Clonazione animale e razionalità del capitale

Creato: 30 Gennaio 2018 Ultima modifica: 30 Gennaio 2018
Scritto da ML Visite: 2410

clonatiLa rivista Cell ha annunciato che l’Istituto di Neuroscienze dell'Accademia cinese delle Scienze a Shanghai ha clonato, per la prima volta nella storia, due primati: i macachi Zhong Zhong e Hua Hua, nati con le stesse tecniche già impiegate per la famosa pecora Dolly.

La notizia ha provocato non poco scompiglio tra i commentatori, divisi tra entusiasmi scientisti e perplessità sulle implicazioni etiche della faccenda.

Difficile dire che la notizia possa stupire. Già nel Capitale (I, 2) Marx aveva sottolineato come con la comparsa della manifattura gli animali avessero mutato statuto: da aiutanti dell’uomo, fino al Medioevo, a una “pura e semplice” macchina, come emblematicamente sostenne Cartesio a nome di un’epoca intera.

Ben più complesso, e alla fine fuorviante, esprimere un giudizio al di fuori di una contestualizzazione storica e materialistica di questa operazione.

È razionale operare la clonazione di animali e in particolare di primati? Si passerà all’uomo? Si possono porre argini alla ricerca? È lecito vincolare ai discorsi etici il cammino delle tecno-scienze?

Anche in questo caso, diremmo, non è soltanto nelle risposte che alberga l’errore ma nelle domande stesse[1].

In primo luogo, non vi è nulla di genericamente irrazionale: la forma di razionalità che caratterizza la società borghese, è bene enfatizzarlo, «non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell'oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento»[2]. Inserita in questo ordine di cose e di idee, la scienza, come la tecnica, è tutt’altro che neutra. Il rapporto che instaura con la natura e l’uomo «non è diverso da quello della scienza specifica delle assicurazioni verso la vita e la morte. Non importa chi muore; importa il rapporto dei casi agli obblighi della compagnia. È la legge dei grandi numeri, e non il caso singolo, che ritorna nella formula. L'accordo dell'universale e del particolare è contenuto - e neppure più segretamente - in un intelletto che avverte il particolare sempre solo come caso dell'universale e l'universale come il lato del particolare da cui si può prendere e maneggiare. La scienza stessa non ha alcuna coscienza di sé; è uno strumento»[3].

La scienza non può mai essere autoriflessiva. Ma non è l’etica che può esser sufficiente a modularla, in questa medesima società, in una chiave integralmente umana e insieme in grado di rapportarsi alla natura in termini non solo preservativi ma anche migliorativi. Anche l’etica non può che pronunciare i discorsi propri dell’“orizzonte del pensabile” che, come sostiene Fisher, è integralmente occupato dal capitalismo[4].

Una riflessione radicale sul problema rivela che l’alternativa tra «il dover sacrificare l’animale per salvare l’uomo, o il dover sacrificare l’uomo per salvare l’animale», come scrive M. Maurizi, è falsa «e che possiamo sottrarci a questo duplice sacrificio rituale»[5].

Ci sembra interessante il passo di una lettera del fisiologo P. Fourens, che T. W. Adorno e M. Horkheimer riportano in Dialettica dell’Illuminismo, in cui Fourens si interroga sulla liceità dell’uso del cloroformio nelle operazione su esseri umani. Questa pratica aveva una sperimentazione su animali, alle spalle, piuttosto robusta, da cui si evinceva che con l’uso del cloroformio la sensibilità restava immutata, e si riduceva solo la «capacità di accogliere e di conservare le tracce delle impressioni»[6]. I dolori erano cioè sentiti ma dimenticati. Se i pazienti ne avessero avuto notizia, tutti si sarebbero rifiutati di sottoporsi al trattamento del cloroformio, desiderato invece proprio perché ne ignoravano il funzionamento effettivo. Fourens scrive che l’uso del cloroformio potrebbe inoltre indurre la pratica medica di operare con maggiore leggerezza, sostituendo gli esperimenti animali con quelli su esseri umani, inconsapevoli di essere ridotti a cavie.

Anche se dimenticati, i dolori avrebbero forse arrecato, medita il fisiologo, danni psichici o fisiologici, dei quali i pazienti e i loro familiari avrebbero poi ignorato ogni ragione. E si pone la terribile domanda: «non è questo forse un prezzo troppo alto che dovremmopagare per il progresso?»[7].

Commentano i due francofortesi: «Se Flourens avesse ragione in questa lettera, le oscurevie del governo divino del mondo sarebbero una volta tanto giustificate. L'animale sarebbe vendicato dalle sofferenze dei suoi carnefici; ogni operazione una vivisezione. Potrebbe nascere il sospetto che noi ci si comporti, verso gli altri uomini, e verso la creatura in generale, in modo non diverso da quello in cui ci comportiamo verso noi stessi a operazione sostenuta: ciechi verso la pena. Lo spazio, checi separa dagli altri, non avrebbe altro significato, per la conoscenza,del tempo che ci divide dal nostro dolore passato:quello di un limite invalicabile». Concludono dunque:«ma il dominio permanente sulla natura, la tecnica medica e non medica, attinge la sua forza da questo accecamento, ed è resa possibile solo dall'oblio. Perdita del ricordo come condizione trascendentale della scienza. Ogni reificazione è un oblio»[8]. Oggettivazione, reificazione, feticismo e oblio. Questo ordine concettuale avvia a una più coerente collocazione la riflessione sulla clonazione nella società capitalistica. E torniamo dunque al nodo teorico: si ricordava che salvare l’uomo o l’animale, o, il che è lo stesso, sacrificarne uno per l’altro, in nome della ricerca medica, della libertà scientifica, dell’etica, della coscienza, sono false alternative. E c’è di più: «nel rapporto tra umano e non-umano […] il “non” è concepito come un’alterità generativa dell’umano e del senso della sua esperienza: esso genera il Sé dell’uomo attraverso l’attiva negazione dell’altro-da-sé, una negazione che è al tempo stesso simbolica e reale, legata al dominio sulla natura»[9]. Infatti gli uomini compaiono per distinzione dagli animali, nella misura in cui si separano da questi, non tanto «per la coscienza, per la religione» e così via, ma per «un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica», ovvero la produzione dei propri«mezzi di sussistenza»[10]. L’uomo realizza«nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà»[11]. Il come lo fa dipende chiaramente dall’organizzazione sociale, perché nella sua realtà l’uomo è l'ensemble dei rapporti sociali[12].

La manipolazione capitalistica dell’animale, inquadrato come mera cosa utilizzabile, non è solo sintomo dell’alterazione che questo modo di produzione e questa forma di dominio sociale impongono al rapporto tra uomo e il resto della natura. Interviene a radicalizzare i fenomeni della reificazione e dell’alienazione, questioni che nel nostro tempo assumono un profilo sempre più centrale.

Una teoria critica non metafisica, dialettica e radicale, può pensare queste questioni così pressanti, le loro minacce e le loro promesse, solo oltre il quadro di possibilità peculiaridel dominio sociale capitalistico.

A partire da qui,le avanguardie rivoluzionarie potranno lavorare a un programma di superamento del capitalismo, che si relazioni all’intervento sulla vita e al mondo animale e naturale in termini finalmente umani. Non vi è qui annidato alcun paradosso, Marx aveva ragione: «il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie»[13]. Nel capitalismo, certi dibattiti tra etica e scientismo finiscono invece per assomigliare al più classico flatus vocis, come diceva il vecchio Roscellino di Compiègne. Una mera emissione di voce, confusa nel chiassoso coro della società capitalistica, tutto intonato alla sua razionalità e falsa coscienza.

[1] Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972.

[2]  Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 89.

[3] Ivi, p. 90.

[4] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.

[5]Marco Maurizi, L’animale dialettico: la critica del domino nella Scuola di Francoforte, www.leparoleelecose.it/?p=7859

[6] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 247.

[7] Ivi, p. 182.

[8]Ibidem.

[9]M. Maurizi, L’animale dialettico: la critica del domino nella Scuola di Francoforte, cit.

[10] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, op. cit., pp. 8-9.

[11] K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 195-196.

[12] K. Marx, Tesi su Feuerbach.

[13]  K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968, p. 111.