo scorso e ridefinire così i suoi compiti, la sua tattica e la sua strategia. Questa incapacità si è tradotta nell’uso ripetuto di formulazioni politiche che si sono rivelate totalmente inadeguate di fronte ai nuovi fenomeni che il capitalismo, con la sua grande dinamicità, ha prodotto. In sintesi, a fronte dei grandi cambiamenti avvenuti sul piano economico e sociale, la sinistra si è limitata e riproporre pedissequamente quanto era stato elaborato prima di tali cambiamenti. Ne è risultata la sclerotizzazione dell’analisi e l’incapacità di individuare i compiti immediati e storici di una avanguardia

 

Pertanto il tanto atteso crollo dell’Urss l’ha colta completamente impreparata a comprendere la radicalità dei mutamenti che nel frattempo erano intervenuti nel modo di produzione capitalistico.

 

Non c’è da stupirsi, quindi, che il crollo del muro di Berlino anziché restituirle nuova linfa l’abbia trascinata sotto le sue stesse macerie.

 

Le nuove forme del dominio imperialistico

Nel vostro articolo E’ mezzanotte nella sinistra Comunista avete giustamente sottolineato l’enorme divario esistente fra l’analisi della crisi e delle sue prospettive svolta dalla CCI e l’andamento della realtà. La CCI sosteneva che era la forte opposizione del proletariato internazionale a impedire lo scoppio della Terza guerra mondiale mentre, nella realtà, il proletariato stava subendo un attacco violentissimo alle sue condizioni di vita e di lavoro. Un errore che noi di Bc non abbiamo commesso ma, a nostra  volta, pur negando che fosse in atto una così vigorosa ripresa della lotta di classe, ritenevamo che la crisi avrebbe comunque prima o poi ineluttabilmente riproposto l’alternativa Guerra o Rivoluzione e sostanzialmente negli stessi termini con cui si era posta nei due precedenti conflitti mondiali.

 

E’ immaginabile che simili clamorosi abbagli siano stati solo il frutto di uno scarso dibattito interno? In Bc, per esempio, per molti anni un punto di vista diverso non c’è mai stato.

 

La verità è che si era tutti più o meno imbrigliati nell’analisi dell’Imperialismo elaborata nell’ambito della Terza internazionale e a nessuno passava per la testa che il fenomeno, pur essendo espressione dell’insorgere di forme di appropriazione parassitaria di plusvalore, era solo l’inizio della cosiddetta fase ultima del capitalismo e non il segnale di una sua imminente fine. Eppure già con la fine della seconda guerra mondiale le forme del dominio imperialistico erano profondamente mutate rispetto a quelle basate sulla sola esportazione del capitale finanziario. Pensiamo, per esempio, all’abbandono del sistema dei pagamenti internazionali incentrati sul gold standard a favore di quello basato sul dollar standard che assicurava già allora una più che cospicua rendita finanziaria supplementare a quella generata dall’esportazione del capitale finanziario come era stato nella primissima fase dell’Imperialismo.

 

Anche la denuncia nel 1971 da parte degli Usa, degli accordi di Bretton Woods e l’imposizione di un sistema internazionale di pagamenti incentrato su un biglietto inconvertibile, il dollaro, non veniva colta in tutta la sua radicalità. Eppure è a quella denuncia e a quella imposizione che bisogna risalire per comprendere le attuali forme di dominio imperialistico basate sulla produzione di capitale fittizio. Si tratta di passaggi epocali che, se colti per tempo, avrebbero molto probabilmente consentito di delineare con una maggiore puntualità le prospettive che la crisi andava aprendo e, soprattutto, che l’intreccio di interessi interborghesi che ne scaturiva spalancava le porte al ridimensionamento degli stati nazionali, all’aggregazione per aree di dimensioni continentali. Anche in questo caso Bc ha sostanzialmente riproposto lo schema interpretativo ereditato dal passato (ciclo crisi-guerra-ricostruzione) non riuscendo così a cogliere appieno le specificità del conflitto imperialistico moderno. Pur non escludendo la possibilità di una sua deflagrazione generalizzata, esso ha assunto, in relazione alla necessità permanente del capitalismo di procedere alla distruzione di uomini e merci, il carattere, come abbiamo già avuto modo di definirla,  della  guerra imperialista permanente. Anche in questo caso, l’incapacità di cogliere il fenomeno, ha determinato un’errata valutazione dell’evolvere della crisi e delle sue prospettive.

 

Infatti, ancora oggi, in Bc, c’è chi immagina  l’esistenza nei paesi cosiddetti periferici di una borghesia nazionale che se “degna di questo nome non può non opporsi all’imperialismo che viene dall’esterno” ( sic!).

Altresì ci si aspettava che il combinato disposto del crollo dell’Urss e l’avanzare della crisi avrebbe, seppure non immediatamente, potuto favorire la ripresa della lotta di classe. Sfuggiva completamente che, date le nuove forme del dominio imperialistico, quel crollo, unito all’introduzione della microelettronica nei processi produttivi e nel sistema delle telecomunicazioni, avrebbe impresso un’accelerazione senza precedenti alla mondializzazione del processo di accumulazione del capitale e modificato radicalmente i rapporti di forza a favore della borghesia. In altre parole, per dirla con Marx, si è storicamente affermato il dominio reale del capitale sulla società e con questo, insieme ad altri concomitanti fattori di ordine sovrastrutturale, non meno importanti, si è manifestato il totale dominio ideologico della borghesia. Ancora una volta, il riconoscimento di questi fenomeni, avrebbe dovuto comportare l’individuazione dei nuovi compiti tattici e strategici: la necessità di analizzare le caratteristiche dei fenomeni che il capitalismo ha prodotto, la necessità di riconoscere i deficit tattici e programmatici della piattaforma politica del passato, la necessità di avviare, come compito immediato, una laboratorio politico aperto al contributo di tutti coloro che andavano interrogandosi su queste questioni.

Può sembrare veramente paradossale ma i nostri sforzi, indirizzati a porre tali questioni al centro del dibattito interno a Bc, venivano sistematicamente frustrati in quanto la maggior parte del tempo dei rari incontri dell’Agm ( Assemblea generale dei militanti) era dedicata alla discussione sulle modifiche da apportare alla grafica del giornale e amenità simili.

Per un po’ ci era sembrato di trovarci di fronte a limiti soggettivi di taluni compagni; ma oggi ci è chiaro che questo atteggiamento celava deficit che erano insieme metodologici e politici.

Sviluppo delle forze produttive e rivoluzione

 

In realtà, l’incalzare della crisi ha fatto emergere che nel corpo dell’organizzazione si era sedimentata la convinzione che la rivoluzione sia la conseguenza meccanica dell’esplosione della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione borghesi a prescindere dal fatto che lo sviluppo delle forze produttive, nell’epoca del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo, è dettato innanzitutto dalle esigenze della conservazione capitalistica per cui esso può anche non essere sempre e comunque in conflitto con i rapporti di produzione vigenti ma perfino funzionale alla loro conservazione. Nel senso che il dominio del capitale è ormai talmente capillare che anche lo sviluppo della scienza, della tecnologia, della tecnica e delle loro applicazioni è, se non esclusivamente, fortemente determinato e orientato in funzione del profitto per cui  la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione vigenti, pur permanendo, si è molto affievolita.[1] Certamente non ha più quella stessa carica dirompente che ha potuto avere nell’Ottocento quando il progresso scientifico, lo sviluppo della tecnica e delle forze produttive apparvero come una sorta di versione laicizzata del dio della salvezza. Il neopositivismo, che  influenzò non poco il pensiero socialista della Seconda e Terza Internazionale, fu animato proprio dall’idea che sarebbe stato il progresso scientifico ad assicurare all’umanità un felice e  luminoso futuro.

Affrontare una questione di così straordinaria importanza richiamandosi a qualche citazione di Marx ed Engels o rifacendosi esclusivamente all’elaborazione prodotta dal movimento comunista nel corso del 19° secolo e della prima parte del 20°, senza tener conto di quanto il capitalismo sia mutato nel corso degli ultimi due secoli, è banale dogmatismo che nulla ha a che fare con il materialismo storico. Allora, all’inizio della grande industria, era prevalente il capitalista individuale e la libera concorrenza; oggi siamo nell’epoca del capitalismo monopolistico per cui il capitale è in grado di esercitare un controllo totale della scienza, della tecnologia e delle loro applicazioni. Bisogna essere ciechi e sordi per non accorgersene. Eppure ecco cosa si legge in un opuscolo di Bc, da noi fortemente contestato, edito solo qualche anno fa: “Sotto la spinta dei presupposti esterni oggettivi (primo fra tutti la contraddizione tra le forze produttive in gigantesco sviluppo e gli statici (sic!) rapporti di produzione) sorge una prassi rivoluzionaria.[2] E ciò mentre con l’introduzione della microelettronica nei processi produttivi, forse la più grande rivoluzione tecnologica di tutta la storia dell’umanità, il proletariato subiva una delle sue sconfitte più devastanti e da cui non si intravvede ancora la via di uscita.

Il socialismo quindi consisterebbe nella semplice liberazione delle forze produttive dai limiti angusti dei rapporti di produzione e l’insorgere di una prassi rivoluzionaria sarebbe la conseguenza di fattori esterni agli uomini. In altre parole, il socialismo si risolverebbe in un’ulteriore espansione della produzione di merci e la rivoluzione si farebbe da sé, solo che si avesse la pazienza di aspettare che la contraddizione fra le forze produttive in gigantesco sviluppo e i rapporti di produzione capitalistici esplodesse. Si tratta, come abbiamo visto  di una concezione non più attuale, eredità in gran parte della Seconda e Terza internazionale. Ma allora, di fronte a un capitalismo decisamente meno sviluppato, era quasi impossibile sfuggire al fascino  che emanava la potenza del nascente sistema delle macchine e  non ritenere che  i suoi futuri sviluppi potessero agire sia da catalizzatore della rivoluzione sia quale motore propulsore anche dello sviluppo della futura società socialista. Purtroppo non è andata così. D’altra parte,  se così fosse dovremmo ammettere che la storia ha un suo τέλεος (teleos) un suo fine ultimo a cui l’umanità ineluttabilmente approderà. Invece, come sottolinea Marx anche ne il Manifesto, la storia è storia di lotte di classi. Essa è cioè il prodotto degli uomini che non sono degli automi che operano per realizzare un progetto scritto nel cielo, ma agiscono in base alla coscienza che essi hanno di se stessi e della loro condizione in quelle determinate circostanze storiche. E poiché “Le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze”[3] l’esito del conflitto sociale è tutt’altro che scontato in partenza. Può sfociare nella rivoluzione ma anche nel collasso di quella determinata formazione sociale e perché no della stessa umanità.

Peraltro, se l’agire dei proletari dipendesse esclusivamente da questi presunti presupposti esterni oggettivi, dato l’elevato grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive e dell’intensità dello sfruttamento della forza-lavoro, dovremmo essere se non in pieno comunismo almeno sulla soglia di un’imminente rivoluzione socialista. Invece siamo qui a constatare che dopo oltre trent’ anni di crisi del terzo ciclo di accumulazione del capitale, il proletariato mondiale esprime tutto fuorché istanze anche solo genericamente anticapitalistiche e la Sinistra Comunista, che pure è stata fra le sue punte più avanzate, langue in uno stato di coma ormai irreversibile.

Questa incapacità di intendere il socialismo e i compiti di un’avanguardia rivoluzionaria, senza attardarsi su definizioni e formule ottocentesche, ci pare un’ulteriore conferma del fatto che anche l’esperienza della Sinistra Comunista si è purtroppo storicamente esaurita.

Qui abbiamo citato Battaglia Comunista, ma in realtà tutta la Sinistra Comunista non si è mai veramente liberata da questa concezione meccanicistica della storia. Per Battaglia Comunista la cosa è tanto più grave in quanto O. Damen, in polemica con Bordiga, aveva aperto non pochi spiragli per una migliore puntualizzazione della relazione che intercorre fra determinante e determinato, fra struttura e sovrastruttura. Purtroppo non è stato sufficiente perché i suoi eredi più diretti si sottraessero al fascino dell’idea che la storia si faccia da sé. Forse perché consente di autoassolversi, di sottrarsi al compito di trarre un bilancio critico della propria esperienza e di sonnecchiare cullandosi nella propria autoreferenzialità.  E’ rimasto intricato il nodo fra struttura e sovrastruttura e così anche il rapporto fra Partito e Classe, che ne discende direttamente, è rimasto avvolto in un alone di forte ambiguità.

 

La frantumazione della classe operaia

 

Leggendo il vostro articolo, ci è sembrato che anche per voi il processo di costruzione del nuovo partito rivoluzionario sarà la logica conseguenza dell’eventuale ripresa della lotta di classe. Però, anche volendo concedere che in passato il processo si sia svolto così come voi lo descrivete, facciamo una grande fatica a immaginare che quel percorso possa riproporsi negli stessi termini di allora perché da allora ad oggi troppe cose sono radicalmente mutate. Si è enormemente accresciuta la concentrazione e la centralizzazione dei capitali (capitalismo monopolistico, imperialismo); sono mutati il ruolo e la funzione del sindacato che è divenuto uno dei pilastri della conservazione borghese con il compito fondamentale di imbrigliare la lotta economica nei limiti delle compatibilità capitalistiche; è cambiata la fabbrica, l’organizzazione e la divisione internazionale del lavoro ed è cambiata anche la composizione delle classi e in modo particolare quella del proletariato.

La classe operaia di fabbrica, che per lungo tempo è stata il cuore del proletariato e il motore delle sue lotte economiche e politiche, è oggi frantumata sul territorio e su scala mondiale.  Inoltre, a causa della mondializzazione dei processi produttivi e dell’introduzione in essi dell’informatica, l’operaio è stato ulteriormente espropriato di ogni suo sapere per cui, essendo divenuto una pura appendice del sistema delle macchine, un semplice venditore di pura forza-lavoro, abbonda come mai prima nella storia del moderno capitalismo. Di conseguenza il proletariato moderno si presenta come un insieme di individui in sfrenata concorrenza fra loro e perciò portati a individuare come nemico più gli altri venditori di forza-lavoro – semmai solo perché di diverso colore, nazionalità o religione- piuttosto che la borghesia. In questo senso, non costituiscono neppure una classe.[4]

E per questa stessa ragione anche quel che resta della classe operaia tradizionale è del tutto incapace di avviare un ciclo di lotte, anche sul solo terreno economico, in qualche modo simile a quello che nel 19° secolo fu il terreno di coltura, prima delle casse di mutuo soccorso, poi delle leghe, infine delle Trade Unions e dei partiti e delle Internazionali più o meno socialisti.

La proletarizzazione dei ceti intermedi

 

Inoltre, vi è da tenere in conto anche il fatto che, soprattutto nelle metropoli capitalistiche, nel corso degli ultimi trent’anni, è andato sviluppandosi un gigantesco processo di proletarizzazione di ampie fasce di aristocrazia operaia e di piccola e media borghesia che, non fosse altro che per la repentinità della loro discesa negli inferi proletari, sono ancora profondamente intrisi dell’ideologia della classe dominante, cioè sono portatori di una radicata falsa coscienza, specchio fedele di questa ideologia.

Peraltro, grazie al fatto che nella produzione sociale è mutato il rapporto fra la prima sezione (produzione dei mezzi di produzione) e la seconda (produzione dei mezzi di consumo) a favore di quest’ultima, la trasmissione dell’ideologia della classe dominante si avvale non più solo dei mezzi classici quali la cultura, la scuola, la stampa ecc. ma soprattutto delle merci stesse e dei modi con cui avviene la loro distribuzione e il loro consumo che privilegiano stili e modi di vita che esaltano il più esasperato individualismo. Gli individui cioè, indipendentemente dalla loro volontà, sono costretti a introiettare l’ideologia dominante nel mentre soddisfano i loro bisogni poco importa se primari o indotti. Insomma, è nella loro quotidianità che essi fanno propria l’ideologia della classe dominante. La conseguenza è una totale atomizzazione sociale e l’isolamento dei singoli dalla collettività e il venir meno di tutte quelle relazioni sociali grazie alle quali gli individui potevano scoprire gli uni la condizione dell’altro, riconoscervisi e riconoscere soprattutto la comune appartenenza a una medesima classe di sfruttati, costretti per sopravvivere a vendere la gran parte del loro tempo. In poche parole domina incontrastato quel che in un’altra circostanza abbiamo chiamato pensiero-merce. Sarà solo un caso che nessun gruppo della Sinistra Comunista abbia fin qui tenuto nel minimo conto questi mutamenti nei modi di vita e di rapporti fra gli individui oppure  la sinistra comunista è talmente prigioniera della sua sterile ortodossia da non accorgersi di quanto il mondo sia cambiato? Eppure, come già Marx faceva notare, non ci vuole: “…una profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni, i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale.”[5] Ma tornando alla nostra questione, c’è anche da osservare che al dilagare dell’ideologia della classe dominante contribuisce non poco il fatto che sotto le macerie  dell’Urss sia finita anche l’idea stessa che sia possibile costruire un’altra società rispetto a quella capitalistica. La stessa parola “socialismo”, comunemente, quando non è sinonimo di feroce dittatura, è sinonimo di pura e irrealizzabile utopia cosicché un riesame critico della questione per individuare in cosa consista oggi, col poderoso sviluppo delle forze produttive già realizzato dal capitalismo, la trasformazione socialista ovvero la transizione dal capitalismo al comunismo  è estremamente necessario e urgente.

In considerazione di tutto ciò noi abbiamo maturato la convinzione che senza condurre una strenua battaglia contro lo straripante dominio ideologico della borghesia anche un'eventuale ripresa della lotta di classe è destinata a esaurirsi nel più totale disorientamento.  E’ cioè necessario che il proletariato prenda coscienza della sua situazione e dei suoi bisogni e che la sua definitiva emancipazione implica necessariamente il superamento rivoluzionario del capitalismo. La qualcosa non potrà darsi senza un partito armato di una teoria forgiata sulla base del più rigoroso e coerente materialismo storico.

 

Ed eccoci giunti alla questione fondamentale che sta di fronte a tutti coloro che hanno a cuore le sorti del proletariato: che fare affinché un nuovo partito comunista internazionale e internazionalista possa vedere la luce.

 

Ovviamente non ci sono formule magiche e non ne abbiamo una in tasca. Un punto ci è abbastanza chiaro e cioè che esso non nascerà per partenogenesi dalla tanto agognata ripresa della lotta di classe, ma richiederà il convergere di intelligenze, personalità e gruppi, più o meno organizzati, in un processo di elaborazione e sistematizzazione scientifica per ricondurre a sintesi, da restituire al proletariato, tutti quegli elementi formativi di un’autentica coscienza comunista che, pur presenti nella classe, sono, a causa delle sue precedenti sconfitte e della sua frammentazione, dispersi in tanti piccoli segmenti.

 

Quindi, la costruzione di un laboratorio di sistematizzazione teorica e politica aperto al dibattito e al confronto, ci sembra il primo compito di cui devono farsi carico tutti coloro che non vogliono arrendersi al capitalismo. “La scienza- disse Engels nell’orazione funebre che pronunziò per il suo amico e compagno- era per Marx una forza rivoluzionaria, storicamente determinante. Marx era soprattutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro al crollo della società capitalista e delle pubbliche istituzioni da essa create, contribuire alla liberazione del proletariato moderno, al quale egli ha dato prima di tutto la coscienza della sua situazione e dei suoi bisogni, la coscienza delle condizioni della sua emancipazione…questa era la sua vera vocazione”. Sì, in questo senso il nostro compito è ancora quello che si era dato K. Marx, che potremo svolgere solo grazie al grande patrimonio che egli ci ha lasciato e di cui forse solo oggi è possibile comprendere tutta la sua straordinaria potenza rivoluzionaria.


 

[1] Per un ulteriore approfondimento di questa questione rinviamo all’articolo Gli Uomini, le macchine e il capitale apparso su D-M-D’  n° 1/2010

[2] Lotta di classe Stato politico Partito del proletariato e Comunismo – ed. Prometeo.

[3] K. Marx – L’ideologia Tedesca – Op. Compl. Ed Riuniti – pag. 34

[4] Lo rilevava già Marx nell’Ideologia Tedesca in cui egli scriveva: “Gli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici, nella concorrenza.” K. Marx – L’ideologia Tedesca – Op. Compl. Ed. Riuniti- Vol. 5° - pag. 63

[5] Marx – Engels – Manifesto del partito Comunista – Ed. Einaudi – 1970 – pag. 155