Il saliscendi del prezzo del petrolio ovvero il dominio del virtuale sul reale

Creato: 22 Marzo 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 5754

Secondo molti analisti il prezzo del petrolio, che attualmente oscilla attorno ai 57-58 dollari al barile, nel corso del 2007 dovrebbe stabilizzarsi attorno ai 60 dollari al barile e nel volgere di pochi anni attorno ai 100 $ al barile. Quest’ultima previsione si fonda sul presupposto che, dati gli attuali tassi di crescita dell’economia cinese e indiana, la domanda di greggio sul mercato mondiale è destinata a crescere di pari passo mentre l’offerta sarebbe destinata a rimanere sostanzialmente stabile se non addirittura a diminuire. Poiché sull’entità futura dell’offerta di petrolio le previsioni degli esperti del settore divergono notevolmente fra loro, il condizionale mai come in questo caso è d’obbligo. I parametri di valutazione su cui si fondono le previsioni a medio-lungo termine, infatti, sono tali e tanto diversi fra loro da condurre a conclusione spesso diametralmente opposte. Dalla difficoltà tecnica di prevedere i risultati delle esplorazioni in corso per la ricerca di nuovi pozzi a quella di determinare con una certa esattezza se e quando si verificherà il cosiddetto picco della produzione a livello mondiale, tutto concorre a far sì che le previsioni sul futuro dell’offerta di petrolio assomiglino più ai presagi tratti dagli aruspici dalla lettura delle viscere degli animali sacrificati che a previsioni di una qualche attendibilità.

Per esempio, la curva a campana, calcolata in base al modello matematico elaborato nel 1956 dallo studioso statunitense Hubbert, da cui prende il nome, nonostante consenta di calcolare con sufficiente esattezza il picco di un singolo giacimento e di quelli limitrofi o di un’area ben definita ed omogenea dal punto di vista delle caratteristiche geologiche, non risulta altrettanto attendibile quando si tratta di calcolare il picco a livello mondiale. Qui intervengono tante e tali variabili, quali per esempio il prezzo del petrolio stesso e la conseguente valutazione della convenienza a estrarlo da determinati pozzi o meno o i futuri sviluppi delle tecniche di estrazione, che a seconda del valore ponderato che si dà a questa o quella variabile, si ottengono risultati anche opposti fra loro. Secondo molti esperti del settore, in considerazione del fatto che nel periodo ’81 –’90 alle riserve esistenti si siano aggiunte ogni anni riserve pari a 56,5 miliardi di barili mentre nel periodo 1991-2003 soltanto 35,6 miliardi di barili, il picco sarebbe stato già raggiunto e superato. Secondo il Cera (Cambridge Energy Reserach Associates) forse l’Istituto per lo studio dei problemi energetici più famoso del mondo, invece, già nel 2010 “si arriverà di nuovo a un abbondante surplus di greggio rispetto alla domanda.[1] E dello stesso parere è anche l’Eni: “Per il gas come per il petrolio” - ha più volte dichiarato il suo ex amministratore delegato Mincato- “non esistono problemi di disponibilità negli anni a venire[2]

Al di là della disputa sul picco, in massima parte, però, le previsioni danno per più probabile, negli anni a venire, una tendenza del prezzo del barile al rialzo. La prima, e forse la più convincente, delle motivazioni addotte a sostegno di tale previsione è che nel settore dei trasporti, quello cioè che assorbe la maggiore quantità dei consumi petroliferi, non s’intravedono alternative, dal punto di vista capitalistico, economicamente valide agli attuali sistemi basati sui motori alimentati da derivati del petrolio (benzine, gasolio, Gpl) e/o da gas naturale (metano), il cui prezzo è sostanzialmente correlato a quello del petrolio. Inoltre, i consumi nel settore, sono rimasti costantemente in crescita nonostante che dopo il primo shock petrolifero del 1973, quando nel volgere di pochi mesi il prezzo si decuplicò, siano state messe a punto nuove generazioni di motori dai consumi molto più contenuti. “Nel 1980 - scrivono G.B. Zorzoli e G. Ragozzino nel volume già citato – a livello mondiale il 36% di un barile era destinato ai trasporti; nel 1990 era salito al 41,5%; nel 2000 al 46,5 e prima del 2010 supererà il 50%. In Usa siamo già a una domanda di prodotti petroliferi per il trasporto intorno all’80% della domanda totale di petrolio; in Italia agli inizi degli anni ’70 eravamo al 15% ormai abbiamo varcato la soglia dell’80%”.[3]

Se a ciò si aggiunge che fra i mezzi di trasporto quello che più consuma prodotti petroliferi è l’automobile (il 90% negli Usa, l’80% in Europa e il 60% in Giappone) e che nel 2030 si prevede che il numero dei veicoli in circolazione nel mondo non sarà inferiore a 1,2 miliardi contro gli attuale 400 milioni, è evidente che un’inversione di tendenza appare, nel prossimo futuro, alquanto improbabile. D’altra parte, fermi restando gli attuali rapporti di produzione, appare assai improbabile anche solo un uso limitato dell’automobile. Negli Usa, per esempio, dall’urbanistica delle città al circuito della distribuzione delle merci, tutto è incentrato sull’automobile e farne a meno è divenuto pressocchè impossibile per la gran parte della popolazione.

Peraltro, la scarsa attenzione riservata, per le solite, ovvie ragioni di profitto, alla produzione di energia da fonti rinnovabili, legittima ulteriormente l’ipotesi della tendenza al rialzo del prezzo del petrolio, tenuto conto che esso costituisce anche, direttamente o indirettamente, la principale fonte energetica utilizzata nella maggior parte dei processi produttivi ed è la materia prima dalla quale si ricavano numerose materie plastiche. A far propendere per una previsione al rialzo dei prezzi del petrolio, gioca anche il fatto che la cosiddetta spare capacity, cioè la capacità non sfruttata ancora disponibile, a fronte di una previsione di una domanda in crescita, negli ultimi anni è rimasta costante, fra 1 e 2 milioni di bbl/g (barili al giorno).

Sulla base di questi dati, la maggior parte degli analisti del settore, e più in generale degli economisti, supponendo – poi vedremo quanto erroneamente- che il processo di formazione del prezzo del petrolio scaturisca dal libero gioco della domanda e della offerta, ipotizza come ineluttabile, da qui a non molto, il raggiungimento di quota 100 dollari al barile. Ma, nel caso del petrolio, come già nel 1913 ebbe modo di affermare in un intervento alla Camera dei Comuni l’allora ministro della Marina britannica W. Churchill: “il mercato libero è una presa in giro” per cui anche questa previsione va presa con la dovuta cautela potendo, alla resa dei conti, risultare sia troppo ottimistica sia troppo pessimistica.

La rivoluzione del mercato del petrolio

Fino a tutti gli anni ’60 il mercato petrolifero è stato caratterizzato dalla presenza di poche grandi imprese, le famose sette sorelle, che, oltre ad avere il controllo della proprietà dei pozzi, provvedevano, mediante una struttura di imprese integrate verticalmente, all’estrazione, alla trasformazione del prodotto e alla sua distribuzione. Il petrolio, abbondantissimo e a prezzi molto contenuti, scorreva a fiumi nelle economie dei paesi industrializzati assicurando loro tassi di crescita molto sostenuti e alle compagnie petrolifere e a quelle vere e proprie satrapie al potere nei paesi produttori, profitti e rendite da capogiro.

Fra il 1969 e il 1970, però, i paesi produttori cominciano a dare i primi segnali di una certa insoddisfazione per un prezzo ritenuto troppo basso a fronte di una domanda in crescita e un dollaro su cui gravava la minaccia di un’imminente svalutazione. Il tutto ampliato dal crescente malessere delle loro popolazioni che, a dispetto delle immense ricchezze naturali dei loro paesi, vivevano in condizioni di estrema miseria. In verità, già nel 1958, con la presa del potere da parte del partito Baath in Iraq e la conseguente nazionalizzazione dell’industria petrolifera irachena, si erano avute le prime avvisaglie dei mutamenti che si sarebbero prodotti da lì a qualche anno nei rapporti di proprietà dei pozzi e di conseguenza nel processo di formazione del prezzo. E’ la Libia di Gheddafi che, nel 1970, infligge la prima forte scossa all’intera struttura del mercato petrolifero internazionale. In coincidenza con un incidente alla Tapeline, l’oleodotto che collega i campi petroliferi della penisola araba con il Mediterraneo, avanza alla Occidental, la compagnia petrolifera che ha la concessione per lo sfruttamento dei pozzi libici, la richiesta di un consistente aumento del prezzo del barile. Al rifiuto della Occidental, il colonnello riduce unilateralmente la produzione. Anche in considerazione del fatto che la Libia soddisfa il 30 per cento del fabbisogno europeo, ben presto la Occidental capitola e oltre a concedere un aumento del 30 per cento, concorda il superamento della famosa clausola fif-fifty che aveva fino a quel momento regolato la spartizione dei profitti fra i paesi produttori e le compagnie concessionarie. Benché l’aumento della quota non fosse molto consistente, dal 50 al 55 per cento, il nuovo accordo ebbe un impatto dirompente sui rapporti fra compagnie e paesi produttori. Da lì a poco, infatti, tutti avanzarono richieste simili mentre, al loro interno, andavano imponendosi con sempre maggior forza quelle istanze favorevoli alla riappropriazione delle risorse petrolifere sottraendole al controllo delle compagnie. Poi con la guerra del Kippur, nel 1973, quando i paesi arabi attaccano Israele e, per rappresaglia contro i paesi industrializzati che l’appoggiano, decretano il blocco delle esportazioni, l’intero mercato petrolifero viene messo definitivamente a soqquadro. Il blocco, in verità, fallisce ma i prezzi ufficiali, che tra il dicembre del 1970 e il settembre del 1973 erano già più che raddoppiati passando da 1,21 a 2,90 dollari al barile, vanno lo stesso alle stelle e i vecchi rapporti fra compagnie e paesi produttori in frantumi.

Tra l’ottobre e il dicembre del 1973 i prezzi del greggio impazziscono, e nelle aste di transazioni spot (sono detti spot i prezzi delle contrattazioni a pronti in cui il petrolio viene venduto all’asta al migliore offerente ndr) raggiungono livelli assurdi: a metà dicembre, per esempio, in un’asta per 450.000 barili l’Iran riesce a spuntare 17 dollari al barile, e si ha notizia di prezzi ancora più elevati.”[4]

Il prezzo ufficiale, che fa riferimento alla qualità Arabian light, una se non la migliore qualità sul mercato, invece raggiunge, nello stesso, periodo gli 11,65 dollari al barile. E mentre i prezzi salgono, dopo Iraq e Libia anche Arabia Saudita, Kuawait e Venezuela si riappropriano del controllo e della gestione dei loro pozzi.

Si tratta di quello che poi sarà indicato come il primo shock petrolifero

Sarebbe però riduttivo ricondurre questo vero e proprio cataclisma esclusivamente alle rivendicazioni dei paesi produttori e alla guerra del Kippur; in verità sulla scena operava già da qualche tempo un convitato di pietra che intravedeva in un consistente aumento del prezzo del petrolio l’unica via di uscita da una crisi che lo minacciava fin nelle fondamenta: gli Usa. Nell’agosto del 1971, l’allora presidente statunitense, Nixon aveva denunciato gli accordi di Bretton Woods del 1944 e decretato l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro nel tentativo di contrastarne la svalutazione derivante dal fatto che, per finanziare la loro spesa pubblica e in particolare quella militare, gli Usa avevano emesso una valanga di dollari in eccesso rispetto alla parità prefissata di 35 dollari per oncia.

Con l’abbandono della convertibilità con l’oro di fatto essi, essendo il dollaro la valuta in cui erano, e sono tuttora, denominati i prezzi del petrolio, poterono, grazie al rialzo del prezzo del petrolio, riassorbire la massa monetaria emessa in eccesso senza rimanere travolti da un processo inflazionistico già pericolosamente vicino al 20 per cento su base annua e scaricare così la loro crisi sul mondo intero.

Trader e Derivati

Alti prezzi e sottrazione del controllo e della gestione dei pozzi da parte dei maggiori paesi produttori pongono definitivamente fine al processo di formazione del prezzo del petrolio basato sul sistema di posted prices cioè di prezzi prefissati con contratti a medio e lungo termine che fino ad allora aveva assicurato ai paesi industrializzati importatori continuità dei rifornimenti a prezzi stabili; al suo posto prende sempre più piede il mercato a pronti basato sullo spot market (di cui abbiamo detto prima) preludio dell’ingresso nel mercato petrolifero di quei derivati finanziari che oggi vi imperversano.

Con il passaggio – osservano Zorzoli e Ragozzino- della proprietà o del controllo di una parte consistente della produzione…i paesi produttori ora dispongono di grandi quantità di greggio, ma non delle strutture a valle. In seguito cercheranno di porvi rimedio, ma ancora oggi sono ben lontani dall’aver replicato un’organizzazione in passato resa possibile solo dal controllo in poche mani del settore. D’altra parte vendere tutta la produzione alle grandi compagnie sarebbe equivalso a passare dalla padella alla brace, di fatto riconsegnandogli il pieno controllo del mercato. Stretti fra l’incudine di una nuova subalternità alle grandi compagnie e il martello dell’impossibilità di trasformarsi in operatori globali, i paesi produttori causarono l’improvvisa fortuna di un certo numero di società che fino ad allora si erano limitate a svolgere un ruolo marginale, intermediando piccole partite di greggio o di prodotti petroliferi. Sono gli unici operatori presenti sulla scena al di fuori delle compagnie petrolifere e, se pure su piccola scala, offrono il tipo di servizi di cui i paesi produttori hanno bisogno. In breve tempo la figura del trader diventa centrale nel mercato petrolifero. Si tratta spesso di soggetti che il petrolio non lo vedono mai, si limitano ad acquistarlo da una paese produttore o da un altro intermediario mentre sta ancora viaggiando a bordo di una petroliera, per rivenderlo a un raffinatore o a un altro intermediario, cosicché prima di arrivare a destinazione le partite di greggio passano di mano in mano un numero imprecisato di volte[5].

Il prezzo muta così da un momento all’altro e ribassi e rialzi si susseguono a ogni stormir di fronda. Basta, per esempio, che una superpetroliera si debba fermare per una qualsiasi ragione ed ecco che il prezzo sale o che un paese esportatore, per una qualsiasi causa interna, sia costretto a aumentare l’offerta e il prezzo scende immediatamente. Le oscillazioni si susseguono di giorno in giorno e in alcuni casi di ora in ora. Per limitare i rischi derivanti da una così accentuata volatilità, come era già accaduto nel mercato dei cambi e azionari,[6] vengono introdotti anche nel mercato petrolifero i cosiddetti derivati a loro volta preludio dell’ingresso di altri e più sofisticati strumenti finanziari: i futures e della quasi totale separazione del processo di formazione del prezzo del petrolio dagli andamenti reali del rapporto fra produzione e consumo. Infatti, a partire dalla metà degli anni ’80, a seguito della cosiddetta liberalizzazione, prima dei mercati finanziari e poi di quelli delle materie prime fortemente voluta e di fatto imposta dagli Usa, il rapporto fra domanda e offerta di greggio diventa soltanto una, e neppure la più importante, delle variabili da cui scaturisce il prezzo: muta il processo di formazione del prezzo e anche i luoghi in cui esso si svolge.

I Futures

Come abbiamo visto i derivati nascono come strumenti per ridurre i rischi conseguenti alla eccessiva volatilità dei prezzi. Il derivato più utilizzato nel settore petrolifero è il cosiddetto forward. Con questo tipo di contratto il produttore si impegna a vendere un determinato quantitativo di greggio a un determinato prezzo e a una scadenza stabilita. In tal modo sia il venditore che il compratore hanno la certezza del prezzo indipendentemente dalle sue oscillazioni nel periodo che va dalla data della stipula del contratto a quello della scadenza. Con la liberalizzazione però è ora possibile stipulare questo tipo di contratto, oltre che direttamente fra le due parti interessate, anche fra operatori che non hanno alcun interesse per la compravendita di petrolio; in questo caso i contratti prendono il nome di futures e vengono trattati al New York Mercantile Exchange (NYMEX) di New York e all’International Petroleum Exchange (IPE) di Londra, entrambi nati a metà degli anni ’80. All’IPE, a differenza del Nymex, dove si trattano oltre al petrolio anche i metalli e tutte le materie prime, sono trattati invece soltanto prodotti energetici.

Mentre, nei contratti forward stipulati direttamente fra venditore e compratore l’operazione si conclude con la consegna alla scadenza stabilita di quella determinata quantità di greggio contro il corrispettivo in denaro, normalmente in dollari; in questi due mercati i titolari del contratto possono rivenderlo quando vogliono perché esso è svincolato dalla effettiva transazione della merce e viene chiuso non con la consegna del greggio, ma con il pagamento dei differenziali di prezzo fra quello fissato all’atto della stipula e quello della scadenza; ovviamente più le scadenze sono differite nel tempo e più uno stesso titolo potrà essere oggetto di un numero maggiore di transazioni. “ Si è così sviluppato un mercato a se stante, con soggetti che nulla hanno a che fare con i paesi produttori e con il mondo dell’industria petrolifera. Costoro a differenza dei trader che intermediano fra i primi e il secondo barile <<reali>>, si scambiano barili <<di carta>>, però con un numero di transazioni superiori, e talvolta di molto, a quelle di compra-vendita effettiva di greggio, dando vita a un sistema “artificiale” di prezzi, che sono poi utilizzati come riferimento dal mondo reale del mercato petrolifero[7]

Trattandosi di barili di carta e non di greggio reale, anche i prezzi di riferimento possono prescindere dai flussi reali di petrolio prodotto e venduto così mentre nel sistema posted price i prezzi facevano riferimento all’Arabian Light oltre che per la sua qualità anche per la notevole quantità prodotta (nel 2005, 6,8 milioni di barili al giorno, l’8% della produzione mondiale); il prezzo del Nymex è riferito invece al greggio WTI (West Texas Intermediate), un petrolio molto pregiato ma la cui produzione non supera i 400 mila bbl/g (barili al giorno), poco più dello 0,5% dell’offerta mondiale e quello Ipe fa riferimento al Brent anzi al Brent Blend, costituito da una miscela di greggi provenienti da 15 diversi pozzi nel Mar del Nord anche essi di buona qualità, ma di cui se ne estraggono in media solo 700 mila bbl/g, pari a poco meno l’1% della produzione mondiale. Data la scarsa quantità prodotta, il prezzo di questi due greggi, se il processo di formazione del prezzo fosse veramente il frutto del rapporto fra domanda e offerta reale di petrolio, dovrebbe essere del tutto ininfluente sul prezzo a cui è poi venduto e comprato il petrolio; ma in realtà dato l’elevato numero di scambi e l’enorme massa di capitali che vi ruotano attorno, alla fine sono proprio i prezzi Nymex e Ipe che operano come price marker (prezzo di riferimento) anche per il mercato dei barili reali. In tal modo il “ruolo maggiore nella determinazione del prezzo del greggio lo detengono le strutture finanziarie internazionali, che si muovono da un lato sulla base di previsioni che discendono dai fondamentali del petrolio (il reale rapporto produzione/consumo ndr), cioè dello stato del mercato petrolifero, dall’altro lato secondo una logica speculativa, che si basa però su previsioni relative ai più svariati parametri che possono influenzare l’andamento del mercato”.[8]

La speculazione finanziaria, gli Usa e il mercato petrolifero mondiale

La domanda di petrolio è dunque la risultante non solo delle effettive quantità consumate, ma di tutta una serie di variabili molte delle quali di natura extraeconomica, nel senso che non attengono ai reali processi produttivi e di consumo del petrolio stesso, ma ad altri fattori. Infatti, pur incidendo in modo preponderante sui prezzi che si formano quotidianamente sul mercato petrolifero internazionale, la speculazione, operando in vista di un guadagno immediato derivante dalle oscillazioni dei prezzi dei titoli trattati, prende in considerazione soprattutto quei fattori contingenti, che possono influire sull’andamento, in un senso o nell’altro, delle oscillazioni, quali la stabilità politica dei paesi produttori, guerre, calamità naturali, notizie di altri ritrovamenti, incidenti nel sistema dei trasporti e così via. Fatta una previsione però, affinché essa si avveri è necessario che la massa dei capitali investiti su una delle due possibili opzioni (rialzista o ribassista) sia maggiore di quella investita sull’opzione di segno opposto. Alla fine risulta cioè vincente e determinante chi muove la massa di capitale finanziario più grande. A fare il mercato sono dunque i grandi fondi di investimento internazionali, i fondi pensione, le grandi banche cioè tutte quelle istituzioni in grado di muovere masse enormi di capitale finanziario da e per ogni angolo del pianeta e perciò capaci anche di creare le condizioni perché una determinata previsione si avveri. Inoltre, non ci vuole molto, per esempio, per assoldare qualche banda di mercenari e scatenare guerre in aree particolarmente sensibili oppure corrompere i membri del governo di qualche paese produttore affinché adottino un provvedimento a favore dell’incremento della produzione o della sua contrazione. E chi più, per storia ed esperienza, delle compagnie petrolifere possiede queste capacità? Ecco, dunque, che, grazie alla finanziarizzazione del mercato petrolifero, le grandi compagnie petrolifere hanno ripreso meglio e più di prima il controllo del mercato potendo anche contare su un alleato molto potente e a sua volta fortemente interessato al mantenimento di un sistema di prezzi artificiali: gli Usa.

Le transazioni petrolifere, come è noto, sono da lunga data, e per ragioni che Prometeo ha più volte esaminato, per la gran parte denominate in dollari; lo sono, per esempio, tutte quelle relative al petrolio venduto dai paesi Opec (Organization of Petroleum Exporting Countries) di cui fanno parte 11 paesi fra cui tutti i paesi mediorientali e il Venezuela e che tutti insieme possiedono il 78% delle riserve petrolifere mondiali accertate, il 50% di quelle di gas naturale e forniscono il 12% della produzione mondiale di petrolio e il 17% di gas naturale[9] . Chi vuole comprare petrolio dai paesi Opec, ma non solo da loro, può farlo solo in cambio di dollari che si può procurare o vendendo proprie merci sul mercato Usa e/o internazionale o prendendoli in prestito da banche internazionali oppure, come di regola accade, dal sistema di finanziamento costituito dl Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale; in questo caso deve metter in conto anche il pagamento degli interessi anche essi calcolati in dollari. Quando, invece, sono gli Usa che devono comprare petrolio, il sistema di pagamento muta notevolmente. Supponendo un prezzo del petrolio di 55 dollari al barile, essi pagano in contanti, cioè con dollari, solo 55 centesimi mentre per i restanti 54,45 dollari danno in cambio, in quanto comunque denominati in dollari e perciò accettati, buoni del tesoro americano. Sul mercato valutario internazionale si crea pertanto una domanda di dollari e di titoli del debito pubblico che consente agli Stati Uniti di ottenere merci semplicemente stampando dollari. Nella misura in cui questa produzione di dollari non trova riscontro in una corrispondente produzione ed esportazione di merci prodotte negli Usa, cresce sia il deficit della loro bilancia commerciale sia, e soprattutto, il loro debito pubblico e privato. Ma poichè è sicuramente più conveniente stampare pezzi di carta di colore verde che produrre merci, risulta del tutto evidente che quando si parla del debito pubblico e privato e del deficit della bilancia commerciale statunitensi non si parla di un’anomalia, di un fatto straordinario, ma di un dato strutturale dell’economia della maggiore potenza imperialistica del mondo; infatti più petrolio viene venduto e comprato e più è alto il suo prezzo, tanto maggiore sarà  la domanda di dollari e di titoli del debito pubblico Usa e tanto maggiore sarà la quantità di merci  che potranno essere importate al costo di stampa dei dollari e dei buoni del tesoro dati in cambio. Ne deriva, dunque un interesse obiettivo degli Usa a far sì che il prezzo del petrolio tenda a risultare più elevato di quello che si formerebbe sul mercato “fisico” in un ipotetico regime di libera concorrenza. Ciò ovviamente non esclude che, in funzione della massimizzazione della rendita in relazione alla dimensione del debito e della congiuntura economica, in taluni periodi anche spinte ribassiste possano risultare vantaggiose. Il dato strutturale resta comunque che l’economia Usa è da tempo divenuta un’economia parassitaria perché basata sul debito finanziato dall’estero e, dunque, in preda alla necessità di alimentare una domanda costante di dollari dall’estero e che circolino all’estero. Se, infatti, i creditori esteri di quegli 8,7 trilioni di dollari[10] riversassero i titoli e i dollari in loro possesso sul mercato americano per acquistare beni e servizi statunitensi, gli Usa rimarrebbero sommersi da una valanga di carta in filigrana con su stampata l’effige di Washington e dovrebbero dichiarare fallimento. Questi dollari devono dunque continuare a circolare e possibilmente moltiplicarsi, ma ciò presuppone che il prezzo del petrolio continui a essere denominato nella valuta americana e tutto il processo della sua formazione rigidamente controllato da Washington e a questo scopo subordinato. Deve rimanere, quindi, un prezzo determinabile in funzione della massa monetaria denominata in dollari che circola sul mercato mondiale e a prescindere dai fondamentali del mercato petrolifero stesso, un prezzo virtuale che però pesa come un macigno sull’economia e sul proletariato mondiale che è poi colui che in ultima istanza paga il conto. Ma da qualche tempo si aggira per il mondo lo spettro di una tendenza centrifuga che ha trovato la sua prima incarnazione nella nascita dell’euro e poi in una serie di accordi bilaterali fra paesi produttori e consumatori che non prevedono la mediazione del dollaro, ma quella dell’euro o lo scambio diretto petrolio contro merci.

Finora, ad aver imboccato questa strada è stata una frazione piuttosto ridotta del mercato petrolifero mondiale anche perché quei paesi come l’Iraq che hanno tentato di farlo sono stati rasi al suolo e quelli, sempre più numerosi, che manifestano l’intenzione di farlo vivono costantemente sotto la minaccia di subire la stessa sorte. Ma la strada è stata aperta ed è difficile prevedere dove condurrà e chi prevarrà, certamente non la pace generalizzata e il benessere diffuso sull’intero pianeta.

Giorgio Paolucci

Giugno 2006


[1] Un mondo in riserva - G.B. Zorzoli – G. Ragozzino - pag. 17 - F. Muzzio editorefebb. 2006

[2] ib.

[3] ib. pag. 40-41

[4] L’era del petrolio – L. Maugeri – pag. 130- Feltrinelli Editore- ott. 2006

[5] Zorzoli e Ragozzino – op. cit. pag 110

[6] Al riguardo vedi  Il dominio della finanza-   www.istitutoonoratodamen.it

[7] ibid. pag. 117

[8] op. cit. pag. 120

[9] dati relativi al 2005 – Fonte Opec – http// it.wikipedia.org

[10] Fonte: http://www.informationclearinghouse.info/article15440.htm.  Nel sistema Usa 1 trilione equivale a 1000 bilioni e 1 bilione equivale a 1 miliardo, ovviamente, in questo caso, di dollari