La crisi non è finita

Creato: 19 Dicembre 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2772

Dalla  rivista  D-M-D' n °1

Come al capezzale del moribondo, qualcuno, fra gli amici e i parenti, a ogni suo esile respiro esclama: ecco, forse sta meglio, forse ce la fa; così fanno gli economisti e i politici con lo stato di salute dell’economia mondiale. Leggono che il Pil è cresciuto di qualche decimo di punto e affermano: la ripresa è lenta, ma il peggio è ormai alle spalle. Altri, come l’ineffabile nostro presidente del consiglio, si spingono ancora più in là e, relegando la crisi nella soffitta della memoria, invitano addirittura all’ottimismo e al buon umore.

Ma davvero questa crisi, ritenuta per ampiezza e profondità pari solo a quella del 1929, è stata superata e, tutto sommato, così a buon mercato? Se così fosse bisognerebbe ammettere che le politiche economiche dispiegate dagli Stati per fronteggiarla sono state di straordinaria efficacia. Infatti, al suo esplodere, sia il consesso degli economisti sia il mondo politico internazionale convennero sulla necessità che gli Stati immettessero liquidità nei mercati finanziari per impedire il fallimento delle banche, ormai too big to fall (troppo grandi per fallire) come unica via di uscita da una crisi che si annunciava di dimensioni epocali.  Furono varati anche incentivi a favore delle imprese industriali e in particolare del settore automobilistico e negli Usa anche piani di salvataggio con l’intervento diretto dello Stato di imprese quali Ford, Chrysler e Generala Motor.

Si parlò molto anche di un nuovo modello di accumulazione basato sullo sviluppo della produzione di energie da fonti rinnovabili, la green economy e di nuove regole per limitare l’emissione incontrollata, dei derivati finanziari, cioè di quei titoli, cosiddetti tossici quali i subprime, la cui iperproduzione era, ed è tuttora, comunemente ritenuta -a nostro avviso erroneamente- la causa prima della crisi.

Quindi, dovendo obbedire all’imperativo categorico di evitare il crollo dell’intero sistema, le banche centrali, a cominciare dalla Federal Reserve, si sono svenate nell’acquisto, a prezzi molto più alti del loro reale valore, dei titoli tossici che inquinavano i bilanci di quasi tutti i maggiori istituti di credito internazionali. I risultati non si sono fatti attendere.

Già nell’estate del 2009 le banche più importanti facevano registrare bilanci in attivo ed alcune anche in misura consistente. Lo stesso è accaduto per le borse che, a cominciare da Wall Street, nell’ultimo anno hanno fatto registrare incrementi dei loro indici a due cifre: un autentico boom.

A questo punto le attese erano che le banche, una volta risanati i loro bilanci, destinassero il denaro ricevuto, praticamente a titolo gratuito, dallo Stato, al finanziamento della cosiddetta economia reale e in particolare del sistema della piccola e media impresa che, peraltro, è quella che, in rapporto al capitale investito, normalmente impiega più manodopera.

Ma sia le banche sia le imprese industriali hanno fatto altro.

La speculazione sui tassi d’interesse

Prevedendo che, prima o poi, le banche centrali, dovendo riassorbire il surplus di liquidità immessa nel sistema, avrebbero dovuto rialzare i tassi di sconto, e data la perdurante scarsa redditività degli investimenti nel settore industriale, gli istituti di credito non appena hanno risanato i loro bilanci hanno ripreso a investire nel più redditizio mercato dei derivati finanziariswap, che consentono di speculare sull’andamento dei tassi di interessi, al rialzo o al ribasso a seconda che si preveda un loro aumento o una loro riduzione. In altri termini, l’incremento del debito pubblico, provocato dal loro salvataggio, è divenuto una straordinaria opportunità per lucrare enormi profitti di origine speculativa. e in particolare in opzioni di tipo

I primi a essere presi di mira sono stati i paesi dell’eurozona. Essendo il loro rapporto deficit/Pil schizzato ben oltre il tetto del 3% fissato dal trattato di Maastricht e dovendo rientrarvi entro e non oltre il 2013, dato anche il divieto dei singoli paesi membri di finanziarsi stampando euro, essi dovranno necessariamente, per finanziare il debito pregresso in scadenza, emettere nuove obbligazioni, la qualcosa provocherà inevitabilmente incremento dei tassi.

Per le banche, si profila quindi la possibilità di lucrare sia sulle opzioni swaps sottoscritte in previsione del rialzo dei tassi d’interesse sia sottoscrivendo le nuove obbligazioni emesse a tassi di interesse più elevati dei tassi di sconto attualmente praticati loro dalle banche centrali.

Sembra un paradosso, ma le cose stanno proprio così: le banche hanno ripreso a fare profitti lucrando sull’incremento del debito pubblico da esse stesse provocato.

Il primo bilancio della manovra di salvataggio del sistema bancario non lascia adito a dubbi: si è trattato del trasferimento della crisi dalla finanza privata a quella pubblica, ovvero del trasferimento di una quota consistente del debito privato a carico della collettività.

La Grecia: un caso emblematico

Il paese ellenico, tra obbligazioni in scadenza e interessi sul debito, dovrà reperire quest’anno 55 miliardi di euro, di cui la metà entro il mese di aprile. In assoluto, non sono molti ma poiché corrispondono pur sempre al 20 per cento del pil greco, non occorre una grande immaginazione per prevedere che le nuove obbligazioni, che Atene dovrà riversare sui mercati per rifinanziare quelle in scadenza, verranno sottoscritte dalle banche solo se i tassi di interesse offerti saranno molto più alti di quelli attuali. C’è quindi il rischio che la Grecia venga a trovarsi, nel volgere di poco tempo, nella stessa situazione in cui si è trovata l’Argentina qualche anno fa. Infatti, poiché il punto di equilibrio tra debito e reddito nazionale, nel medio-lungo periodo, dipende dal rapporto fra il saggio di crescita del saggio di interesse e il saggio di crescita dell’economia (pil), per evitare che il debito si autoalimenti è necessario almeno che il primo non cresca più del secondo. Cosa che, perdurando la crisi, appare alquanto improbabile. Tanto più che i famigerati mercati finanziari (ovvero le banche), nonché il Fmi e la Bce, che ne sono diretta espressione, hanno posto come condizione per finanziare la Grecia, feroci tagli della spesa pubblica ( riduzione di salari e stipendi dei dipendenti pubblici e delle pensioni, blocco dei salari nel settore privato, riduzione della spesa sanitaria e assistenziale ecc. ecc) che implicando una decisa contrazione della domanda interna, provocheranno già quest’anno una contrazione del pil di oltre tre punti percentuali rispetto a quello già in forte calo del 2009.

Anche lo Stato può fallire

Seppure non in modo non così stringente, in questa stessa situazione rischiano di venirsi a trovare presto i paesi di mezzo mondo. Infatti, se Atene, con un debito pubblico pari al 124,5 per cento e un deficit di bilancio dell’11,3 per cento del suo pil, piange, il resto del mondo non ride. La Spagna ha un debito pari al 66,3 per cento e un deficit di bilancio dell’8,5; la Francia dell’82,5 e del 7; l’Italia del 116,7 e del 5,2; il Portogallo dell’84,6 e del 6,7; l’Irlanda dell’82,9 e del 14,7; gli Usa del 93,9 e del 13.[1]

Recentemente Moody’s, una delle tre maggiori agenzie che valutano la solvibilità degli stati e delle grandi società private, ha pubblicato un report secondo cui gli Usa, qualora il loro debito pubblico non dovesse ridursi, potrebbero perdere quella tripla “A” che certifica la loro assoluta affidabilità e che classifica il loro rischio di insolvibilità al più basso livello, determinando automaticamente un ulteriore rialzo dei tassi di interesse e non pochi problemi al sistema del rifinanziamento del debito in scadenza; tanto più che ”già quest’anno spenderanno il 7 per cento delle loro entrate per pagare gli interessi sul debito pubblico. Cifra che salirà all’11 per cento nel 2013 [ma solo -ndr] nel caso che ci sia almeno una ripresa anche moderata dell’economia”.[2] Dunque, il rischio che si determini un pericoloso squilibrio fra crescita dei saggi di interesse e dell’economia è generalizzato e molto elevato.

Ci sono già tutte le avvisaglie perché la nuova bolla speculativa, basata sulla crescita del debito pubblico, esploda con conseguenze ora neppure immaginabili.

A rendere questa prospettiva tutt’altro che improbabile vi è anche il fatto che sul versante più specificatamente industriale, benché, come abbiamo visto, sia stato evitato il fallimento di imprese delle dimensioni di GM, Ford, Chrysler e consentito grazie agli incentivi pubblici, il ritorno agli utili di molte altre, ivi compresa la nostra Fiat, gli esiti del’intervento dello Stato non sono stati quelli attesi, non si è ancora riattivato quel circolo virtuoso in cui crescita dell’occupazione e crescita dell’economia si autoalimentano. Al riguardo i numeri sono impietosi.

La crescita della disoccupazione

Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi allo scorso mese di febbraio, nella Ue, il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’8,5 per cento, il peggiore da sei anni a questa parte. Risulta leggermente più basso in Italia ma solo perché dal calcolo sono esclusi i lavoratori in cassa integrazione. Negli Usa, come ha reso noto il segretario al tesoro, Timothy Geithner, il tasso di disoccupazione, nel mese di marzo, era  pari al 9,7 per cento e, come lo stesso governatore ha dichiarato in un’intervista alla rete Nbc: “Il tasso dei senza lavoro rimarrà alto per un periodo molto lungo a causa della recessione”.[3] Nondimeno, questi dati, benché allarmanti, non descrivono il fenomeno in tutta la sua dimensione: con i sistemi di calcoli ora in uso, per chi perde il lavoro, è più facile vincere una lotteria che essere considerato un disoccupato. Per esempio, negli Usa basta lavorare un solo giorno durante la settimana in cui viene effettuato il rilevamento per essere considerati occupati e perdere il diritto al relativo sussidio.

Inoltre, stando alle ultime rilevazioni, nella sola Ue, non trova lavoro il 20,6 per cento dei giovani compresi nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni; in Italia il 28,2; negli Usa, nella fascia di età fra i 14 e 19 anni, il 26 per cento. Tenuto conto che - sempre negli Usa- includendo nel calcolo anche i disoccupati che non cercano più il lavoro perché scoraggiati e coloro che sono costretti a lavorare part-time, il tasso di disoccupazione è già ora del 16.9 per cento, non ci si scosta molto dal vero supporre che se si tenesse conto anche dell’inoccupazione giovanile, il tasso di disoccupazione effettivo possa essere superiore al 20 per cento. Sia di qua sia al di là dell’oceano.

Ma se si distruggono i vecchi posti di lavoro senza crearne di nuovi è molto improbabile che possa esserci una crescita economica delle dimensioni necessarie a far fronte al rialzo dei saggi di interesse.

Un’allarmante prospettiva

La prospettiva è così allarmante che taluni economisti,[4] di fronte al rischio di un default generalizzato del sistema di finanziamento del debito pubblico, si sono spinti a proporre perfino la chiusura delle borse o dei mercati dei derivati finanziari (gli swaps, per esempio, oltre ad anticipare l’evento - in questo caso, il rialzo dei tassi di interesse- lo amplificano a dismisura); altri ancora, un incremento delle imposte sui redditi medio- alti e/o sui grandi patrimoni insieme a una corrispondente riduzione di quelle su salari, stipendi e pensioni nella speranza che tutto ciò possa favorire una ripresa dei consumi e della crescita economica. Le istituzioni economiche e finanziarie internazionali e le grandi banche, comprese quelle centrali, invece, muovendo dal dogma che la causa del rallentamento dell’economia sia il debito pubblico e non viceversa, sollecitano ovunque, come già per la Grecia, feroci tagli alla spesa pubblica e in particolare a quella per salari, stipendi e pensioni del pubblico impiego.

Ecco cosa si leggeva lo scorso 23 gennaio su The Economist, uno dei loro più importanti portavoce: “Nel mondo delle imprese ridurre gli effettivi del 10% è moneta corrente. Non vi sono ragioni perché i governi non possano fare lo stesso (…) I salari del settore pubblico possono essere abbassati, tenuto conto della sicurezza dell’impiego (…) Le pensioni del settore pubblico sono decisamente troppo generose (…).[5]

Per le banche, una volta fatti salvi i loro bilanci, lo Stato, che fino a qualche mese fa era la soluzione di tutti i problemi, è tornato a essere come diceva Reagan, il problema perché sarebbe troppo generoso nell’elargire privilegi a destra e a manca.

L’economista romantico e quello neo-keynesiano ritengono che questo atteggiamento sia il frutto della protervia e dell’avidità del banchiere e perciò immaginano che si potrebbe rilanciare la crescita con qualche imposta sulle rendite finanziarie e qualche legge che miri a ricondurre la speculazione entro limiti fisiologici.

In realtà, come notava già Marx - ogni capitalista, “condivide l’istinto assoluto per l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio”.[6] E ciò vale anche per le forme moderne della speculazione come le stesse dimensioni e profondità della crisi stanno a dimostrare. Davvero il cataclisma che ha colpito l’intera economia mondiale è stato il frutto dell’agire di qualche sconsiderato? O piuttosto non affonda le sue radici nei meccanismi stessi del processo di accumulazione capitalistica e in particolare in quella che è la più importante delle sue contraddizioni, cioè la tendenza alla diminuzione del saggio medio del profitto nella sfera della produzione delle merci?

Da quando esistono i mercati finanziari è sempre esistita la speculazione come attività ai margini del processo di accumulazione capitalistica; infatti si risolveva in movimenti a favore di un giocatore piuttosto che di un altro, ma complessivamente sempre a somma zero.  Negli ultimi 30-40 anni, però, tutto è cambiato. A causa di una significativa e strutturale riduzione del saggio del profitto nella produzione delle merci nei paesi industrialmente più sviluppati, una massa crescente di capitali si è riversata nella speculazione. Contemporaneamente, grazie anche alle nuove tecnologie basate sulla microelettronica, è stato possibile incrementare vertiginosamente lo sfruttamento della forza-lavoro delocalizzando la produzione delle merci in aree in cui il costo del lavoro era molto basso.

E’, peraltro, un processo tuttora in corso: recentemente, gran parte dell’industria tessile mondiale si sta spostando in Cambogia. Qui, infatti, nonostante da poco, a seguito di numerosi pesanti scioperi, siano stati concessi “sostanziosi” aumenti, il salario medio di un operaio non supera i 40 euro mensili per una giornata lavorativa - non esistendo limiti legali alla sua durata- che può raggiungere anche le di 18 ore. Per non dire della completa assenza di qualsiasi forma di assistenza e di un sistema pensionistico. E’ così conveniente che da qualche tempo vi si stanno trasferendo anche molte imprese cinesi benché ben il 60 per cento delle esportazioni cinesi faccia capo a filiali di multinazionali estere.

Si tratta di un gigantesco movimento di capitali e di merci su scala mondiale con annessi giganteschi trasferimenti di plusvalore da una parte all’altra del mondo. Ed è proprio in questo movimento che la sfera finanziaria e la speculazione hanno trovato il loro più fertile terreno di coltura fino a strutturarsi come attività complementari e necessarie allo svolgimento del processo di accumulazione del capitale ormai completamente mondializzato, intrecciandosi e alimentandosi reciprocamente con la spinta all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro. E poiché è più semplice e veloce produrre capitale fittizio[7] che merci, ecco questo continuo  generarsi di bolle speculative e di crisi sempre più frequenti e più violente. Di bolla in bolla, però, il debito globale è cresciuto a tal punto che ora a rischiare il default è il debito pubblico.

La crisi è finita? Forse, ma solo per chi crede ai miracoli.

Umberto Paolucci

 

[1] Fonte: la Repubblica del 31.01.2010.

[2] F. Piccioni. Moody’s: Il debito pubblico è già una mina vagante – il Manifesto del 17.03.2010.

[3] Disoccupazione, Usa in allarme – M. Galvani - il Manifesto del 2.04.10.

[4] Vedi l’interessante articolo, apparso sul n. 2/2010 di Le Monde Diplomatique, di F. Lordon E se si chiudesse la Borsa…

[5] Citazione tratta dall’articolo di F. Lordon Assoluta urgenza di un contro-shock apparso sul numero di marzo 2010 di Le Monde diplomatique.

[6] K. Marx – il Capitale – Libro I - Cap. 22- par. 3– Ed. Einaudi, 1978- pag. 727.  P.S. In altre traduzioni anziché tesaurizzatore si legge: avaro.

[7]Per ulteriori approfondimenti rinviamo alla lettura del volume La crisi del capitalismo – il crollo di Wall Street –AA. VV. - Ed. Istituto O. Damen – 2009.