Coronavirus: Basta Capitalismo!

Creato: 18 Marzo 2020 Ultima modifica: 02 Maggio 2020
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 1714

Quella in corso non è soltanto una delle tante crisi economiche e sanitarie  conosciute dall’umanità ma segna il punto di non ritorno dell’intera società capitalistica.

covid19Inizialmente è stata presentata come una delle solite influenze stagionali, solo un po’ più contagiosa e, tutto sommato, poco letale. Ormai però è chiaro a tutti che le cose non stanno così: questo Coronavirus, dicono quasi all’unisono i virologi che lo stanno studiando, è qualcosa di mai visto prima. Ma si tratterebbe, in ogni caso, di una variante di Coronavirus passato dal mondo animale – nello specifico, da un pipistrello – a quello umano secondo un processo del tutto naturale, come può esserlo l’alternarsi delle stagioni o il tempo che fa.

Bisogna quindi – aggiungono in coro politici, intellettuali, economisti politici ed opinionisti borghesi – stare, borghesi e proletari, sfruttatori e sfruttati, tutti dalla stessa parte e combattere il nemico piovuto dal cielo, anzi da un pipistrello.

Un’indicazione che però sta in piedi soltanto se si assume il fenomeno a prescindere dalle caratteristiche precipue della società capitalistica, ossia dal fatto che in essa tutto il ciclo della produzione si svolge in funzione esclusiva dell’accrescimento continuo dei capitali investiti e non in funzione dei bisogni derivanti del ciclo di produzione e riproduzione della vita.

Non si producono, cioè, beni d’uso in quanto tali ma merci. Merci che una volta vendute, incorporando il plusvalore estorto alla forza lavoro, permettono di realizzare, sotto forma di denaro un determinato profitto. Vale a dire che si investe un capitale D soltanto per ricavarne un capitale accresciuto D’.

Da qui l’impulso ad allargare di continuo la produzione e a trasformare ogni cosa in merce: il lavoro in forza-lavoro, gli animali e gli uomini in macchine da lavoro e più in generale la natura in mezzi di produzione e/o materie prime.

Spazio e tempo ne fanno le spese. Dal punto di vista del capitalista la conservazione di una foresta millenaria non ha alcun senso. Ai suoi occhi essa non è altro che una fabbrica di legname, il suo sottosuolo una possibile miniera e il suolo che essa occupa un’immensa azienda agricola. Distruggerla è un affare e poco importa se la abitano altri esseri viventi, animali o uomini che siano.

Anche il tempo ha senso solo se è speso per produrre e consumare merci. Al di fuori di questo senso borghese, al capitalista il riposo, l’ozio, il gioco, l’arte appaiono come tempo perso: vede perfino il sonno come un’intollerabile spreco di ore, tanto che già da anni sono in corso ricerche finalizzate a ridurlo il più possibile.

La stessa scienza medica interessa al capitalista soltanto come mezzo per l’accrescimento del plusvalore estorto alla forza-lavoro.

Per esempio, i vaccini. «Poiché solo il 6% dei vaccini che iniziano la sperimentazione», ci informa Piero De Lorenzo, presidente e amministratore della Merck, l’azienda che ha brevettato il vaccino contro l’ebola, «arriva sul mercato, e in media il processo richiede dieci anni… queste ricerche ad alto rischio [economico, ndr] sono co-finanziate da governi, istituzioni, internazionali e fondazioni filantropiche. Ma saranno le case farmaceutiche a incassare ricavi e profitti»[1]

Profitti stratosferici. Al riguardo dichiara Giovanni Dosi, economista della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa: «la Novartis vende una [immunoterapia oncologica, ndr] a circa trecentomila dollari a trattamento, ma si calcola che se fosse prodotta in ambito pubblico costerebbe solo diecimila dollari».[2]  

Vendere una qualsiasi merce a un prezzo trenta volte maggiore il suo reale valore è di per sé una rapina; se poi si tratta di un farmaco salvavita è semplicemente un crimine contro l’umanità, che però di fatto, seppure camuffato come profitto, è - per dirla con Aristotele - il vero motore immobile, il motore primo della società capitalistica. Senza profitto non può esserci accumulazione del capitale e, senza accumulazione del capitale, il capitalismo non ha ragione d’esistere.

Non è un caso che i governi di tutto il mondo abbiano adottato misure di contenimento dell’epidemia soltanto quando è apparso evidente che la situazione stava sfuggendo completamente di mano.

In Italia, emblematico è il caso della Lombardia. All’insorgere dei primi focolai, è stata dichiarata zona rossa la sola area del lodigiano, ma il resto della Regione - e in particolare la confinante area metropolitana milanese e il suo hinterland - è stata dichiarata a sua volta zona rossa soltanto quando il numero dei contagiati è cresciuto talmente che si rischiava il blocco anche delle linee produttive essenziali. Tutto ciò nonostante vi fossero presenti numerose fabbriche e uffici, e vi confluissero quotidianamente migliaia e migliaia di persone, stipate come sardine nei diversi mezzi pubblici.

 Negli Stati Uniti, la Casa Bianca ha dichiarato lo stato d’emergenza solo quando è insorto il sospetto, purtroppo risultato infondato, che lo stesso Trump fosse stato contagiato.

Peggio ancora in Gran Bretagna. Qui il governo non ha inizialmente preso alcun provvedimento perché è stato ritenuto fosse controproducente, sulla base della cosiddetta legge dell’immunità di gregge, per la quale le epidemie si arresterebbero spontaneamente dopo che sia stato contagiato almeno il 60 per cento della popolazione interessata. Il fatto che da tale inerzia poteva scaturire la morte di almeno 600mila persone non è stato inizialmente tenuto in alcuna considerazione: l’importante era evitare che il motore primo non arrestasse neppure per un attimo la sua folle corsa.
Quando i numeri della pandemia sono cresciuti a dismisura anche in Inghilterra, il governo britannico ha cambiato repentinamente rotta adottando le stesse misure prese in tanti altri paesi; ciò però non ha impedito al covid-19 di infettare lo spaventato presidente Boris Johnson.

In una società in cui l’interesse di una minoranza sfruttatrice prevale così prepotentemente anche sulla salvaguardia della salute e della vita, esso è nel senso più assoluto preponderante rispetto a qualsiasi altra istanza, perfino rispetto al diritto alla tutela della salute di tanta parte della società.

Non ci sarebbe, quindi, di che meravigliarsi se fra qualche tempo, come in tanti sospettano, si scoprisse che sotto le sembianze di un pipistrello si celava qualche casa farmaceutica e/o qualche Dottor Stranamore, che ha pensato bene di impiegare il virus come un’arma, in aggiunta a tutte le altre già in uso, per volgere a proprio favore questa particolare fase della guerra imperialista in corso ormai su scala mondiale[3].

In ogni caso, qualunque sia la sua origine, classificare l’attuale pandemia come un fenomeno del tutto naturale è un spudorata mistificazione; una mistificazione utile ad occultare la stretta relazione che intercorre fra il prodursi e l’espandersi delle epidemie, del dilagare della guerra infinita, della crisi climatica e così via, e la totale subordinazione di ogni attimo della vita su questo pianeta alle esigenze del processo di accumulazione del capitale.

Stare tutti insieme, tutti dalla stessa parte?

Ma se proprio in questi giorni, mentre grazie alla pandemia ampi settori della borghesia nazionale e internazionale stanno facendo affari d’oro (Big Pharma, la grande speculazione finanziaria, le catene della grande distribuzione ecc.), scontano le pene dell’inferno il proletariato e gli strati sociali ad esso più prossimi, ossia tutti coloro che vivono del solo frutto del proprio lavoro e non dell’altrui sfruttamento!

Dovendo comunque recarsi al lavoro, corrono il rischio maggiore di rimanere contagiati; se si ammalano, di non ricevere le migliori cure possibili visto lo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici laddove esistono, e nessuna cura dove, come negli Usa, non esistono.

Se le imprese in cui lavorano sospendono o cessano del tutto la loro attività, rischiano di perdere il lavoro o di subire forti decurtazioni del loro salario o stipendio.

Altro che tutti insieme e dalla stessa parte!

Quel che emerge invece, e al di là di ogni ragionevole dubbio, è che quella in corso è solo un’altra manifestazione della crisi in cui si dimena, e non da oggi, l’intera formazione sociale borghese. Crisi epocale perché insieme economica, sociale, ambientale, demografica. 

Vale a dire, come in altre occasioni abbiamo avuto modo di argomentare, che siamo di fronte all’ennesima conferma che la crisi ha da tempo raggiunto il suo punto di non ritorno. Finché permangono gli attuali rapporti di produzione non potrà mai esserci un oltre la crisi e il suo corteo di immani tragedie[4]

C’è chi da ciò trae la conclusione che il capitalismo stia per tirare le cuoia, per lasciare così campo libero alla nascita di una nuova società, la società comunista.

La storia dimostra che non è così. Per porre fine al capitalismo è necessaria la rivoluzione comunista, e non può esservi rivoluzione comunista senza la presenza di un partito comunista internazionale e internazionalista ben radicato nel seno del proletariato. In mancanza di ciò, altro che sol dell’avvenire: lo squadernarsi della barbarie capitalistica minaccia piuttosto, sempre più da vicino, lo sprofondamento dell’intera società in un buco nero senza vie di uscita.

Come ci ricordano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista:

«La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi… oppressori e oppressi… [esse] condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con la trasformazione rivoluzionaria della società o con la comune rovina delle classi in lotta»[5]. Oggi anche con la possibile scomparsa dell’intera umanità.

[1]  “I tempi lunghi dei vaccini e la necessità di investimenti pubblici”, il manifesto, 06 Marzo 2020.

[2]  Ibidem.

[3]  Cfr. G. Paolucci, “Alle radici della guerra”, e Id. “Siria,  Iran, Iraq, Kurdistan, Libia: il mondo prigioniero della guerra imperialista permanente”.

[4]  Cfr. G. Paolucci, “Bilancio e prospettive a dieci anni dalla costituzione dell’Istituto O. Damen”.

[5]  K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, p. 100.