Lo spettro del debito pubblico si aggira per il mondo e fra dollaro ed euro è la resa dei conti

Creato: 18 Febbraio 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 3431

L’Ue si trova di fronte a un bivio: o riesce a tappare le falle del suo fragile sistema monetario o rischia di essere travolta dalla valanga di dollari che la Fed ha stampato e continua a stampare per salvare il sistema bancario americano e Wall Street.

Per mesi ci hanno raccontato che il differenziale (spread) fra i tassi dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi cresceva perché il governo Berlusconi non adottava, come chiesto dalla Ue e dalla Bce, le necessarie misure di contenimento della spesa pubblica. Ma, dopo il varo di ben due manovre, entrambe sotto dettatura della Bce, lo spread continuava a crescere. C’è stato detto, allora, che la causa era da ricercarsi nella scarsa credibilità personale di Berlusconi per cui, secondo i calcoli di alcuni economisti e in particolare di Nuriel Rubini, famoso per aver previsto con largo anticipo la crisi dei subprime del 2008, sarebbero bastate le sue dimissioni per far scendere lo spread di almeno 200 punti.

Ma, nonostante la nascita del governo tecnico guidato da Monti, economista di chiara fama, nonché ex commissario europeo alla concorrenza, preside della Bocconi, senatore a vita con qualche trascorso nella famigerata Goldman Sachs, lo spread non si è mosso più di tanto. S’è detto allora che bisognava concedere al nuovo governo il tempo per varare una nuova manovra e l’ennesima riforma del sistema pensionistico. Detto fatto. Nel giro di una settimana è stata allungata l’età pensionabile, eliminata l’indicizzazione delle pensioni al costo della vita, reintrodotta l’Ici sulla prima casa, innalzata la quota Irpef destinata alle regioni, aumentate le accise sui carburanti e imposto ogni possibile sorta di gabella e, per equità, anche qualche piccolo balzello sui grandi patrimoni. Una batosta da oltre 40 miliardi di euro che, a partire dal 2012, sommandosi alle altre varate dal precedente governo, alleggerirà le tasche di lavoratori e pensionati, di circa 2000 euro l’anno; ma il famigerato spread ha subito soltanto qualche lieve oscillazione al ribasso.

A questo punto, poiché è risultato evidente che le cause della crisi non erano riconducibili esclusivamente all’eccessivo debito pubblico italiano, è stata tirata in ballo la Bce per la sua politica monetaria troppo restrittiva.

Così la Bce prima ha ridotto per ben due volte il tasso di sconto e poi, non potendo per statuto sottoscrivere direttamente i titoli emessi dagli stati aderenti all’eurozona, è stata autorizzata a concedere alle banche, accettando in garanzia ogni sorta di titolo in loro possesso (del debito pubblico, obbligazioni, cdo ecc), prestiti illimitati, con scadenza triennale, al tasso dell’1% annuo da assegnare in più tranche. Si sperava che le banche avrebbero impiegato una parte di questi capitali, considerato il rendimento attorno al 6%, per sottoscrivere titoli del debito pubblico e una parte per finanziare le imprese, soprattutto piccole e medie, in cronica crisi di liquidità. Ma le banche, pur non disdegnando il regalo ottenuto (poco meno di 500 miliardi di euro), hanno sottoscritto solo titoli pubblici con scadenze a breve termine e depositato la maggior parte dei capitali ottenuti presso la stessa Bce al tasso dello 0,25%.

Di conseguenza i tassi sui titoli a breve (da tre mesi a tre anni) sono scesi sensibilmente mentre quelli sui titoli decennali continuano a mantenersi su livelli di guardia.  Alle imprese, invece, non è andato neppure il becco di quattrino.

In altre parole le banche, piuttosto che investire nei settori produttivi e/o in titoli a lunga scadenza, hanno preferito tesaurizzare i capitali ottenuti in attesa del concretizzarsi di aspettative di profitto più favorevoli.

L’aspettativa ultima di chi investe nella produzione di merci non è la produzione di merci in sé, ma l’accrescimento del capitale iniziale D in D’. Ovvero, secondo la formula generale del capitale di Marx D-M-D’, la fase D-M, per il capitalista, ha ragione d’essere soltanto se in essa è possibile realizzare, mediante lo sfruttamento della forza-lavoro, una quantità di plusvalore tale che alla fine dell’intero ciclo, il capitale investito D possa tornare alla forma iniziale di capitale monetario accresciuto in D’.

Se non vi sono fondate aspettative che questo accrescimento possa effettivamente aver luogo, il capitale tende a rimanere in forma liquida e poiché, da almeno 40 anni, le aspettative di un’adeguata remunerazione del capitale investito nei settori produttivi è andata via via scemando, la tendenza dei capitali a mantenersi liquidi si è di pari passo accentuata. A maggiore ragione in questo ultimo periodo in cui è attesa una nuova e pesante ondata recessiva e dietro l’angolo si profila l’occasione di realizzare buoni profitti pur salvaguardando la liquidità dei capitali.

Secondo una stima del Fmi, nel 2012, andranno in scadenza titoli del debito pubblico dei vari paesi per circa undicimila miliardi di dollari. Di questi 3.000 fanno capo al Giappone, 4.700 agli Usa e 1.400 ai paesi dell’eurozona. E’ facile prevedere che con una domanda di credito di queste dimensioni, e così concentrata nel tempo, i rendimenti delle nuove emissioni saranno sicuramente superiori a quelli dei titoli in scadenza.

La fragilità dell’euro

E’ interessante rilevare che il debito dei paesi dell’eurozona, nel suo insieme, è una briciola rispetto a quello di Giappone e Stati Uniti, eppure sono i titoli di quasi tutti questi paesi a essere nel mirino della speculazione.

Il fatto è che, mentre le banche centrali giapponese e americana possono stampare moneta e sottoscrivere direttamente i loro titoli di Stato, possono operare come prestatore di ultima istanza, alla Bce questo è vietato.  Essa può prestare soldi alle banche ma non agli stati membri, né può sottoscrivere i titoli del loro debito, per cui questi devono necessariamente collocare i loro titoli sul mercato pagando i tassi correnti al momento dell’emissione.

Questo meccanismo fu concepito al momento della costituzione dell’eurozona per rispondere alla regola secondo cui, nonostante una moneta comune, ogni singolo Stato sarebbe stato responsabile del proprio debito.

Una moneta comune fra più Stati, senza la loro unificazione politica, è stato sicuramente un unicum nella storia del capitalismo moderno; un unicum che si spiega soltanto con le profonde modificazioni delle forme del dominio imperialistico verificatesi a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso.

Infatti, a spingere verso l’euro è stata la necessità di porre un argine al cosiddetto signoraggio del dollaro divenuto, dopo la denuncia da parte degli Usa degli accordi di Bretton Woods, talmente oneroso da configurarsi come una vera e propria tangente imposta all’attività economica mondiale.[1]

E questo spiega anche perché l’euro, nonostante le sue non poche fragilità dovute alla mancanza di unità politica, ha finora svolto con efficacia la sua funzione.

Oggi però, con l’acuirsi della crisi, l’intera Ue si trova di fronte a un bivio: o riesce a tappare le falle del suo fragile sistema monetario o rischia di essere travolta dalla valanga di dollari che la Fed ha stampato e continua a stampare per salvare il sistema bancario americano e Wall Street che – è bene ricordarlo - genera il 40 per cento del Pil degli Usa.

La guerra del debito

Solo durante la crisi del 2008, la Federal Reserve ha stampato oltre 11 mila miliardi di dollari. Per evitare l’insorgenza di incontrollabili processi inflattivi, sarebbe stato necessario che all’immissione di una così consistente massa di liquidità facesse riscontro una altrettanto imponente ripresa dell’economia reale. Infatti l’immissione di liquidità in deficit non è altro che un’anticipazione di una produzione futura di ricchezza reale, per cui, se questa non ha luogo, tutta la massa monetaria, non solo quella in eccesso, si svaluta. E questo è accaduto in misura rilevante. Si è confermato così che la crisi non ha il suo epicentro nel gigantismo della sfera finanziaria, ma nel permanere nel settore della produzione delle merci – cioè del plusvalore- di saggi medi di profitto tendenzialmente bassi, per cui i capitali tendono a mantenersi in forma liquida e/o a prediligere le attività speculative.[2]

Di conseguenza la manovra della Fed, come peraltro quelle di tutte le banche centrali che l’hanno imitata, si è risolta in una semplice partita di giro che è servita a trasformare il debito privato delle banche in debito pubblico e a rifornire queste ultime delle munizioni con cui hanno potuto speculare anche sul differenziale fra i bassissimi tassi praticati loro dallo Stato e quelli più alti pagati dallo Stato stesso sui titoli del debito pubblico emessi per il loro salvataggio, attivando così quel perverso meccanismo di autoalimentazione del debito che ha condotto all’attuale crisi.

Per il mondo si aggira una valanga di debiti, denominata prevalentemente in dollari, che qualcuno dovrà pur pagare. E poiché il dollaro rimane tuttora il mezzo dei pagamenti internazionali più diffuso, sono i paesi più indebitati, con una bilancia commerciale in forte deficit e, perciò, più dipendenti dai mercati internazionali, quelli condannati ad assorbire in misura maggiore la liquidità americana in eccesso.

La clausola statutaria che impedisce alla Bce e alle banche centrali dei paesi dell’eurozona di sottoscrivere direttamente i titoli del loro debito pubblico imponendo il ricorso ai mercati internazionali, rischia, quindi, di trasformarsi nel cavallo di Troia attraverso cui gli Usa possono accollare i costi per il finanziamento del loro gigantesco debito anche ai paesi europei e dell’intera eurozona, nel caso mettessero in comune i loro debiti.

L’opposizione tedesca agli euro bond

In considerazione di ciò, da qualche tempo, si fanno sempre più insistenti le critiche alla Germania per il rifiuto che il governo Merkel oppone alla modifica dello statuto della Bce, e al nascente Esm[3] di emettere eurobond garantiti dalla stessa Bce.

Infatti, così facendo- è la tesi dei critici - i tassi sui bund tedeschi subirebbero sì un rialzo di un paio di punti percentuali (ora quelli sui titoli a breve sono negativi e su quelli decennali superano di poco l’un per cento) ma riducendo l’esposizione di quelli dei paesi più indebitati l’intera eurozona sarebbe al riparo dagli attacchi della speculazione internazionale.

Un risultato di non poco conto anche per la Germania che è il paese che finora ha tratto i maggiori vantaggi dalla moneta comune.

Se è vero che, grazie alla maggiore competitività del suo apparato industriale, essa è, insieme alla Cina, il paese che può vantare una bilancia commerciale con gli attivi più consistenti, è anche vero che ben il 60 per cento delle sue esportazioni sono dirette verso i paesi della Ue e dunque che senza i deficit commerciali dei suoi partner non avrebbe potuto realizzare quegli attivi che costituiscono poi il suo punto di maggior forza.

Essa ha tratto notevoli benefici perfino dalla crisi dei debiti sovrani dei suoi partner. Si calcola che negli ultimi due anni, a causa dello spostamento di capitali dal debito pubblico dei paesi più indebitati verso i bund tedeschi e il conseguente calo dei loro rendimenti, la Germania ha risparmiato qualcosa come 45 miliardi di euro.

Per queste ragioni, soprattutto per gli economisti di scuola neokeynesiana, il persistente rifiuto del governo Merkel di adottare questi provvedimenti è infondato e appare dettato da una certa ottusità, dall’assoluta mancanza di lungimiranza, quando non del tutto da meschini interessi elettorali della Cdu, il partito di maggioranza.

C’è sicuramente un fondo di verità in queste critiche ma l’idea che a ispirare l’attuale politica economica di una delle maggiori potenze economiche del mondo sia solo la “retrograda stupidità”, come ha recentemente scritto l’economista J. Halevi,[4] dei suoi governanti ci sembra alquanto riduttiva. Intanto in questa critica vi è implicita la negazione del carattere strutturale della crisi e l’idea fallace che essa possa essere risolta muovendo la leva monetaria a sostegno della domanda aggregata. In secondo luogo, che la crisi è mondiale e di conseguenza che è destinata inevitabilmente ad acuire lo scontro interimperialistico. Infine, che la nascita dell‘euro ha attenuato ma non ha cancellato le differenze e le divergenze d’interessi fra gli Stati che formano l’eurozona.

I timori della Germania

E’ la profondità e la vastità della crisi mondiale che spaventa e, nello stesso tempo, induce la Germania a esercitare il massimo della sua forza per conformare l’intera eurozona a propria immagine e somiglianza.

Quello che accadde dopo che la Fed, a seguito dell’erompere della crisi nei primi anni ’70 del secolo scorso, ebbe inondato il mondo di dollari, dà solo una pallida idea di quel che potrebbe accadere ora che la liquidità in circolazione supera di ben 13 volte il Pil mondiale.

In poco tempo il prezzo del petrolio e di tutte le materie prime quotate in dollari si quintuplicò; in Europa l’inflazione raggiunse mediamente il 20 per cento (In Italia toccò, su base annua, punte del 30 per cento) e in America Latina superò il mille per cento.

Un monito, questo, non solo per la Germania, peraltro fortemente segnata dal ricordo dell’inflazione che investì nel 1923 la Repubblica di Weimar[5], ma anche per Cina e Giappone che, recentemente, hanno deciso di regolare il loro interscambio commerciale utilizzando una moneta di conto comune e non più il dollaro; nonché per quasi tutte le maggiori potenze economiche del mondo se è vero - come scrive M. D’Eramo su il Manifesto del 10 febbraio u.s. che: ”…Da quanto trapelato sulla stampa internazionale nell’ultimo mese si sono intensificate riunione riservate tenute dai ministri delle finanze e dai governatori delle banche centrali di Russia, Cina, Giappone, Brasile e i paesi del Golfo, per sostituire il dollaro come moneta di riferimento con un paniere di valute che dovrebbero includere lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, l’oro e una nuova valuta unificata dei paesi del Golfo, comprendente Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e Abu Dhabi, per cui- quando la transizione sarà ultimata, nel 2018 secondo i piani- il petrolio non sarà più quotato in dollari.[6]

Insomma, per il dollaro vale oggi lo stesso avvertimento per i fili dell’alta tensione: “Chi tocca muore”.

E il modo migliore per starne alla larga è avere, forse prima ancora del pareggio di bilancio, la bilancia commerciale in attivo come la Germania.

E, a ben guardare, a questo mirano i tagli drastici alla spesa pubblica, lo smantellamento di quel che resta del Welfare e dei sistemi pensionistici, nonché la completa precarizzazione del mercato del lavoro che la Germania esige per poter entrare nel novero dei paesi degni di essere aiutati: la riduzione della domanda interna e la svalutazione del valore della forza-lavoro come combinato disposto per ridurre le importazioni e incrementare le esportazioni da e verso le aree extraeuropee, in particolare verso i paesi cosiddetti emergenti ritenuti i più probabili mercati di sbocco degli eventuali surplus europei. In questo senso la Grecia costituisce una sorta di laboratorio a cielo aperto.

A queste condizioni e solo dopo una profonda modifica della governance dell’eurozona e che assegni più potere a Bruxelles e alla Bce si potrà parlare di eurobond e di una parziale messa in comune del debito.

E’ un’operazione che sconta necessariamente il rischio che alcuni fra i paesi più deboli si perdano per strada e perfino- cosa che al momento appare alquanto improbabile e che comunque comporterebbe una catastrofe economico-finanziaria di proporzioni immani- che l’eurozona si disgreghi. D’altra parte è impensabile che un’operazione di questa portata non susciti e/o non acuisca conflitti interni alla stessa eurozona e all’interno dei singoli stati fra le diverse frazioni della stessa borghesia. Rischiano di saltare in aria o un forte ridimensionamento di tutti quei settori produttivi le cui merci sono destinate soprattutto al mercato interno. Ma evidentemente, per la Germania ma anche per quei suoi partner che hanno deciso, volenti o nolenti, di percorrere questa strada, questo è il male minore rispetto a un contatto troppo ravvicinato con il dollaro.

In realtà, è in corso una sorta di guerra su più fronti i cui esiti sono al momento tutt’altro che scontati. Quel che è certo, invece, è che il cosiddetto modello fordista, basato su alti salari in cambio di pace sociale, è giunto al definitivo tramonto a favore di quello cinese: 72 ore settimanali e, quando va bene, duecento euro al mese.

Giorgio Paolucci

[1] Sulla nascita dell’euro e la ragioni che la determinarono, vedi l’articolo L’euro della discordia - www.istitutoonoratodamen.it/joomla/sullacrisi.

[2] Sulle cause da cui origina la caduta tendenziale del saggio medio del profitto rinviamo al breve saggio “La legge della caduta tendenziale del s.m.p- www.istitutoonoratodamen.it/joomla/sullacrisi.

[3] L’Esm ( European Stability Mechanism) è l’organismo permanente destinato a sostenere i paesi dell’eurozona in crisi e a sostituire, a partire dal prossimo mese di luglio, l’Efsf (european financial stability facility), il cosiddetto Fondo Salva Stati, costituito in via temporanea per far fronte alla crisi del debito pubblico solo della Grecia e del Portogallo.

[4] Vedi l’articolo Atene non può pagare apparso su il Manifesto del 7/2/2021.

[5]Nel 1923 in Germania a un certo punto quale un fiume in piena ruppe tutti gli argini e così mentre nel mese di gennaio 1 kg di pane si poteva acquistare con 250 marchi, a dicembre ne occorrevano 399 miliardi.

[6] Marco D’Eramo – Monti da Obama, due debolezze il Manifesto del 10/02/2012.