E’ il pericolo dell’inflazione che dà forza all’euro

Creato: 31 Ottobre 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 3946

Il pericolo è talmente grande che, alla fine, il calabrone, nonostante i suoi numerosi difetti, continua a volare e a tenere insieme anche paesi che forse ne farebbero volentieri a meno

Come previsto, dopo il benestare della corte costituzionale tedesca, lo scorso 8 ottobre, i 17 ministri finanziari dell’Eurogruppo hanno dato il via libera all’Esm (European stability mechanism), il nuovo fondo salva Stati permanente della zona euro.

Il fondo, che affiancherà il precedente Efsf (il Fondo europeo di stabilità finanziaria) fino a quando quest’ultimo non sarà più operativo, avrà a disposizione per i suoi interventi 700 miliardi di euro; ma già a partire dalla fine di ottobre potrà acquistare, sul mercato primario, i titoli del debito sovrano degli Stati che ne faranno richiesta, fino ad un ammontare di 200 miliardi di euro.

Una potenza di fuoco che, aggiunta a quella della Bce, a cui è stata data licenza di poter effettuare, seppure solo sul mercato secondario, acquisti dei titoli degli stati maggiormente esposti agli attacchi della speculazione internazionale, dovrebbe stabilizzare in maniera definitiva i mercati finanziari dell’area euro e favorire così la ripresa economica di tutto la zona.

E’ un’aspettativa che si fonda sull’idea che la crisi del debito sovrano non sia la conseguenza della crisi strutturale in cui da qualche decennio si dimena il modo di produzione capitalistico ma la sua causa, per cui, una volta tagliate le unghie alla speculazione e riportati i conti pubblici in pareggio, l’economia dell’eurozona dovrebbe tornare a crescere più e meglio di prima. E, infatti, fra le clausole da rispettare perché l’Esm e la Bce possano intervenire, vi sono precise condizionalità fra cui l’obbligo del pareggio di bilancio inscritto nella carta costituzionale e il suo raggiungimento entro le scadenze stabilite da Bruxelles e dalla Bce.

Con la nascita del nuovo fondo salva Stati, di fatto, si è sancito il definitivo passaggio della governance di tutta la politica economica e monetaria dell’eurozona nelle mani di Bruxelles e del direttivo della Bce e, contemporaneamente, si sono meglio delineati i rapporti di forza fra gli Stati membri e la gerarchia della catena di comando, con la Germania in testa quale potenza egemone amica[1].

L’euro, dunque, contrariamente a quanto molti, soprattutto negli Usa, auspicavano, ed altri, soprattutto in Europa, temevano, ha retto alla sua prova più difficile dalla sua nascita. Segno evidente che, nonostante tutto, per i Paesi dell’eurozona la moneta comune risulta tuttora più vantaggiosa rispetto ad un eventuale ritorno di ognuno alla propria moneta nazionale.

Ciò non esclude che il processo di integrazione europea, a causa dei numerosi contrasti fra i paesi membri, possa subire ulteriori scossoni o addirittura fallire; o anche che, strada facendo, l’Unione possa perdere qualche pezzo. Ma che, date le nuove forme del dominio imperialistico - basate sul controllo della produzione di capitale fittizio quale mezzo di pagamento internazionale[2] -, la tendenza al superamento dello Stato nazionale nella sua forma tradizionale, e alla nascita di aree monetarie su scala almeno continentale, è per molti versi inarrestabile.

Da questo punto di vista, l’euro, oltre che una moneta, è anche l’emblema di questa nuova fase dell’imperialismo.

La guerra delle monete

La Federal Reserve, per sostenere l’economia americana in grave crisi, ha varato lo scorso settembre un nuovo piano di acquisto di Bond (Quantitative Easing 3) per 40 miliardi di dollari al mese e di cartolarizzazioni di mutui per altri 40. Il piano, Open Ended (senza scadenza), prevede che gli acquisti continueranno - come si legge nel comunicato del Federal Open Market Committee (FOMC), l’organismo della Fed preposto alla gestione del piano - fino a quando Il “mercato del lavoro non registrerà un netto miglioramento”, che è come dire: “per tutta la durata della crisi”!

Si tratta di un immenso fiume di soldi che, aggiungendosi agli oltre dodicimila miliardi già immessi sui mercati internazionali dall’inizio della crisi dei subprime, rischia di trasformarsi in un vero e proprio oceano di carta in filigrana.

Qualunque altro paese al mondo che adottasse una simile politica monetaria, cioè che stampasse moneta senza una corrispondente produzione di ricchezza reale, in breve tempo rimarrebbe sommerso da questo mare e da un’inflazione da repubblica di Weimar. Ma non gli Usa che, invece, ne traggono non pochi vantaggi. Infatti, poiché tuttora la gran parte delle transazioni internazionali, e in particolare quelle relative alle materie prime, a cominciare dal petrolio, sono denominate in dollari, essi, immettendo moneta sui mercati internazionali, di fatto, finanziano la loro politica anticiclica scaricandone gran parte dei costi sul resto del mondo.

Infatti, aumentando la massa monetaria denominata in dollari, questi si svalutano e di conseguenza aumentano anche i prezzi di tutte le merci le cui transazioni avvengono in dollari e in particolare di quelli delle merci di cui c’è una maggiore domanda su scala mondiale come, per esempio, il petrolio, alcuni metalli e le derrate alimentari.[3]

Per esempio, chi ha necessità di importare petrolio e deve pagarlo in dollari, acquistandolo, inevitabilmente, importa anche una quota parte dell’inflazione made in Usa.

Avere, quindi, una bilancia commerciale in attivo e disporre di una valuta come l’euro, comunque riconosciuta e accettata come la seconda valuta di riserva e come mezzo di pagamento internazionale dopo il dollaro è cosa di importanza vitale. Ed è questa la ragione fondamentale per cui l’Unione europea resiste e tende, seppure fra mille difficoltà, a rafforzarsi.

Di fatto, fra la Fed e la Bce è in corso una guerra vera e propria, con la prima che stampando dollari come se fossero bigliettini da visita genera ed esporta inflazione  e la Bce, con l’Esm e le connesse politiche di sostegno alle esportazioni e riduzione delle importazioni mediante la svalutazione dei salari e il contenimento della domanda interna, a fungere da diga contro le conseguenze inflazionistiche della crescita della massa monetaria statunitense.

Nei primi anni ’70 del secolo scorso, in circostanze molto simili a quelle attuali, il tasso di inflazione, in alcuni momenti e un po’ in tutta l’Europa, superò il 30 per cento su base annua, e nei paesi cosiddetti emergenti, in particolare in America Latina, anche il mille per cento.

Il ripetersi di un simile scenario oggi, nel pieno di quella che rischia di risultare come la più grave crisi che il modo di produzione capitalistico abbia finora attraversato, per molti paesi, a cominciare dall’Italia, significherebbe rimanere sepolti sotto un cumulo di macerie.

Il pericolo è così grande che non a caso anche la Cina e il Giappone, nonostante  fra  loro non manchino antiche rivalità e aspri contrasti di interessi,  hanno stipulato un accordo per regolare il loro interscambio non più mediante il dollaro, ma con una nuova moneta di conto creata appositamente.

D’altra parte,  ubi maior minor cessat, dicevano i latini. E così  non c’è alleanza che non possa essere rivista  e divisione che non possa essere superata, in vista di uno scontro destinato a mutare radicalmente tutti gli attuali equilibri interimperialistici e le relative catene di comando.

Così, il calabrone -come qualche tempo fa il presidente della Bce, Draghi ebbe a definire l’euro- nonostante i suoi numerosi difetti continua a volare e a tenere insieme paesi che forse ne farebbero volentieri a meno.



[1] Così l’ha definita il direttore di Die Welt, Thomas Schmit.

[2] Su questa questione vedi L’euro della discordia, La crisi dei subprime rileggendo Marx e Il dominio della finanza.

www.istitutoonoratodamen.it sezione Sulla crisi

[3] Per ulteriori approfondimenti sulla relazione prezzo del petrolio/dollaro rinviamo all’articolo Il saliscendi del prezzo del petrolio ovvero il dominio del virtuale sul reale www.istitutoonoratodamen.it sezione Sulla crisi.