La pandemia come metafora della crisi epocale della società capitalista

Creato: 26 Ottobre 2020 Ultima modifica: 23 Novembre 2020
Scritto da Giorgio Paolucci Visite: 1172

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Basta capitalismo! Via libera a un altro mondo, a un’altra umanità

micco peste napoliOspedali al collasso, locali pubblici, fabbriche e uffici chiusi, volti coperti da mascherine, miliardi di persone chiuse in case, bare accatastate in attesa di una sepoltura. Siamo in stato di guerra si ribadisce a ogni pie’ sospinto: guerra sanitaria, economico-finanziaria, politica e sociale. Una guerra che non ha precedenti perché non provocata dagli uomini ma dalla natura contro l’umanità nella sua interezza. Per alcuni sarebbe una sorta di sua rivalsa contro la smisurata volontà di potenza dell’uomo che lo induce a pretenderne il possesso come pure cosa inanimata e non cuore pulsante della vita e di cui egli stesso è figlio e parte integrante. Comunque, un accidente, una sorta di gigantesca meteorite caduta dal cielo imprevista e imprevedibile. 

Così non c’è questione che vada via via ponendosi che non venga ricondotta al Covid-19, quel nemico terribile ed invisibile che non risparmia nessuno. Ormai non si contano più i neologismi composti con la combinazione del termine “Covid-19” o “corona” in ogni campo: scientifico, medico-sanitario ed economico-sociale. Il tutto per costruire una narrazione secondo cui non vi sarebbe alcuna relazione fra la devastante crisi che si annuncia con l’antefatto, vale dire con lo stato delle cose prima del diffondersi della pandemia.

E così, fatto del tutto eccezionale nella storia moderna, una guerra scoppia prima della crisi.

Si potrebbe obiettare che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa e che per ogni cosa c’è sempre una prima volta.

Sarà anche così, ma in realtà da un esame più attento emerge con molta chiarezza che questa narrazione di fatto nasconde sia la reale relazione causa/effetto fra l’erompere delle crisi e le contraddizioni proprie del processo di accumulazione del capitale, sia che è  già a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso che il sistema si dimena nella morsa di una profonda crisi sistemica con specificità tali da configurarsi non già come un evento periodico generato dall’andamento ciclico del processo di accumulazione del capitale, ma permanente divenendo, di fatto, insieme alla guerra imperialista, il modus vivendi della società capitalistica[1].

Nella crisi attuale, infatti, è venuto meno un fattore fondamentale che in passato ha consentito al sistema, grazie anche alla potenza distruttrice della guerra, di superare le sue crisi e di avviare un nuovo ciclo di accumulazione del capitale a partire dalla produzione di una massa complessiva di plusvalore di gran lunga maggiore di quella pre-crisi.  Così, nel corso di tutto il XIX secolo, nei paesi maggiormente industrializzati è stato possibile ridurre la durata della giornata lavorativa e migliorare considerevolmente anche la condizione dei lavoratori.

 

Alle radici della crisi

Come sempre, anche all’erompere dell’attuale crisi, il sistema ha reagito incrementando la produttività del lavoro mediante la sostituzione di una grande quantità di forza-lavoro con macchine tecnologicamente molto avanzate e innescando così una nuova rivoluzione tecnologica la cui  peculiarità, che la distingue nettamente da tutte le precedenti, è che distrugge molti più lavori e posti di lavoro di quanti ne crea[2], tanto che la perdita di plusvalore che ne deriva non è sufficientemente compensata dalla maggiore produttività del lavoro ottenuta grazie alle nuove macchine.

È come se, per usare il linguaggio medico, così diffuso in questi tempi di pandemia, la risposta immunitaria avesse causato di volta in volta una tempesta citochinica di tale intensità da risultare più dannosa del virus che combatte.

La sopravvivenza del sistema dipende, infatti, dalla capacità di estrarre la maggiore quantità possibile di plusvalore dalla forza-lavoro superstite, costringendola a lavorare sempre di più e più intensamente, e per salari che, ormai anche nelle aree capitalisticamente più sviluppate del pianeta, non garantiscono neppure il minimo vitale.

Il Covid-19, dunque, non è la causa della crisi ma la conferma del suo carattere epocale; epocale, in quanto nel mentre non è dato il suo superamento nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici, rende la vita, per una parte crescente della popolazione mondiale, un autentico inferno, il cui unico orizzonte è la pura sopravvivenza. Lo stesso diffondersi delle epidemie - peraltro sempre più frequenti negli ultimi tempi - è strettamente connesso con le specificità assunte dalla società borghese in questa fase storica e con le esigenze della sua conservazione.

«Le epidemie», scrive lo storico della medicina F. M. Snoweden, nel suo ultimo volume Epidemie and Society. From the black death to the present, «non [sono] eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono la società… Ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche»[3]

Non solo le epidemie, ma la gran parte delle malattie che affliggono l’umanità è la diretta conseguenza del modo di produzione capitalistico e degli stili di vita e di consumo che esso, di fatto, impone.

Fra queste, come è stato ormai scientificamente acclarato, vi sono numerose forme di cancro, le malattie cardiovascolari, l’obesità, il diabete ecc.. 

Soffermiamoci sulle epidemie.

Dalla fame sistemica di plusvalore, infatti, scaturisce quello che ormai si configura sotto molti aspetti come un autentico assalto alla vita in tutte le sue forme, a cominciare da quella dei lavoratori. Allo scopo di incrementare l’estrazione di plusvalore mediante una sistematica e permanente riduzione dei salari, è stata, fra l’altro, completamente rivoluzionata l’organizzazione e la divisione internazionale del lavoro.

Con la prima si è creato il presupposto affinché la gran parte di lavoratori, potendosi alternare, grazie alle nuove tecnologie, fra lavori diversi, pur rimanendo 24 ore su 24 a disposizione dell’intera classe dei capitalisti, sia retribuita soltanto per il tempo in cui viene impiegata.

Qualche tempo fa, ha fatto scandalo la denuncia delle lavoratrici di alcune fabbriche italiane costrette a lavorare con il pannolone, perché veniva negato loro il diritto anche alla pausa necessaria per l’espletamento dei bisogni fisiologici[4]. E già questo la dice lunga su quanto le attuali modalità di svolgimento del lavoro salariato siano altamente patogene. Ma ancor più lo è la nuova divisione internazionale del lavoro.

Il basilico del Kenya

Sempre per ridurre al minimo il costo del lavoro, molte filiere produttive sono state spostate in aree in cui i salari erano, e sono ancora, decine e decine di volte inferiori a quelle delle metropoli capitalistiche.

Di alcune di esse è stata frazionata ogni singola fase del ciclo produttivo, e localizzata ognuna in paesi distanti fra loro anche migliaia di chilometri; e comunque, sempre in paesi in cui il salario spesso non è sufficiente per mettere insieme un solo pasto giornaliero degno di questo nome.

Un telefonino della Apple, per esempio, viene assemblato in Cina con pezzi provenienti da un centinaio di paesi diversi e da qui rispedito in ogni angolo del mondo. Dal punto di vista del capitalista tutto ciò è il massimo della razionalità, perché così facendo riesce a trarre da ogni specifica fase del ciclo produttivo il maggior profitto possibile.

Non lo è per nulla, invece, dal punto di vista degli interessi della collettività. Vi sono a suo carico tanti di quei costi indiretti che se fossero in capo agli agenti capitalisti che ne traggono profitto, questi finirebbero sul lastrico nel giro di poche ore. Una vaschetta di basilico proveniente dal Kenya - come ci è capitato di vedere esposta su una banco di vendita di una ben nota catena italiana di supermercati - costerebbe quanto una contenente una decina di grammi di oro. Insomma, un’autentica follia. Ma tutto ciò, essendo una generosa fonte di profitto, cresce e si espande a ritmi frenetici. Come in fabbrica non sono ammesse pause, così questo andirivieni di merci e uomini non ammette soste di sorta senza che lo svolgimento del processo di accumulazione del capitale su scala mondiale non venga messo in forse.

 Il Covid-19 pare abbia compiuto il salto di specie, da un pipistrello o da un laboratorio poco importa, già lo scorso settembre e individuato qualche settimana dopo, ma si è fatto finta di nulla e non solo in Cina, come oggi accusa, smentito dai suoi stessi consiglieri scientifici, il miliardario che siede alla Casa Bianca.

Tutti hanno fatto l’impossibile per non dichiarare il blocco, per poi dover correre ai ripari quando è stato evidente che non farlo avrebbe condotto a una catastrofe di dimensioni bibliche.

Nondimeno in Italia oltre il 40% delle imprese ha continuato a svolgere la propria attività anche se non essenziale. Fra queste anche una fabbrica di armi lombarda, benché sita in un’area dichiarata zona rossa.

La fame di plusvalore è così tanta che l’assalto al lavoro salariato, alle condizioni di vita e di esistenza dei lavoratoti non può fermarsi al solo andirivieni di cui poc’anzi, ossia alla sola fase della produzione. «Quando», scrivevano Marx ed Engels ne Il Manifesto del Partito Comunista, «lo sfruttamento dell’operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all’operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via»[5].

Diversamente da allora, oggi a causa della crisi del plusvalore o del valore che dir si voglia, è necessario che neppure una briciola di esso vada disperso. E così, grazie anche all’altissimo grado raggiunto dal processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali, la figura del padrone di fabbrica coincide sempre più anche con quella del prestatore a pegno: le grandi banche, le varie istituzioni finanziarie, i vari fondi d’investimento ecc.; il padrone di casa con le grandi società immobiliari e di costruzioni; il bottegaio con la grande distribuzione e così via.

Pertanto chi esercita il controllo e la produzione del capitale finanziario, vale a dire la fabbrica della finanza[6], può appropriarsi del plusvalore estorto alla forza-lavoro sia direttamente nella fase della produzione che nella fase della circolazione, per cui le due forme di appropriazione si confondono e di conseguenza risulta difficile distinguere anche fra la produzione del capitale reale prodotto a partire dalla produzione delle merci (D-M-D’), e quella del capitale fittizio prodotto ex nhilo a partire da altro capitale finanziario (D-D’).

L’abbaglio è tale da indurre molti, che pure si richiamano alla critica marxista dell’economia politica, a ritenere che la crisi derivi non da quella che abbiamo appena definito crisi del plusvalore ma dalla produzione ipertrofica del capitale fittizio e dal prevalere della fabbrica della finanza.

Sarebbe, insomma, tutta colpa dell’avidità dei banchieri. 

Da qui anche l’idea che, limitando e ritornando a politiche economiche di tipo keynesiano, il superamento della crisi sarebbe dietro l’angolo, come se esistesse un capitale buono, quello reale che genera ricchezza e benessere e uno cattivo, quello fittizio, che, vivendo di sola appropriazione parassitaria di plusvalore, genera solo fame e miseria. Si tratta di un unicum così come unica è la fonte da cui trae la linfa di cui si nutre, stando uno accanto all’altro in una sorta di rapporto simbiotico, in cui l’ospite è allo stesso tempo anche l’ospitante e viceversa.

La conseguenza è quella guerra imperialista permanente per l’accaparramento di quote il più possibile grandi del plusvalore estratto su scala mondiale[7], nonché la messa a profitto di ogni momento della vita dei lavoratori.

Supersfruttati in fabbrica e letteralmente derubati fuori di essa.

Intere generazioni non percepiranno mai una pensione (salario differito) di entità tale da evitare il loro sprofondamento nella miseria più nera quando smetteranno di lavorare. Altresì, con lo smantellamento del welfare (salario indiretto), hanno perduto qualsiasi protezione sociale, così che se per una qualsiasi ragione non lavorano anche solo per qualche giorno, rimediano un pasto solo facendo la fila davanti a qualche ente caritatevole.

Stessa sorte è capitata alla sanità pubblica. Se il Covid-19 è potuto dilagare è anche perché non c’è stato paese in cui non abbia trovato porte spalancate: gli ospedali che avrebbero dovuto costituire la prima linea di contenimento dell’epidemia e il miglior presidio per la cura dei contagiati sono divenuti ben presto un micidiale moltiplicatore dei contagi. All’arrivo del virus si sono trovati completamente impreparati e privi perfino dei più elementari dispositivi di protezione del personale sanitario. Molti medici e infermieri sono stati contagiati e hanno perduto la vita perché gli ospedali non avevano scorte sufficienti delle ormai famose mascherine nonostante il loro prezzo sia qualche decina di centesimi di euro. E questo è accaduto un po’ ovunque nel mondo e non perché fosse un evento del tutto imprevedibile: da anni virologi ed epidemiologi ne parlano come di un pericolo imminente.

 

La salute come merce

Ma bisognava che anche la salute, un mercato di nicchia per pochi ricchi, si ampliasse fino a diventare una delle più copiose fonti di profitto. Questo chiedeva sua maestà il capitale e lo Stato, sua ancella, ha obbedito. 

Quanto copiosa è questa fonte di profitto? 

«Le crisi economiche», scrive il ricercatore del Centro nazionale di ricerca scientifica francese, Quentin Ravelli, «sono selettive quanto le epidemie: a metà marzo con il crollo delle borse, le azioni dell’industria farmaceutica sono salite del 20% in seguito all’annuncio della sperimentazione clinica del remdesevir contro il covid-19. Quelle di Inovio Pharmaceuticals sono lievitate del 200% dopo l’annuncio di un vaccino sperimentale, Ino-4800. Quelle di Alpha Pro del 232%. Quanto alla Co-Diagnostic, le sue azioni hanno registrato un’impennata del 1.370% grazie al kit di diagnostica molecolare per il coronavirus»[8].

Un accrescimento della capitalizzazione di tali dimensioni, cui non corrisponde un equivalente accrescimento né del valore industriale dell’impresa (capitale reale) né del prodotto, non avrebbe mai potuto verificarsi senza la mercificazione di un bene primario come la salute. Da bene da salvaguardare a ogni costo, è divenuto esso stesso un efficacissimo strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore: «… la tecnica in questione», continua Ravelli, «è poco costosa – 12 euro per un kit venduto in Francia a 112 euro di cui 54 a carico dei pazienti – ma può essere oggetto di accordi tariffari proibitivi in un contesto tra poche grandi aziende, come Abbot o Roche che vendono ai laboratori locali piattaforme tecnologiche dai prezzi esorbitanti»[9].

Quanti morti in meno ci sarebbero stati se quest’obbrobrio, questo autentico insulto alla vita non fosse stato possibile! Ma tant’è: il profitto, innanzitutto, e con qualsiasi mezzo, questa è la suprema legge del capitalismo. E a ben vedere anche nel salto di specie del virus dagli animali selvatici all’uomo non manca lo zampino del profitto.

 

Il caffè dello zimbetto

«Gli wet market», scrive Silvana Galassi, ex docente di ecologia all’Università di Milano, «dove i banchi sono bagnati dal sangue, dal contenuto delle viscere e dagli escrementi di pangolini, pipistrelli, zibetti che vengono sacrificati sul posto per garantire l’autenticità e la freschezza del prodotto, hanno continuato a essere molto diffusi in Asia…

Queste pratiche hanno radici profonde e un tempo rappresentavano forme di sopravvivenza o erano l’espressione di antiche culture ma ora esistono soprattutto per motivi economici.

Non mi scandalizzai a Bali quando, visitando una piantagione, sedicente “biologica”, di caffè, the, spezie e piante di cacao, mi fu presentato il luwak (zibetto), un piccolo mammifero notturno dal quale i Balinesi ricavano un caffè molto speciale, il kopi luwak, che si ottiene dalle feci dell’animale contenenti bacche solo parzialmente digerite. Ma poi venni a sapere che invece di raccogliere le feci nella foresta dove vive lo zibetto, i proprietari delle piantagioni lo tengono chiuso in gabbia per tutta la vita nutrendolo soltanto di caffè.

Questa non è più cultura ma solamente mercato: una tazzina di autentico kopi luwak può costare 15 euro e un chilo di caffè in grani viene venduto a 800 euro. E il mercato sta fagocitando anche la cultura trasformandola in oggetto di consumo Se vogliamo evitare che pandemie come questa si presentino in futuro…. il problema va affrontato alla radice.

Si stima che 300.000 virus siano presenti nelle specie selvatiche e si ritiene che alcuni di loro siano già in grado di fare il salto di specie»[10].

Se anche la cacca è divenuta una fonte di profitto, si può ben dire che l’epidemia è in qualche modo un prodotto della crisi epocale del capitalismo, e perciò anche la sua metafora migliore.

In realtà il suo erompere ha rialzato, e anche di molto, il livello del fiume in piena ma gli argini che avrebbero dovuto contenerla erano di per sé già sul punto di rottura.

D’altra parte, non può spiegarsi diversamente una crisi di dimensione catastrofiche, come quella che è dietro l’angolo, con il solo blocco, peraltro parziale, delle attività economiche di qualche settimana.

Secondo molte previsioni, bisogna risalire al secondo dopoguerra, quando mezzo mondo era stato ridotto a un cumulo di macerie, per ritrovare un crollo paragonabile a quello che si va profilando.

Per quanto la narrazione corrente ne parli come del biblico angelo sterminatore, il Covid-19 in realtà non ha distrutto neanche un sottoscala. Ha certamente contribuito ad aggravare la crisi, ma in un contesto in cui le condizioni c’erano tutte già da diverso tempo. Ancor prima dell’insorgere dell’epidemia, sia il Pil che la produzione industriale erano in calo un po’ ovunque, ed era già sul punto di esplodere anche una nuova gigantesca bolla finanziaria.

«La crescita del reddito mondiale», scriveva R. Romano il 23 gennaio del 2019, «è da molto tempo rallentata, così come il commercio mondiale dei beni e servizi. La guerra valutaria e commerciale ha esacerbato la tendenza e non l’ha determinata», e ci sono tutte condizioni perché «possa esplodere la bolla finanziaria dei derivati; questi ultimi valgono 2,2 milioni di miliardi, cioè 33 volte il pil mondiale»[11].

Ma grazie al Covid-19 questo ieri è stato letteralmente rimosso tanto che si parla di post-epidemia negli stessi termini di un dopoguerra, con una fase di ricostruzione da avviare, affinché al più presto si possa ritornare allo stato di cose presente prima dell’epidemia.

Ripartire, questa è la parola d’ordine

E così, nonostante l’epidemia sia stata tutt’altro che vinta e la scienza medica avverta che il rischio di una seconda ondata sia altissimo, ormai è tutta una corsa a ripartire.

Lo hanno già fatto la Cina e la Corea del Sud; lo stanno facendo molti Stati degli Usa – nonostante il fatto che in molti di essi, a cominciare da New York, non sia stato raggiunto neppure il picco – e quasi tutti i Paesi europei, a cominciare dalla Germania.

La verità è che né la circolazione né l’accumulazione del capitale tollerano limiti e, oggi come mai prima, neppure per pochi giorni, senza che l’intero sistema rischi di crollare come un castello di sabbia.

Quindi la parola d’ordine da Nord a Sud e da Est a Ovest del pianeta è: riaprire. Tutto e subito. E a tale scopo, tutte le maggiori banche centrali hanno ripreso a iniettare nel sistema liquidità à gogo.

Si ripropongono di fatto le stesse politiche di quantitative easing adottate dopo lo scoppio della crisi dei subprime e clamorosamente fallite.

Infatti, solo il 27 per cento di tutta quella liquidità è stato impiegato nella cosiddetta economia reale, il rimanente 73 per cento è finito nella fabbrica della finanza, incrementando la quota di capitale complessivo che cerca la sua valorizzazione prevalentemente per mezzo dei sistemi di appropriazione parassitaria del plusvalore; e così nel volgere di poco tempo, si è riproposta aggravata la situazione pre-crisi.

Oggi, visto il considerevole calo delle attività manifatturiere (nel mese di marzo, in Italia, la produzione industriale ha subito un calo del 29,3% rispetto allo stesso mese dello scorso anno), e che molte imprese per motivi sanitari dovranno cambiare le proprie modalità operative, è probabile che l’economia reale ne assorbirà in proporzione una quantità maggiore. Ma in ogni caso, poiché non c’è nulla da ricostruire e la fame di profitti, a causa della forzata astinenza, sarà enormemente accresciuta, è facile prevedere, nel rapporto simbiotico fra capitale reale e capitale fittizio, un ulteriore potenziamento del ruolo giocato dall’ospite rispetto a quello dell’ospitante. E di conseguenza anche una maggiore ferocia nell’assalto permanente al salario e alle condizioni di vita dei lavoratori, divenuto ormai una conditio sine qua non per la conservazione capitalistica.

Peraltro, già durante il blocco si sono viste le prime avvisaglie. A milioni di lavoratori assunti con contratti a tempo, a chiamata etc., a quelli della cosiddetta sharing economy (rider, autisti Uber etc.), e allo sterminato esercito dei lavoratori in nero, non è stato riconosciuto neppure un obolo per la sopravvivenza, riducendoli letteralmente alla fame. E quel che è peggio è che difficilmente, anche a blocco finito, troveranno un impiego, e se lo troveranno sarà per un salario ancor più basso e a condizioni di lavoro di gran lunga peggiori di quelle già molto precarie di prima.

Molti di loro un lavoro neppure lo troveranno – neanche in nero – poiché molte piccole e medie imprese, per lo più operanti già in condizioni di marginalità, a causa delle nuove disposizioni igienico-sanitarie e per l’assenza in esse delle condizioni minime per rispettarle, difficilmente potranno riaprire i battenti.

A ciò si aggiunga che molte altre imprese, soprattutto nel settore turistico e della ristorazione, poiché è materialmente impossibile un immediato ritorno alla piena attività, riassorbiranno solo una parte dei loro dipendenti.

La disoccupazione crescerà e con essa automaticamente anche la concorrenza fra i lavoratori e la riduzione del salario medio.

Che poi, a ben vedere, è quel che si prospetta in generale nel mercato del lavoro su scala mondiale.

Si pensi, infatti, alla forte implementazione che ha subito il cosiddetto smart working (alla lettera: lavoro intelligente) o lavoro a distanza, lavoro agile e così via. Si lavora cioè da casa. In apparenza è quanto di meglio si possa immaginare: niente alzatacce per correre in ufficio, minori spese di trasporto, meno inquinamento e possibilità per il lavoratore di organizzare il proprio tempo nella maniera a lui più confacente.

E ovviamente vantaggi anche per le imprese, che avranno bisogno di meno uffici e quindi minori spese per l’illuminazione dei locali, per la loro pulizia e così via.

C’è un non detto, o un qualcosa di cui si parla pochissimo: che il lavoro a distanza, non necessitando altro che di un PC e di una piattaforma di archivio e raccolta dati, può essere suddiviso in tanti pacchetti assegnati in rete, su base d’asta al massimo ribasso, ai lavoratori di tutto il mondo che parlino quella determinata lingua e/o siano esperti in quel determinato lavoro.

Non stiamo esagerando, qualcosa di molto simile accade già con la piattaforma Mechanical Turk, dove di media, anche per lavori di qualificazione medio-alta, spesso non si percepiscono più di due dollari all’ora, per cui – per assicurarsi anche la mera sopravvivenza – bisogna lavorare anche 17 ore al giorno, rimanere collegati 24 ore su 24 e svolgere contemporaneamente più lavori[12]

Come un tempo accadeva con il lavoro a domicilio: sgobbare tutto il giorno, tra lo zappare la terra e il tessere.

Con la fame di plusvalore che c’è non riusciamo neppure a immaginare che lo sviluppo di questa moderna forma di lavoro a domicilio (altro che intelligente o agile che dir si voglia!) possa dare esiti diversi da questo: più lavoro e per salari sempre più bassi, sia che si lavori a domicilio sia fuori.

La vita non merita di essere sprecata così. Ancora una volta, dunque, basta capitalismo! Via libera a un altro mondo, a un’altra umanità, al comunismo.

[1]             Cfr. G. Paolucci, Siria, Iran, Iraq, Kurdistan: il mondo prigioniero della guerra imperialista permanente

[2]             Cfr. C. Lozito, Intelligenza artificiale, liberazione o dannazione del lavoratore?

[3]             F. M. Snoweden, Epidemie and Society. From the black death to the present, Yale University Press, New Haven 2019, cit. ne “Il Mondo Virato”, Limes, n. 3/2020.

[4]             Per un ulteriore approfondimento al riguardo vedi: G. Paolucci, I limiti e le prospettive del conflitto sociale nell’epoca del computer e del lavoratore libero.

[5]             K. Marx e F. Engels, Il Manifesto del Partito comunista (1848), Einaudi, Torino 1970, p. 110.

[6]             Sull’argomento vedi, fra l’altro, G. Paolucci, Il dominio della Finanza, e Sulla crisi dei subprime rileggendo Marx.

[7]             Cfr. L. Procopio, Analisi di una crisi che cambierà il quadro imperialistico mondiale, DMD’, n.15, 2020.

[8]             Q. Ravelli, “Una miniera d’oro per le case farmaceutiche”, Le Monde Diplomatique, aprile 2020.

[9]             Ibidem.

[10]           S. Galassi, “Mettiamo l’ecologia nei posti giusti”, il Manifesto, 29/4/2020.

[11]           R. Romano, “La grande gelata svela il baco di un sistema che non regge, Il Manifesto, 23 gennaio 2019; cfr. G. Greco, I fantasmi di una recessione prossima ventura. Le sue implicazioni sul piano di classe e su quello internazionale

[12]           Cfr. R. Staglianò, Lavoretti, Einaudi, Torino 2018, pp. 124 e ss.