Crisi economica e nuovi equilibri imperialistici

Creato: 10 Maggio 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 3600

Dalla  rivista  D-M-D' n °4

Fino a non molto tempo fa sarebbe bastata la notizia della morte di un despota come il colonnello Gheddafi per scatenare l’euforia sui mercati borsistici mondiali. Si sarebbe detto che proprio la scomparsa dalla scena politica di uno dei principali attori dell’impero del male, avrebbe dato al mondo una maggiore libertà e tanta di quella linfa democratica che non sarebbero tardati a farsi sentire gli effetti benefici per l’intera umanità. Nessuno avrebbe messo in dubbio che all’indomani di una simile notizia non sarebbe calato il prezzo del petrolio, grazie all’immissione del greggio libico sul mercato, sarebbe aumentato l’intero commercio mondiale e la stessa produzione mondiale ne avrebbe tratto benefiche conseguenze. In poche parole il mondo sarebbe stato più sicuro da attacchi terroristici e le forze del mercato potevano liberamente esprimere tutta la loro potenzialità di sviluppo. Ma i tempi sono cambiati e la notizia dell’uccisione del colonnello libico è stata accolta dai cosiddetti mercati nella più assoluta indifferenza; nessun inno di gioia per i mercati borsistici, ma solo espressioni di mestizia come quelle espresse da Silvio Berlusconi che ha rimpianto la perdita di un amico con il quale condivideva interessi di vario tipo. E’ bene subito evidenziare che il cambiamento dei tempi non è assolutamente da ascrivere a nuovi modelli morali in auge ma è il frutto di un quadro economico mondiale che marcia inesorabilmente in direzione di una nuova e pesante fase recessiva.

Sono passati poco più tre anni dalla crisi causata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime statunitensi che l’intero sistema finanziario sta con il fiato sospeso per le sorti dell’euro e per la difficile gestione dei debiti sovrani dei più importanti stati del mondo. Ma questi sono solo due aspetti della superficie della crisi, le cui origini vanno ricercate nelle contraddizioni presenti nei meccanismi dei processi d’accumulazione del capitale. Fino a non molto tempo addietro erano in molti tra gli economisti borghesi a sostenere la tesi che la crisi era da ascrivere soltanto alla sfera finanziaria, con gli annessi abusi nelle attività speculative, mentre fondamentalmente l’economia reale godeva di ottima salute. Tale tesi è stata clamorosamente smentita dalla realtà dei fatti nel momento in cui tutti gli indicatori economici puntano verso il basso e la disoccupazione è diventata permanentemente un fenomeno di massa. Con l’aggravarsi del quadro economico internazionale si è fatta strada, in maniera pericolosa, un’altra tesi che solo in parte corregge quella sopra esposta, che non nega assolutamente le difficoltà dell’economia reale, ma queste sono da ascrivere ad un cattivo funzionamento della sfera finanziaria. Per i sostenitori di questa tesi, che in parte è stata fatta propria anche dalla stragrande maggioranza del movimento degli Indignados, la crisi trae la propria origine dalla sfera finanziaria dell’economia, basterebbe porre pertanto un freno alla continua espansione del mercato finanziario, attraverso meccanismi disincentivanti della speculazione, per riequilibrare il funzionamento dell’intero sistema capitalistico mondiale. Per costoro il nemico da combattere sarebbero le banche e le altre istituzioni finanziarie, assetate di danaro e pronte a giocare sporco sul banco delle attività speculative, ed assolvono da ogni responsabilità il capitale investito nell’economia reale considerato a sua volta vittima del capitale finanziario alla stessa stregua dei lavoratori e dei precari.

La confusione teorica regna sovrana, una confusione creata ad arte dalla classe dominante per mascherare le vere responsabilità del capitale e per rendere ancor più difficile quel processo di critica alla società borghese che rappresenta il primo ed indispensabile elemento per rilanciare una prospettiva di alternativa al modo di produzione capitalistico. Il compito che ci prefiggiamo in questo lavoro è di porre nella loro giusta collocazione i diversi elementi che  stanno alimentando la più grave crisi del capitalismo moderno, più grave di quella del 1929 sia per dimensioni che per le conseguenze sociali che sta determinando. Un lavoro che ha per scopo quello di tentare di fare ordine tra cause ed effetti nella dinamica della crisi economica e nello stesso tempo individuare i percorsi che di un nuovo equilibrio nei rapporti imperialistici su scala mondiale.

All’origine della crisi

Nel tentare un primo approccio alla disamina di questa crisi è necessario evidenziare la strettissima relazione con quella scoppiata nel biennio 2007/2008, quando l’esplodere della bolla speculativa dei mutui subprime ha di fatto aperto la strada alla recessione economica su scala globale. In questi tre anni, se escludiamo la Cina la cui economia è cresciuta, seppur a ritmi ridotti rispetto al passato, la produzione mondiale è rimasta quasi invariata. Alla fine del 2010 quasi nessuna delle grandi potenze imperialistiche aveva ancora raggiunto il livello di Pil degli anni precedenti lo scoppio della crisi. L’economia più importante del pianeta, quella statunitense, lo scorso anno ha fatto registrare un Pil pari al 99% rispetto a quello del 2007, ancor più pesante è la situazione dell’economia italiana il cui Pil del 2010 è stati pari soltanto al 96% di quello fatto registrare nell’anno precedente allo scoppio della bolla speculativa. Delle economie occidentali appartenenti al capitalismo avanzato, soltanto la Germania ha recuperato e superato i valori della propria produzione interna lorda fatta registrare alla fine del 2007[1].

Secondo le previsioni delle istituzioni economiche mondiali l’anno che sta per chiudersi doveva rappresentare il punto di svolta in cui l’economica mondiale avrebbe finalmente recuperato i livelli precedenti la grande crisi del 2008. Mai previsione è stata più sbagliata, tant’è che l’intera economia mondiale a causa delle contraddizioni nei meccanismi di accumulazione sta marciando precipitosamente verso una nuova e pesantissima recessione globale, i cui costi sociali saranno per miliardi di proletari drammatici in termini di peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro e con una crescita del fenomeno della disoccupazione e della precarizzazione del rapporto di lavoro.

I pochi dati sopra citati in apparenza possono sembrare di poco conto ma in realtà testimoniano di una crisi dalla quale il capitalismo a livello globale non riesce a tirarsi fuori con la conseguenza di scaricare sul mondo del lavoro le proprie insanabili contraddizioni. L’angoscia, tutta borghese, con la quale si attendono i dati sulle variazioni del Pil è determinata dal fatto che l’assenza di una sua costante crescita testimonia l’incepparsi dei meccanismi del processo d’accumulazione del capitale. La crescita del prodotto interno lordo non è altro che un diverso modo di definire l’esigenza del capitale di riprodursi su scala allargata, quella che Marx ha descritto nel secondo volume de “Il Capitale” attraverso i famosi schemi della riproduzione semplice e riproduzione allargata. Nella realtà storica gli schemi della riproduzione semplice non si sono mai concretizzati, laddove la produzione di plusvalore non è stata mai completamente utilizzata dal capitalista per soddisfare le sue voglie di consumo privato ed improduttivo. Marx attraverso gli schemi della riproduzione semplice ci dimostra teoricamente che un sistema può funzionare anche senza l’accumulazione, ma fin da subito ci avverte che tutto questo non accade nella realtà del capitale. Infatti, accade che solo una parte del plusvalore prodotto è consumato personalmente dal capitalista mentre la quota più grande di esso è reimpiegato produttivamente in un nuovo ciclo produttivo. La riproduzione allargata è connaturata al funzionamento del sistema capitalistico; il plusvalore estorto alla classe lavoratrice è utilizzato dal capitalista in un nuovo ciclo produttivo, determinando in tal modo una costante crescita nell’ammontare del capitale investito. Il continuo reinvestire plusvalore ha per scopo quello di alimentare a sua volta la produzione di plusvalore, unica linfa vitale dalla quale si nutre la voracità di guadagno del capitale. E’ la continua ricerca alla massimizzazione del profitto che spinge i capitalisti a reinvestire il plusvalore in un nuovo ciclo produttivo. Attraverso il reinvestimento del plusvalore estorto al proletariato, il capitalista, ricercando il massimo profitto, spinge la propria impresa verso nuove frontiere tecnologiche con la speranza di mandare fuori mercato almeno parte della propria concorrenza. In una situazione di equilibrato funzionamento del processo d’accumulazione si realizza una costante crescita del capitale impiegato, a testimonianza del fatto che il plusvalore prodotto è reinvestito nel mondo della produzione e realizzando di fatto le ipotesi descritte da Marx negli schemi della riproduzione allargata. Tradotto in un linguaggio meno tecnico e più giornalistico tutto questo si sostanzia in una costante crescita del Pil. Un semplice rallentamento nei tassi di crescita del prodotto interno lordo, o peggio ancora una sua riduzione in termini assoluti, rappresenta la spia che i meccanismi dell’accumulazione del capitale si sono inceppati e che sia la produzione che la realizzazione di plusvalore si è contratta in maniera considerevole. Tale contrazione deve essere valutata in rapporto all’enorme massa di capitali che sono alla ricerca di una propria remunerazione, una contrazione non in termini di valore assoluto ma in rapporto alla crescente massa di capitali investiti nelle diverse sfere del capitalismo.

Senza voler anticipare soluzioni che tenteremo di dare nel corso del nostro lavoro, è importante sottolineare come il plusvalore serve a remunerare sia il possessore di capitale investito nel mondo della produzione, nella cosiddetta economia reale, sia il possessore del capitale investito in attività speculative, nella cosiddetta economia finanziaria. Dal punto di vista del capitalista è indifferente che il suo capitale, nella forma di capitale monetario, sia investito nel mondo della produzioni di merci o in attività finanziarie e speculative, egli pretende in egual misura di vedere il proprio capitale remunerato a prescindere se il suo specifico capitale abbia o meno contribuito alla produzione di plusvalore. Già da questa semplice osservazione è possibile notare che la netta separazione tra il mondo dell’economia reale e della sfera della finanza è una falsa rappresentazione della realtà, in quanto esse sono intrinsecamente legate dal fatto di essere remunerate con il plusvalore estorto attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato.

La ridotta crescita della produzione negli ultimi anni, conseguenza della crisi finanziaria del 2008, ha accentuato alcune contraddizioni nell’ambito dell’economia mondiale e stanno per giungere ora al pettine alcuni nodi che rischiano di scaraventare l’intera economia mondiale in una nuova pesantissima recessione. Quando nell’estate del 2008 è scoppiata la bolla speculativa dei mutui subprime statunitensi l’intero sistema finanziario mondiale si è scoperto infarcito di prodotti finanziari (CDS, CDO e derivati di vario genere) che, a causa della perdita di tutto il loro valore, minavano la tenuta dell’intera architettura finanziaria internazionale. Banche, Istituzioni finanziarie e Assicurazioni presentavano nei loro bilanci prodotti finanziari che lo scoppio della bolla speculativa aveva di fatto trasformato in carta straccia. Il rischio che, allora, si è corso era di assistere al fallimento a catena di Banche ed altri istituto di credito le cui perdite ammontavano a svariate migliaia di miliardi di dollari; una cifra mostruosa che solo grazie agli ingenti interventi della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e delle altre banche centrali si è riusciti a fronteggiare evitando il crollo dell’intero sistema finanziario.

Lo scoppio dei debiti sovrani

Per sostenere i disastrati bilanci delle banche gli stati nazionali hanno messo sul piatto della bilancia delle somme enormi alimentando in tal modo l’aumento dei debiti sovrani. La crisi finanziaria determinata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime, aggravando pesantemente i bilanci delle banche, è stata affrontata scaricando sulla collettività i debiti privati delle grandi istituzioni bancarie e alimentando in tal modo la produzione di ulteriore capitale fittizio. I guasti determinati dall’enorme massa di capitale fittizio sono stati affrontati alimentando ancor di più la produzione di capitale fittizio e facendo salire a dismisura il debito pubblico di tutti i paesi. Dai disastrati conti delle banche si è passati ai disastrati conti pubblici degli stati e delle amministrazioni locali. Ora quelle stesse banche che hanno goduto del sostegno finanziario dello stato chiedono a gran voce ai governi di contenere il debito pubblico e nel chiederlo indicano anche la strada da percorrere: tagli allo stato sociale, tagli agli stipendi dei pubblici dipendenti e delle pensioni nonché maggiore flessibilità nello sfruttamento della forza lavoro. In poche parole la borghesia attacca pesantemente le condizioni della classe lavoratrice in ogni angolo del pianeta.

La situazione è diventata veramente esplosiva per il concomitante aumento dei debiti sovrani e la scarsissima crescita del prodotto interno lordo. Tale fenomeno non è una prerogativa solo di Grecia e Italia, paesi in cui il rapporto tra debito sovrano e Pil è rispettivamente al 160% e al 120%, ma investe l’intera comunità internazionale. E’ bene ricordare che gli Stati Uniti sono in termini assoluti il paese più indebitato al mondo, e il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo alla fine del 2010 ha superato la fatidica soglia del 100%, assestandosi al 102%. Lo scorso mese di agosto l’amministrazione statunitense guidata dal presidente Obama è riuscita a raggiungere l’accordo con l’opposizione repubblicana per aumentare il livello del deficit di bilancio solo dopo un’estenuante trattativa, correndo il rischio di dover tagliare ancor di più quei servizi sociali ed assistenziali ritenuti essenziali per il mantenimento della pace sociale. Nonostante le difficoltà di alcuni paesi europei, che stanno minando la sopravvivenza dell’euro come moneta unica del mercato continentale, gli Stati Uniti rappresentano ancora l’epicentro della crisi economica. Gli Usa per finanziare il proprio debito pubblico devono ogni giorno reperire sui mercati internazionali qualcosa come 2 miliardi di dollari, una cifra che per la stragrande maggioranza proviene dai mercati esteri. Il principale investitore internazionale in titoli di stato americano è la Cina che ha finora sottoscritto una cifra pari al 9% dell’intero debito pubblico statunitense che ammonta a circa 15 mila miliardi di dollari, una vera montagna che rischia di franare con effetti devastanti per l’intera economia mondiale.  Gli intrecci che si sono realizzati in questi ultimi anni tra l’economia statunitense e quella cinese ci porta ad osservare un fenomeno nuovo nell’ambito dello scontro imperialistico; infatti, se è vero che gli Stati Uniti dipendono dalla Cina e dalle sue riserve valutarie per finanziarie il proprio debito pubblico, dall’altra parte la Cina trova nel mercato statunitense il più importante mercato di sbocco delle proprie esportazioni. Una comunanza d’interessi che attualmente vede Usa e Cina muoversi lungo la stessa linea, in difesa del valore del dollaro e di conseguenza del valore dei titoli del debito pubblico statunitensi, ma che nel prossimo futuro potrebbe anche modificarsi alimentando in tal modo lo scontro imperialistico tra le due potenze. Gli Stati Uniti, pur dipendendo dalla Cina nel finanziare il proprio debito pubblico, hanno ancora in mano le leve del controllo della gestione della massa monetaria più importante del pianeta e di conseguenza della produzione di capitale fittizio.  La potenza imperialistica statunitense si sostanzia non  solo nella possibilità di poter schierare il più potente apparato militare che la storia abbia mai potuto vedere, ma anche nel fatto di poter governare la massa monetaria espressa in dollari, la moneta più importante negli scambi internazionali e nelle riserve valutarie di tutte le banche centrali del pianeta. Non è stato un caso che all’indomani del declassamento del rating dei titoli del debito pubblico americano gli investitori internazionali si sono catapultati nell’acquistare bond statunitensi. Consiste proprio in ciò la forza dell’imperialismo, capace di attrarre capitali nonostante l’aumento dei problemi dell’economia degli Stati Uniti.

La forza dell’imperialismo statunitense ha finora permesso agli Usa di scaricare sul resto del pianeta le turbolenze derivanti dalla crescita esponenziale del proprio debito sovrano, con la conseguenza di riuscire a mettere in secondo piano le proprie debolezze e concentrare su altri paesi l’attenzione della grande speculazione internazionale. In questo titanico scontro interimperialistico a pagarne, almeno in questo momento , le maggiori conseguenze sono i paesi dell’Unione europea. La crescita dei debiti sovrani in tutti i paesi dell’Unione europea sta mettendo in grosse difficoltà la stabilità dell’euro, minacciata dal rischio che qualche paese della stessa Unione possa subire un default. Tecnicamente fallita è la Grecia, mentre all’orizzonte si profilano gli stessi problemi per altri paesi dell’area mediterranea con l’Italia in prima fila. Per comprendere fino in fondo i problemi che l’Unione europea sta affrontando in questi ultimi mesi per mantenere in vita la propria moneta è necessario mettere a fuoco i reali motivi che hanno determinato la nascita dell’euro. L’euro nasce con il chiaro intento dei maggiori paesi del vecchio continente, Germania e Francia in primo luogo, di contrastare il dominio del dollaro sui mercati internazionali e dotare quindi un’area economica di oltre 300 milioni di consumatori di una propria moneta senza rivolgersi al biglietto verde per regolamentare gli scambi infracomunitari. La spinta propulsiva di una decisione politica di questo tipo è stata per molti anni enorme e ha consentito di allineare i tassi d’interesse dei paesi dell’Unione. Per molto tempo i tassi d’interessi dell’Italia non si sono discostati di molto da quelli tedeschi, permettendo all’Italia di mantenere sotto controllo la crescita del proprio debito pubblico. La crisi economica ha profondamente mutato il quadro nel funzionamento dell’architettura politica dell’Unione europea, mettendo a nudo tutta una serie di contraddizioni che erano rimaste latenti durante gli anni di vacche grasse. Una prima contraddizione, subito emersa durante la crisi finanziaria del 2008, è stata quella relativa ai vincoli di bilancio imposti dal trattato di Maastricht che hanno fortemente limitato l’azione anticiclica degli stati. Mentre la Federal Reserve americana ha pompato dollari a tutto spiano nell’asfittica economia statunitense, gli stati europei si sono mossi quasi in ordine sparso e la stessa Bce ha mantenuto i tassi d’interesse ad un livello piuttosto elevato rispetto a quello che richiedeva la drammatica situazione finanziaria. I vincoli di bilancio imposti dal trattato di Maastricht si sono trasformati in camicie di forza che hanno di fatto strangolato le economie dei paesi economicamente più deboli dell’Unione, come il caso greco insegna. Se a ciò si aggiunge la contraddittoria funzione che svolge la Bce nell’ambito dell’economia europea si possono capire meglio le difficoltà in cui versa attualmente l’euro. La banca centrale europea per statuto ha la sola funzione di fissare il tasso di sconto sul mercato europeo, ma non svolge la classica funzione assegnata alle banche centrali di prestatore di ultima istanza. In altre parole la Bce non può intervenire direttamente sul mercato stampando moneta e/o aiutare il sistema bancario con l’immissione di liquidità. Un ruolo quello della Bce alquanto limitato che in momenti come questi evidenzia l’inadeguatezza delle regole imposte dal trattato di Maastricht. Infatti, mentre la Federal Reserve svolge il classico ruolo di una banca centrale la Bce può fissare solo il tasso di sconto ma non può immettere direttamente per statuto liquidità nel sistema. Con la nascita dell’euro, nato con la funzione di contrastare il dominio del dollaro, si è avviato un processo d’integrazione economica senza però prevedere esplicitamente un altrettanto processo d’integrazione politica come la costituzione di unico grande stato europeo. L’integrazione politica non solo son si è realizzata ma sotto i pesantissimi colpi della crisi economica rischiano di far saltare la stessa esistenza dell’euro. Lo scontro imperialistico in atto è violentissimo e le diverse anime che hanno dato vita all’Unione europea e alla sua moneta unica potrebbero anche dividersi a far saltare la moneta unica. Le dinamiche interne all’Unione europea hanno subito una profonda modificazione negli ultimi anni, durante i quali la Cina ha assunto un ruolo di primissimo piano nell’interscambio commerciale con la Germania. Queste dinamiche devono essere tenute in forte considerazione per cercare di comprendere le sempre maggiori ritrosie tedesche nell’affrontare il problema del debito sovrano della Grecia e della stessa Italia. Il fatto che la Cina stia per diventare il principale partner commerciale tedesco potrebbe anche significare che gli interessi della Germania divergano rispetto ad altri paesi europei e quindi decidano di modificare l’attuale assetto monetario basato su una moneta unica europea utilizzata da ben 17 stati.

Le differenze, che abbiamo cercato di evidenziare, tra il ruolo svolto dalla Bce e dalla Federal Reserve evidenziano anche un diverso peso imperialistico svolto dall’Unione europea e dagli Stati Uniti nella capacità di appropriazione parassitaria di plusvalore mediante la produzione di capitale fittizio. Questo diverso peso imperialistico sta spostando l’epicentro della crisi dal suo punto d’origine, gli Stati Uniti, verso l’altra sponda dell’Atlantico, l’Unione europea, con la conseguenza di alimentare spinte centrifughe nell’area dell’euro le cui conseguenze sono ancora tutte da verificare. La crisi nell’area dell’euro potrebbe da un lato determinare la fine dell’esperienza della moneta unica ma anche dall’altro lato accelerare le spinte verso la creazione di uno stato europeo centralizzato. In ogni caso entrambe le ipotesi potranno concretizzarsi solo attraverso un attacco senza precedenti alle condizioni di vita e di lavoro per il proletariato europeo. L’esempio greco, con il feroce attacco al mondo del lavoro,  non sarà un caso isolato ma l’unica strada che la borghesia europea potrà percorrere sia nell’ipotesi di creazione di uno stato centralizzato che di una diaspora dell’Unione europea.  In ogni caso qualsiasi siano le future scelte nell’ambito dell’Unione europea, con il crollo dell’euro o con la costituzione di un forte stato europeo centralizzato, queste avranno delle ripercussioni pesantissime sul piano dei rapporti imperialistici.

Le conseguenze dell’attuale crisi finanziaria sul piano dei rapporti imperialistici non deve distogliere la nostra attenzione rispetto alle reali cause della sua origine.

Caduta del saggio del profitto e produzione di capitale fittizio

Nel momento in cui ci avviamo alla conclusione del nostro lavoro è opportuno mettere ordine in quelle che sono le cause e gli effetti della più grave crisi del moderno capitalismo. Senza questa messa a punto si rischia inevitabilmente di scambiare gli aspetti superficiali della crisi con le sue vere ragioni, con la conseguenza di scaricare la responsabilità di tale crisi al solo mondo della finanza e riparare dalle critiche le contraddizioni dell’intero processo d’accumulazione. E’ lo stesso Marx ha darci questa lezione di natura metodologica: “Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista economico-politico, cominciamo con la sua popolazione, la divisione in classi, la città, la campagna, il mare, i diversi settori di produzione, esportazione e importazione, produzione e consumo annuali, prezzi delle merci ecc.

Sembra corretto prendere le mosse dal reale e concreto, dall’effettivo presupposto, e cioè, nell’economica politica, dalla popolazione, che è la base e il soggetto di tutto l’atto sociale della produzione. Ma ciò, ad una più attenta considerazione, si dimostra come falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio, ad esempio, le classi di cui è composta. Queste classi sono di nuovo una parola vuota, se non conosco gli elementi da cui dipendono, ad esempio, lavoro salariato, capitale ecc.. Questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi, ecc. Se cominciassi, quindi, con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica di un intero e, mediante una determinazione più precisa, perverrei sempre più, per via d’analisi, a concetti più semplici; dal concreto della rappresentazione ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere a determinazioni più semplici. Da qui bisognerebbe, poi, intraprendere di nuovo il viaggio a ritroso fino ad arrivare nuovamente, alla fine, alla popolazione, ma questa volta non più come ad una rappresentazione caotica di un intero, ma come ad una totalità ricca di molte determinazioni e relazioni.” [2] L’insegnamento di Marx ci ammonisce a non guardare alla superfice delle cose, ma attraverso il metodo dell’astrazione determinata, scavare nelle profondità degli elementi per coglierne le reali dinamiche e i loro contraddittori movimenti. Ad una prima e superficiale lettura questa crisi economica sembrerebbe essere stata generata dalla speculazione finanziaria e dal sistema delle banche e sono in molti a cadere nella trappola delle apparenze. Per esempio l’economista inglese David Harvey, uno degli intellettuali più in voga negli ambienti del neo-riformismo, pur richiamandosi a Marx ne deforma completamente il metodo d’indagine con la conseguenza di arrivare a delle conclusioni politiche aberranti. Scrive nel suo ultimo lavoro “Le forze sociali impegnate a definire le modalità di funzionamento del connubio stato-finanza differiscono perciò notevolmente dalla lotta di classe tra capitale e lavoro che grande spazio occupa nella teoria marxiana. Con questo non intendo suggerire che le battaglie politiche contro l’alta finanza siano irrilevanti per il movimento dei lavoratori, perché chiaramente rilevanti lo sono. Ma su molte tematiche, quali imposte, dazi, sussidi e politiche di regolamentazione sia interne che estere, il capitale industriale e le organizzazioni dei lavoratori, in specifici contesti geografici, potrebbero ritrovarsi alleati anziché in opposizione tra loro, come è accaduto con la richiesta di salvataggio pubblico dell’industria dell’auto statunitense nel 2008-2009, quando le case automobilistiche e i sindacati hanno unito le forze nel tentativo di salvare i posti di lavoro e proteggere le imprese dal fallimento[3]. Per Harvey i capitalisti industriali e i lavoratori sono vittime entrambi della speculazione finanziaria e che è loro interesse unire le proprie forze per contrastare il dominio del capitale fittizio. L’errore teorico di Harvey è quello di scambiare l’aspetto superficiale della crisi, che appare generata dal mondo della finanza, con le reali cause, da ricercare nei meccanismi del processo d’accumulazione. L’invito all’interclassimo è una logica conseguenza di tale errore teorico.

La crisi economica trova la propria origine nelle contraddizioni del processo d’accumulazione del capitale, nelle sempre maggiori difficoltà di remunerare adeguatamente i capitali investiti. A partire dagli anni settanta del secolo scorso a causa della crescita della composizione organica del capitale, determinato dal rapporto tra capitale costante (macchinari, materie prime ecc.) e capitale variabile (salari), i capitali investiti nel mondo della produzione hanno incontrato enormi difficoltà nell’ottenere un’adeguata remunerazione. Questa difficoltà è stata dettagliatamente descritta da Marx nel terzo libro de “Il Capitale” e consegue direttamente dalla legge del valore; periodicamente, proprio a causa del continuo aumento nella composizione organica del capitale, si attivano i meccanismi descritti da Marx nel capitolo dedicato alla legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Senza voler riprendere le analisi che abbiamo svolto in altra sede[4], ci sembra molto importante evidenziare come la crescita esponenziale della produzione di capitale fittizio sia da legare all’operare della legge sulla caduta del saggio medio del profitto. Una massa crescente di capitali per sfuggire alle sempre maggiori difficoltà di ottenere un’adeguata remunerazione, anziché essere investiti nel mondo della produzione, in cui i saggi di profitto erano alquanto bassi, ha intravisto nelle attività finanziarie e speculative una via alternativa per valorizzarsi. A partire dagli anni ottanta del secolo scorso gli Usa, proprio grazie alla funzione svolta del dollaro nel sistema monetario mondiale e al proprio dominio imperialistico sono riusciti, attraverso la finanziarizzazione dell’economia, a stornare parassitariamente a proprio vantaggio plusvalore da ogni angolo del pianeta. Una massa crescente di capitali anziché percorrere l’intero ciclo del processo d’accumulazione del capitale D-M-D’, ha trovato una scorciatoia saltando la fase della produzione di merci e la cui sintesi si esprime nella formula D-D’, in cui del denaro si autovalorizza senza essere impiegato nella produzione di merci.

Dal punto di vista del singolo possessore di capitale, questo meccanismo ha dato l’illusione che del denaro si possa valorizzare nella fase della circolazione monetaria, senza che lo stesso sia investito direttamente nel mondo delle attività produttive. Per un certo periodo di tempo sembrava che la legge del valore descritta da Marx fosse stata superata dalla potenza del capitale, capace di valorizzarsi senza sfruttare la forza lavoro proletaria, tant’è che questa massa enorme di capitali non veniva impiegata nel mondo della produzione ove si concretizza lo sfruttamento operaio.

Correttamente si pone all’origine della crescita delle attività speculative e all’esasperata produzione di capitale fittizio la caduta del saggio medio del profitto, ma altri fattori devono essere tenuti in considerazione se si vogliono cogliere i tanti aspetti della dinamica dell’attuale crisi capitalistica. La produzione parossistica di capitale fittizio, ossia di capitale che viene generato a partire da un debito e che non viene investito nel mondo della produzione, si è potuta concretizzare negli ultimi decenni per la concomitante azione dell’informatizzazione dell’economia e della mondializzazione del mercato della forza-lavoro che ha abbassato notevolmente il costo del lavoro. Il mondo della speculazione e la produzione di capitale fittizio hanno potuto tecnicamente fare il passo da gigante realizzato in questi anni anche per il fatto che la tecnologia informatica consente di effettuare delle transazioni finanziarie in tempo reale. In passato tutto questo non era assolutamente ipotizzabile e senza la tecnologia informatica non avremmo potuto assistere alla produzione di capitale fittizio in queste dimensioni. A differenza del ciclo di rotazione del capitale industriale, che può essere anche piuttosto lungo, la velocità di circolazione del capitale fittizio richiede tempi non superiori al secondo, tempi che solo l’informatica può garantire.

L’informatica ha rappresentato il supporto tecnico necessario affinché il capitale fittizio potesse essere prodotto in tali dimensioni, ma ovviamente tutto questo non è ancora sufficiente a spiegare l’intero fenomeno, occorreva che i mercati finanziari fossero completamente liberalizzati e che fossero abolite tutte quelle vecchie normative che di fatto limitavano la libera circolazione del capitale finanziario su scala mondiale. E questo secondo passo è stato fatto a partire dagli inizi degli anni ottanta del secolo scorso con la deregolamentazione del mercato finanziario.

Un ultimo fattore che deve essere tenuto in considerazione, il fattore economico più importante per comprendere le dinamiche del moderno capitalismo, è l’unificazione del mercato della forza-lavoro e la contestuale svalorizzazione del suo costo. Con il crollo dell’Urss e l’apertura del mercato cinese ed indiano si sono creati i presupposti per l’unificazione del mercato della forza-lavoro rendendolo di fatto planetario. Grazie all’apertura politica di ampie regioni prime inaccessibili al grande capitale occidentale e alla possibilità di delocalizzare la produzione industriale in aree in cui il costo della forza-lavoro è cento volte inferiore a quello delle aree a capitalismo avanzato, si sono fortemente innalzati i saggi del plusvalore e del profitto creando in tal modo i presupposti economici per remunerare la crescente massa di capitale fittizio prodotto dalle centrali dell’imperialismo. Se è vero che l’avvio del processo di finanziarizzazione dell’economia è da ricercare nella caduta del saggio dei profitti nelle sfere della produzione delle merci, il fenomeno non si comprende in tutte le sue dimensioni se non si tiene in debito conto della svalorizzazione della forza-lavoro e dell’unificazione del mercato del lavoro. Il capitale fittizio prodotto su scala mondiale rappresenta una massa di dimensioni enormi che può essere remunerata alle sole condizioni di contrarre il costo del lavoro ed aumentare lo sfruttamento del lavoro salariato a tali livelli che prima dell’unificazione del mercato del lavoro e della delocalizzazione della produzione industriale erano inimmaginabili. Non è solo il capitale industriale che si nutre di plusvalore e dello sfruttamento del lavoro salariato ma anche il capitale fittizio, pur non contribuendo ad alcuna sua produzione, si nutre di plusvalore così come qualsiasi altro capitale.


La massa enorme di capitale fittizio prodotto in questi anni è stato remunerato attraverso il plusvalore prodotto negli angoli più disparati del pianeta. Tale massa è diventata così grande che, nonostante la drastica riduzione del costo del lavoro e la crescita della produttività del lavoro, il plusvalore estorto globalmente alla classe lavoratrice non è sufficiente a remunerarlo adeguatamente; da qui l’origine della crisi finanziaria e la necessità di distruzione dei capitali in eccesso. La crisi solo in apparenza è di natura finanziaria ma, come abbiamo cercato di dimostrare, trae la propria origine nelle contraddizioni del processo d’accumulazione, nelle sempre maggiori difficoltà del capitale di ottenere adeguati saggi di profitto. Non solo la crisi finanziaria è da inquadrare nei meccanismi d’accumulazione del capitale, ma a causa degli strettissimi rapporti che si sono determinata tra il mondo della finanza e dell’economia reale, tale crisi trascina inevitabilmente nel baratro della recessione l’intera economia mondiale. Un solo dato numerico ci basta per comprendere la compenetrazione della sfera finanziaria e reale dell’economia; ci informa David Harvey che “Negli Stati Uniti la percentuale dei profitti totali ascrivibili ai servizi finanziari è salita da circa il 15% del 1970 al 40% nel 2005.”[5] Questo dato ci fa comprendere come non sia ormai più possibile dividere nettamente il mondo della finanza con quello dell’economia reale in quanto i due settori sono entrambi rappresentati nei grandi gruppi economici mondiali. Anzi ci sembra scorretto da un punto di vista teorico scindere l’intera economia in due sfere, finanziaria e reale, in quanto tale rappresentazione deforma la realtà dei fatti.

Conclusioni

A conclusione del nostro lavoro ci sembra opportuno tentare di tirare le somme di quanto abbiamo sostenuto. Quella in atto è una crisi che trova le proprie origini nelle contraddizioni del processo d'accumulazione. Capitali sempre più grandi non riescono ad essere adeguatamente remunerati e ciò deriva dall’operare della legge sulla caduta del saggio medio di profitto. La finanziarizzazione dell’economia è stata una risposta dell’imperialismo alle sempre maggiori difficoltà di remunerare adeguatamente i capitali investiti nel mondo della produzione. La produzione del capitale fittizio è servita alle centrali dell’imperialismo per appropriarsi parassitariamente di quote crescenti di plusvalore prodotto nell’ambito dei settori produttivi; settori produttivi in larga parte delocalizzati in aree in cui il costo della forza-lavoro è stato ridotto ad una percentuale irrisoria rispetto a quello delle aree del capitalismo avanzato. Per un certo numero di anni, grazie agli incrementi della produttività e alla drastica riduzione del costo della forza-lavoro, il capitale fittizio prodotto ha trovato sufficiente plusvalore con il quale remunerarsi. Oggi le dimensioni assunte dalle disparate forme di produzione di capitale fittizio sono così enormi che il plusvalore prodotto globalmente non è più sufficiente a remunerare adeguatamente tale massa. Da qui l’avvio alla crisi finanziaria e alla distruzione del capitale fittizio in eccesso con le nefaste ricadute sull’intera economia mondiale.

Le risposte che la borghesia su scala mondiale sta cercando di dare alla propria crisi sono tutte improntante nel sostenere ancor di più la produzione di capitale fittizio. Ciò non rappresenta un accanimento terapeutico sbagliato per curare i mali del capitalismo, ma rappresenta una strada obbligata che non ha alternative. Rappresentano delle vere e proprie litanie romantiche i cori di chi sostiene che il capitalismo debba essere riformato limitando e tassando le transazioni finanziarie e nello stesso tempo incentivare le attività produttive. In altre parole sostengono un ritorno alle vecchie politiche Keynesiane, ma nessuno tiene in debita considerazione la vera natura della produzione di capitale fittizio e quali siano le esigenze improcrastinabili che spingono sempre di più verso un aumento della sua produzione.

La produzione di capitale fittizio è il principale strumento attraverso il quale ci si appropria parassitariamente del plusvalore estorto alla classe lavoratrice nelle attività produttive. Tale produzione di capitale fittizio non è però alla portata di tutti ma è un’arma che solo le grandi potenze imperialistiche possiedono e riescono ad usare. Le grandi potenze imperialistiche, gli Stati Uniti in primo luogo, a causa della loro struttura economica possono mantenere il proprio status alla sola condizione di poter dettare le regole del gioco e continuare a produrre a proprio piacimento masse crescenti di capitale fittizio. E’ l’unico modo che hanno per appropriarsi parassitariamente del plusvalore prodotto globalmente e remunerare i propri capitali. L’invito che gli esponenti del neo riformismo rivolgono ai governanti delle grandi potenze di ritornare ad investire in loco in attività produttive non tiene conto del fatto che è stata propria la legge della caduta del saggio del profitto in questo settore a determinare l’avvio del processo di finanziarizzazione dell’economia. Se erano bassi i saggi di profitto negli anni settanta e ottanta del secolo scorso figuriamoci oggi con l’aumento che si è verificato nella composizione organica del capitale in aree come gli Stati Uniti. Tornare a reinvestire nelle attività produttive non è capitalisticamente sostenibile in quanto i capitali non sarebbero adeguatamente remunerati. L’unica strada che il capitalismo può percorrere è quella di sostenere ancor di più la produzione di capitale fittizio e nello stesso tempo attaccare le condizioni di vita e di lavoro del proletariato mondiale.

La crisi in atto ha inevitabilmente attivato uno scontro imperialistico feroce per l’appropriazione parassitaria di plusvalore mediante la produzione di capitale fittizio. Gli intrecci economico-finanziari tra le grandi potenze imperialistiche sono così fitti che allo stato attuale è difficile azzardare delle previsioni sui loro sviluppi. Lo scontro imperialistico vede da un lato gli Stati Uniti che, nonostante le difficoltà evidenziate all’inizio del nostro lavoro, mantengono in larga parte in mano il controllo della produzione di capitale fittizio, la Cina, da vera fabbrica del mondo, avanzare richieste di partecipare al banchetto della spartizione della rendita finanziaria, e l’Unione europea, l’area continentale più avanzata al mondo, che rischia di implodere sotto il peso dei debiti sovrani e di assistere al collasso dell’euro. Qualsiasi sia lo sviluppo di questo titanico scontro imperialistico l’unica cosa certa è che a pagare il conto più salato sarà come sempre la classe lavoratrice chiamata ancora una volta a sostenere con il proprio sfruttamento selvaggio il processo d’accumulazione del capitale.

Lorenzo Procopio



[1] I dati sono tratti dal numero 4 del 2001 della Rivista Limes – La Germania Tedesca nella crisi dell’euro.

[2] L’introduzione del ’57 di Marx - Ed. Ibis 2011 - pag. 109-110

[3] David Harvey: L’enigma del capitale – ed. Feltrinelli 2011 - pag. 67-68

[4] Vedi il secondo numero di questa stessa rivista DMD’- dicembre 2010 - “Sulle cause della crisi e delle sue prospettive

[5] David Harvey: L’enigma del capitale – ed. Feltrinelli 2011 - pag. 63