Ci vuole la rivoluzione…

Creato: 19 Dicembre 2011 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 2514

Dalla  rivista  D-M-D' n °2

 

Secondo le previsioni elaborate dai governi e dai più importanti centri di studi economici internazionali sia pubblici sia privati, all’indomani dell’esplosione della bolla speculativa dei subprime, l’economia mondiale avrebbe già dovuto far registrare tassi di crescita perfino più consistenti di quelli precedenti la crisi.

Tali previsioni poggiavano sulla convinzione che anche per questa crisi, benché fra le più acute di quest’ultimo dopoguerra, sarebbe valso il vecchio schema secondo il quale quanto più basso è il punto di caduta del Pil durante la crisi, tanto più intensa sarà la crescita quando la tempesta sarà passata. In definitiva, al di là delle dimensioni e della sua acutezza, si dava per scontato ciò che scontato non era e cioè che anche questa crisi sarebbe stata archiviata come una fra le tante che hanno costellato la storia del moderno capitalismo.

 

Non è andata così, tant’è che ora c’è il timore fondato che molti stati rischino il default del loro debito.

 

In ragione di ciò, negli ultimi tempi, sono sempre più numerosi gli analisti economici che, per darne la misura, paragonano questa crisi a quella del 1929. Ma il paragone regge solo fino a un certo punto. Se si procede all’analisi delle sue cause più profonde, essa appare di gran lunga più dirompente lasciando intravvedere scenari e prospettive da brivido: una sorta di medioevo del capitale.

 

E il feroce attacco lanciato contro quelli che sono stati i presidi che hanno assicurato la lunga pace sociale nel periodo che va dalla seconda guerra mondiale fin quasi alla fine del secolo scorso, è forse il segnale più forte della nuova direzione intrapresa dal capitalismo. Per tenere ancora in piedi l’attuale sistema finanziario, si è dato il via allo smantellamento del sistema di protezione sociale, della pubblica istruzione e, soprattutto, del cosiddetto sistema dei diritti dei lavoratori così come erano stato costruiti nel corso degli ultimi centocinquanta anni.

 

I corifei del capitale sostengono che, essendo ormai il capitalista e il lavoratore portatori del medesimo interesse che è la crescita economica, non c’è più la lotta di classe e quindi questi presidi costituiscono solo un ostacolo allo sviluppo del benessere collettivo. Sciogliere dunque i lacci e i lacciuoli che impediscono la libera contrattazione della vendita della forza-lavoro, che limitano per legge la durata della giornata lavorativa o degli straordinari o che impongono il pagamento della giornata lavorativa anche in caso di malattia, è nell’interesse di tutti, lavoratori e datori di lavoro.

 

Sennonché, nella storia del capitalismo la retorica della libertà, degli uomini tutti uguali dinnanzi alla legge, ha sempre celato la sostanza per la quale le eventuali maggiori libertà formali si sono sempre risolte in una maggiore dipendenza economica e in una maggiore subordinazione della forza-lavoro al capitale.

 

E’ come se il sistema capitalistico stesse retrocedendo al periodo che va dal XV al XVI secolo, quando ebbe luogo quella che Marx chiama l’accumulazione originaria del capitale.

 

Allora, in nome della libertà e dell’uguaglianza, si spezzavano i vincoli feudali che legavano i contadini alle terre per poterle destinare al pascolo delle pecore poiché per i landlords la vendita della lana all’industria tessile era molto più remunerativa. I contadini conquistavano la libertà ma perdevano il diritto di coltivare per sé anche quei piccoli appezzamenti che assicuravano loro la sopravvivenza per cui si ritrovavano costretti a offrirsi sempre più numerosi come venditori di forza-lavoro, favorendo così la tendenza dei salari a mantenersi al di sotto del proprio valore.

 

Ma è ipotizzabile nell’epoca dei computer e del consumismo di massa un ritorno sic et simpliciter a un simile passato? Indubitabilmente la spinta c’è; ma la contraddizione è così evidente e dirompente che ormai più di uno vede in essa non tanto una manifestazione transitoria dalla crisi economica, quanto il limite storico del sistema capitalistico. Quindi c’è chi ipotizza la nascita di un sistema basato sulla decrescita economica e chi, spingendosi più in là, giunge ad ammettere che ci vorrebbe, seppure non ben definita nei suoi contenuti, la rivoluzione. Dopo il regista Mario Monicelli, lo ha in qualche modo lasciato intendere Luciano Gallino e, più esplicitamente, l’ex presidente della Consob Guido Rossi.[1]

 

All’intervistatrice che gli chiede se, per uscire dalla crisi, non si debba pensare a una Bretton Woods del XXI secolo, ecco cosa risponde G. Rossi: “Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa?”

 

E già, ci vorrebbe la rivoluzione! Ma per fare la rivoluzione è necessaria un’avanguardia politica che abbia elaborato la tattica, la strategia e soprattutto il programma per e della rivoluzione. E qui purtroppo c’è l’amara constatazione che il se capitalismo piange la rivoluzione non ride.

 

Purtroppo è buio pesto anche per quelle forze - ma meglio sarebbe dire debolezze- che si richiamano alla straordinaria esperienza della sinistra comunista italiana, chiuse ognuna nel proprio orticello a rimirarsi ciascuna il suo ombelico nell’attesa di una rivoluzione che si faccia da sé. Forse già il riconoscimento che la crisi non è solo del capitale ma anche della nostra classe, potrebbe costituire un punto per una nuova partenza.

 

Questi sono i temi a cui abbiamo dedicato il secondo numero di D-M-D’.


 

[1] Interviste a cura di Carla Ravaioli rilasciate a il Manifesto del 24 e del 31/10/210.