La vita degli individui tra connessione e isolamento

Creato: 11 Giugno 2013 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 6367
[EN]Dalla  rivista  D-M-D' n °6
Un senso opprimente di solitudine, una condizione endemica di non-libertà, le cui ragioni sembrano sfuggire continuamente. Questa è la vita degli individui oggi. Più si affermano l'edonismo e il narcisismo, più i singoli vengono celebrati come i protagonisti assoluti della propria esistenza, più questo isolamento si traduce in un brutale annichilimento di ogni possibilità di essere persone nel senso pieno e molteplice della parola. Gli individui, connessi tra loro dal capitalismo in una maniera inedita per estensione spaziale e per grado di intensità, sono posti in una reciproca estraneità e ostilità che li dilania in maniera asfissiante. Ma noi non siamo monadi. Siamo animali sociali che costruiscono la loro personalità in maniera relazionale. Il capitale ci rende isolati, abbrutiti, legati non come persone ma come suoi modi di esistere. Il comunismo può costituire invece la dimensione nella quale ogni individuo può realizzarsi come persona, attraverso la libera associazione con gli altri.

Ilaria è una ragazza di 24 anni, d'una provincia del Sud Italia. Ci incontriamo in un bar nel centro della città, seduti ai tavolini che invadono la piazzetta antistante. Decine di persone intanto ci passano accanto indifferenti, indaffarate coi loro cellulari.

“Studio lingue straniere”, ci racconta, “e lavoro in un call center per mantenermi all'università”. Accende una sigaretta e si intrattiene a osservare i cerchi di fumo che perdono forma a contatto con il primo freddo dell'anno; sembra cercare di fare ordine nei pensieri, per spiegarci in poche parole la sua vita. “Sono figlia unica, mio padre lavora tutto il giorno e lo vedo poco. Mia madre fa la casalinga ma non trascorriamo molto tempo assieme. Quando frequentavo il liceo,” continua, “parlavo delle mie cose personali solo con le amiche. Ma da quando sono all'università è diverso, le altre ragazze parlano solo di lezioni, di viaggi studio per imparare l'inglese, di avere successo nella vita”.

Al lavoro è anche peggio. “Siamo divisi fisicamente da pareti sottili, come in scatole di plastica, e il tempo per avere relazioni con gli altri è troppo scarso per conoscerci davvero. Del resto non mi interessa molto, un lavoro vale l'altro, appena avrò la possibilità me ne andrò di corsa”. La sera, quando non ha i turni al call center, Ilaria si incontra con qualche amico alla solita birreria. “Beviamo qualcosa, diciamo stupidaggini solo per ridere un po'. Spesso poi passiamo la notte a chattare su Facebook, guardiamo le foto degli altri, commentiamo quello che scrivono”. Le chiediamo se si sente sola. Alza la tazzina del caffè, la ruota leggermente tra le dita fissando lo sguardo sul fondo. “Beh, non saprei... si, penso di si”. Poggia la tazzina e alza la testa: “ma tra un po' sarò laureata, andrò all'estero, cambierà tutto”, sorride poco convinta.

Cambierà qualcosa nella vita di Ilaria? E da cosa dipende quest'orrenda solitudine che pervade le vite delle donne e degli uomini? Il paradosso è vivere questa condizione proprio mentre è in corso la massima celebrazione della connessione. Con i social network si può stare in contatto con centinaia di persone di ogni angolo del mondo, con wikipedia possiamo accedere a migliaia di pagine curate continuamente e gratuitamente da milioni di persone, il jeans che Ilaria indossa è il risultato finale del lavoro realizzato in una decina di Paesi diversi, il centro commerciale dove lo ha acquistato brulicava di almeno tremila persone. Eppure questa gigantesca dimensione sociale si traduce nel più forte isolamento, in un senso profondo e angosciante di svuotamento.

La tesi che percorriamo è quella di Marx: la società capitalistica, pur mettendo in relazione gli individui come mai è accaduto nella storia, produce anche il loro più radicale isolamento e la loro reciproca indifferenza. Non crea né presuppone, tuttavia, “monadi” autosufficienti, come può apparire alla superficie. Al contrario, gli individui possono esistere solo nelle relazioni con gli altri. Comprendere gli individui e i loro rapporti da un punto di vista storico, reale, consente di capire le ragioni di questa disumana condizione di estraneità e ostilità verso gli altri uomini. Rende inoltre possibile riconoscere nel comunismo non certo un feroce dominio della comunità sui suoi anonimi membri, ma, al contrario, l'effettiva opportunità di realizzazione individuale delle donne e degli uomini, come persone complesse e irriducibili, liberamente associate fra loro.

Se la cifra dell'umano ci è indifferente e ostile

Nella nostra chiacchierata, Ilaria ci ha detto con voce sicura e ferma che il suo lavoro non le interessa per niente. “Un lavoro vale l'altro, appena avrò la possibilità me ne andrò di corsa”.

“Un lavoro vale l'altro” è anche una minaccia per molti lavoratori. Sempre di più significa una precarietà che nella storia non si è mai conosciuta, l'intercambiabilità pressoché totale delle persone, la scarsissima richiesta di competenze, lavori che possono durare poche settimane o addirittura giorni.

Bauman[1] cita, nel suo “La solitudine del cittadino globale[2], la significativa riflessione di K.J. Gergen[3]: “non serve tanto l'individuo autodiretto, incapace di assumere modelli di comportamento differenti. Una persona simile è limitata, provinciale, rigida. ... Occorre dinamismo”![4]

E in ogni caso fare un mestiere piuttosto che un altro è qualcosa di casuale e nulla più. Se ancora nelle comunità contadine e nei borghi artigiani il lavoro particolare delle persone coincideva con i loro saperi e con la stessa vita, cosa rende oggi possibile questo forte e diffuso sentimento di indifferenza verso un lavoro determinato?

Nel capitalismo il processo lavorativo ha il profitto come suo unico scopo. Si realizza concretamente l'astrazione del lavoro, il lavoro in generale. In esso gli individui non possono trovare più nessuna fonte di realizzazione personale. La loro diventa forza-lavoro allo stato puro, senza nessuna qualificazione possibile. E' reciso ogni possibile legame tra sviluppo personale e lavoro. Questo è il punto. Il lavoro degli uomini è differente da quello di ogni altro animale: è produzione dei propri mezzi di sussistenza, ed è prefigurazione cosciente del risultato; questo distingue davvero gli uomini dagli altri animali. Nel lavoro, che in base a queste caratteristiche è un’attività specificamente umana, gli individui possono estrinsecare la propria esistenza, ma è proprio lì che i proletari trovano la più radicale negazione della propria umanità e delle proprie facoltà.

Le aspirazioni personali si trovano in permanente conflitto con quelli che vengono proclamati interessi collettivi. Sul contrasto tra interessi individuali e collettivi, a generalizzare l'interesse da difendere con la violenza, si erge lo Stato[5], che però, fondandosi su tale antagonismo, è una comunità solo apparente. Una comunità illusoria che cristallizza l'estraneità di tale interesse generale rispetto alla vita degli singoli dominati (e in certa misura anche degli individui della classe dominante). Per i lavoratori, sottolinea Marx, questa forma di difesa dell'interesse generale della classe dominante rappresenta subito anche una nuova catena.

E' sintomatico quanto gli individui si ritrovino di continuo alla ricerca di una comunità, edificandone surrogati spesso attorno al nulla: “comunità-attaccapanni” o “comunità-piolo”, le chiama Bauman, cui appendere, temporaneamente e insieme ad altri, l'abito del proprio, privato disagio.

Riflettendo su questa ricerca di uno spazio pubblico, il sociologo polacco[6] riprende un articolo della giornalista Decca Aitkenhead, «These Women Have Found Their Cause, but They're not Sure What It Is»[7]. La “causa” delle donne del West Country, di cui parla l'articolo, era la comune caccia a Sidney Cooke, “il pedofilo più noto della Gran Bretagna” secondo The Guardian.

Il commento che Bauman riprende è proprio sulla natura di una causa, tanto improvvisata quanto ardente, contro una persona mai sentita fino a qualche ora prima. Debra, l'organizzatrice del gruppo di contestazione, più che la “sua” causa, ha trovato “una causa comune: la sensazione di una motivazione condivisa”. Ecco una vera “causa perfetta per mettere insieme persone in cerca di uno sfogo per l'ansia accumulata nel tempo”. I due perché trovati da Bauman meritano attenzione:

1. Cooke non è un nemico astratto, indeterminato, inafferrabile. Ha un nome e cognome, un volto riconoscibile o immaginabile “diversamente dalla maggior parte delle minacce, tanto più inquietanti in quanto generalmente avvertite come diffuse, striscianti, sfuggenti, onnipresenti, sfocate”.

2. Rappresenta un caso di coincidenza fra sfera privata e pubblica: “il suo caso è un crogiolo alchimistico in cui l'amore per i propri figli - un'esperienza quotidiana, abituale, ma privata - può miracolosamente transustanziarsi in uno spettacolo pubblico di solidarietà.”[8]

Possibilità, quindi, di identificare il nemico e ricomposizione della frattura tra privato e sociale: sono temi su cui torneremo.

Il commento di Bauman è interessante: “sennonché, le uniche comunità che le persone isolate possono sperare di costruire e gli amministratori dello spazio pubblico possono seriamente e responsabilmente offrire sono quelle permeate di paura, sospetto e odio. A un certo punto, amicizia e solidarietà, un tempo il materiale più prezioso per la costruzione della comunità, sono divenute troppo fragili, troppo precarie o troppo inconsistenti per servire a quello scopo.”[9]

Nelle attuali condizioni economico-sociali, gli individui quindi si trovano in concorrenza e nemici, l'uno contro l'altro. Possiamo intanto evidenziare che non si tratta dell'isolamento immaginario di chi vuole fuggire dalla società. E', al contrario, la condizione paradossale che genera il capitalismo, nella misura in cui porta a una forma storicamente inedita di divisione del lavoro e dei modi di cooperazione e di socialità degli uomini. Il che comporta traduzioni sul piano ideologico, soprattutto attorno all'individualismo, che è necessario saper inquadrare.

Non siamo monadi

L'idea che gli individui possano davvero realizzarsi come persone basandosi solo su se stessi è un'illusione degna di questa società. A meno che non si deformi il concetto, pensando alla grottesca idea di “realizzazione personale” del figlio del manager che segue le orme del padre, questa possibilità è una farsa, per una nitida ragione: gli individui-monadi semplicemente non esistono, si tratta di un'apparenza. Come scrive Marx sono solo astrazioni vuote, che però popolano tutte le discipline delle cosiddette scienze umane.

Dalle epoche più remote l'individuo non ha mai avuto una vera autonomia come persona, perché viveva solo come parte di un insieme: la famiglia, la banda, la tribù, poi i chiefdom[10] e le comunità con forme di potere coercitivo. Negli aggregati umani arcaici, gli individui potevano avere relazioni tra loro solo in quanto membri di una collettività organica. Elaborate cerimonie di aggregazione, dove gli elementi sociali, si badi, predominavano su quelli magico-religiosi[11], sancivano l'assunzione del ruolo di membri. Al di fuori del gruppo, i rapporti non potevano avere caratteristiche individuali. Sia che questi insiemi presentassero la forma di comunità egualitarie o che conoscessero forme di potere non coercitivo[12], sia che avessero invece sviluppato, con l'agricoltura, sistemi di comando centralizzato, questa privazione di ogni autonomia personale era una costante. Se nelle comunità di cacciatori-raccoglitori gli individui avevano quantomeno la facoltà di lasciare il gruppo, unendosi però a un altro o lasciandosi morire in solitudine, con la stanzializzazione la stabilità del gruppo divenne rigida.

Si andavano definendo su questa base i concetti di noi e loro, di e di altro da sé. Poli che necessitano di una mediazione, che ritroveremo riccamente elaborata nella sapienza greca, dove xenos è sia straniero che ospite, o nell'emergere del plesios delle scritture greco-cristiane, un prossimo che ingloba ora anche l'“hospes che non solo si dichiara apertamente hostis, ma addirittura inimicus, echthròs”, e perfino l'altro che mai potrà essere hospes[13]. E' una dialettica delicata che porta le civiltà mediterranee a concepire l'ospitalità come un valore sacro[14], ma che ha espresso il massimo della contraddizione tra aggregazione e separazione.

Questa relazione conflittuale tra accoglienza e repulsione comportava una gestione dei rapporti tra comunità secondo precisi rituali, basati su pratiche molteplici, ma sempre basate su un forte elemento di comunione e aggregazione: lo scambio, nelle sue varie forme effettive e simboliche[15].

Miti moderni dell'individualismo

L'epoca moderna apre a nuovi sviluppi dell'individuo. Lo storico della letteratura Ian Watt, nel suo Miti dell'individualismo moderno[16], tratteggia il profilo dei “tre miti rinascimentali”: il Faust di Marlowe, il Don Chisciotte di Cervantes e il Don Giovanni di Tirso de Molina. Tre personaggi che, per quanto “molto diversi”, incarnano la “definizione di individualismo [...] come «atteggiamento o comportamento incentrato sull'Io per principio...»”[17]. “Tutti e tre”, continua Watt nel descrivere le assonanze tra i personaggi, “adottano la postura dell'ego contra mundum[18]. Queste individualità prorompenti, create in pochi anni “tra il XVI e il XVII secolo, come prodotti caratteristici di una società nuova”[19], hanno destini però tragici, nei quali il loro individualismo rinascimentale, dissonante ormai rispetto allo spirito della Controriforma, viene sconfitto e duramente punito. Anche se dalle opere dei tre autori trapela “disgusto per la vita del tempo”, è evidente però “che tutti e tre gli scrittori non avrebbero saputo dire quale ideologia sarebbe stato possibile, o anche solo concepibile, sostituire a quella tradizionale.”[20]

In termini più vicini alla nostra epoca, è solo a partire dal Settecento che qualcosa inizia a cambiare.

Secondo la ricostruzione di A. Elliott e C. Lemert[21], il concetto di individualismo viene introdotto solo nel 1835 da Alexis de Tocqueville[22], che lo definisce come un nuovo sentimento che dispone il cittadino ad isolarsi dalla massa. La riflessione può ormai arrivare a un livello qualitativamente diverso. Ecco che i meccanismi punitivi che sconfiggono l'individualismo di Faust, Don Giovanni e Don Chisciotte possono ora essere sabotati[23]. Il Faust diventa, attraverso la penna di Goethe, “la massima espressione letteraria dell'individualismo moderno”[24]. Il Don Giovanni, con varie soluzioni narrative, viene adesso redento o celebrato, almeno in filigrana, come eroe. Don Chisciotte, infine, venne riletto come “figura pura e genuina di chi si batte per l'uguaglianza sociale e per un ideale.”[25]

Paradigmi contemporanei dell'individualismo

Nel loro saggio su Il nuovo individualismo[26], Elliott e Lemert ne espongono le tre principali teorie contemporanee. I due autori classificano l'“individualismo manipolato”, il “privatismo isolato” e la “individualizzazione riflessiva”.

In questa sede le tre classi di teorie citate ci sembrano interessanti per i problemi che con esse vengono posti, ma anche perché ci consentono di evidenziare quali questioni restano occultate, e quindi inspiegabili, senza una comprensione all'interno della critica dell'economia politica e della concezione materialistica della storia.

Per il primo orientamento l’individuo viene manipolato dall’esterno. I sostenitori di questa tesi si distinguono in due sotto-gruppi.

Il primo sotto-gruppo “è formato da chi afferma che la vita pubblica è contaminata dalla manipolazione delle capacità umane operata dalle aziende transnazionali e dalle élite globali.”[27]

Gli autori presentano questa visione utilizzando l’elaborazione di Simmel[28], per il quale gli individui vengono liberati, grazie alla “metropoli moderna” e all'“economia monetaria”, dai vecchi vincoli della tradizione e delle sue strutture sociali. I significati non vengono più trovati in queste ultime, ma ricercati di continuo nel proprio “Io”. Tuttavia la “folla della città” e le “alienanti strutture dello scambio economico” hanno un profilo necessariamente egoistico e utilitaristico: le persone così “cercano rassicurazioni sulla loro indipendenza e sul loro potere in una realtà smisuratamente indifferente e impersonale.”[29] Il peso che acquisisce nella modernità l'individualismo è per Simmel, quindi, il segno della “mancanza di libertà anziché di liberazione.”[30]

Per l’analisi del secondo sotto-gruppo vengono passate in rassegna le ipotesi della Scuola di Francoforte[31]. L'individuo diventa in Adorno, Horkeimer e Marcuse[32] “strumento di dominio e alienazione.”[33] Con la sua caratteristica attenzione per la cultura di massa, emerge nella Scuola di Francoforte un'idea forte di integrazione intenzionale: gli individui sono annientati, i linguaggi mass mediatici “tendono a favorire”, viene qui citato Adorno, “reazioni automatiche e a indebolire le forze della resistenza individuale.”[34] In un periodo più recente, Habermas[35] ha portato la riflessione alle modificazioni tra sfera privata e pubblica determinate dai ritmi frenetici della modernizzazione[36]: se complessivamente la sfera sociale viene indebolita, l'“uso di Internet e della relativa tecnologia interattiva potrebbe creare”, sì, anche possibili contributi “al potenziale democratizzante del cosmopolitismo”; ma può generare “nuove forme pubbliche che finirebbero per causare un deterioramento dell'impegno civico più autentico e del dibattito politico pubblico”, poiché gli individui si rapportano alle “comunicazioni e alla cultura di massa prevalentemente in termini privatizzati: sé isolati, ossessionati dagli spettacoli mediatici.”[37]

Il secondo orientamento, il “privatismo isolato”, vede agire nella società contemporanea una tendenza a svuotare gli individui della loro emotività, a privare degli aspetti affettivi la comunicazione tra le persone. I singoli restano isolati, il loro ruolo attivo nell’“alimentare i rapporti interpersonali e la partecipazione civica”[38] viene sempre più indebolito.

L'orientamento della “individualizzazione riflessiva” invece punta l'attenzione sulle forze della globalizzazione”, che “hanno scatenato una nuova forma di individualismo”[39]. Secondo tale concezione l'integrazione degli individui nella “rete sociale” è solo parziale. Le identità sono continuamente a rischio, predomina l'insicurezza, la costruzione “fai da te” della propria biografia è un processo senza sosta, ricco in incertezze e pericoli. Una costruzione individuale che è “prodotta socialmente”, e che pertanto avrebbe anche una valenza politica; quest’ultima però non si riesce a comprendere subito, ma viene realizzata, in genere, solo con il “senno di poi.”[40]

Dinanzi a tale scenario, diversi autori ne prospettano il superamento mediante l'assunzione di una nuova logica: quella del dono. Esemplificativo in tal senso è il confronto tra filosofi, economisti, teologi e bioeticisti raccolto in “Oltre la società degli individui”[41], dove si rintraccia in questo antico “fatto sociale totale”, nella classica lettura di Mauss[42], la possibilità di ripensare l'ordine sociale al di là dell'utilitarismo, andando oltre le stesse categorie di egoismo ed altruismo. Accanto al paradigma del dono, o a suo arricchimento, è emerso in questi anni anche il delinearsi della cosiddetta etica del riconoscimento[43].

Diamo solo uno spaccato sintetico, ma gli scaffali e i database tracimano di una pubblicistica fiorente sulla condizione devastante degli individui isolati. Per quanto diversi lavori consentano di leggere il problema sotto angolature stimolanti, mediamente si rivelano però incapaci tanto di coglierne le radici profonde quanto di rintracciarne effettive prospettive storiche di superamento.

Perché dobbiamo guardare ai modi di produzione per capire gli individui

Come osserva Marx, non è a caso che proprio nella società borghese, che porta le relazioni sociali alla massima intensità e a un livello mondiale, inizi a emergere l'individualismo.

Infatti è solo nella società, che storicamente inizia a configurarsi proprio col capitalismo, che gli individui possono “isolarsi[44].

Pensare la società come a un insieme di individui è però fuorviante. Al contrario la società, come argomenta Marx, è l'insieme delle relazioni che intercorrono fra gli individui.

E allora per parlare di individui dobbiamo ampliare lo sguardo. Lo facciamo muovendo, brevemente, un passo indietro. Cosa distingue gli uomini dagli altri animali? Per Marx, come accennavamo, la differenza fondamentale è che solo gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza[45], e che sono in grado di avere già dapprima una coscienza del risultato che verrà dal lavoro[46].

Questa produzione dei mezzi di sussistenza, che caratterizza specificamente la vita degli uomini e le loro facoltà di specie, determina, in base ai suoi modi, anche i modi dell'attività materiale e spirituale delle donne e degli uomini, le loro relazioni, le forme di cooperazione, insomma la loro esistenza e coscienza. Per sfuggire alle vuote astrazioni sugli individui-atomi, che al limite decidono poi di unirsi in società (come nelle ricostruzioni illuministiche e democratiche[47]), dobbiamo dunque seguire questa coordinata fondamentale. In questo percorso troveremo gli individui reali, per quello che effettivamente sono e pensano.

Gli individui oggi: super-cooperatori, super-isolati

Quando parliamo di un nesso di determinazione tra modi di produzione e modi di esistenza, stiamo già parlando dei legami tra gli uomini. Questa peculiare attività umana che è la produzione, infatti, non è possibile nella solitudine. In forme diverse, in base ai diversi modi di produzione, la produzione è possibile solo grazie alle relazioni tra gli individui. Ciò che essi sono, e come lo sono, dipende, è costituito, proprio dal loro interagire, dal loro cooperare. Non esistono rapporti naturali che non siano anche sociali. Anche il sesso, per esempio, ha questa duplice natura. E la cooperazione denota l'aspetto sociale di questi rapporti.

L'intimità tra cooperazione e produzione/riproduzione è così profonda che può essere assunta quale riferimento fondamentale nella comprensione dei processi evolutivi degli esseri umani. Cooperare non è una caratteristica esclusiva della nostra specie, ma le sue modalità e il grado cui arriva lo sono. Possiamo inquadrare cioè gli uomini come veri super-cooperatori, secondo la definizione di Martin Nowak[48], il direttore del programma sulle dinamiche evolutive presso l'Università di Harvard. Un comportamento cooperativo che, come sostiene Colin Renfrew[49], si esprime negli uomini grazie a una sorta di mente distribuita, estesa, che non si esaurisce al cervello individuale, e nemmeno al corpo singolo, ma si sviluppa solo socialmente, mediante azioni che Renfrew definisce come “una sorta di 'processo relazionale' fra gli esseri umani e il mondo materiale.”[50]

Con un punto di vista diverso, ragiona su questo tema anche l'antropologo Chris Knight, basandosi sulla teoria evoluzionista del gene egoista[51], che Nowak invece contesta. Secondo Knight non si tratta tanto del fatto che, essendo solo membri di un insieme, gli individui sono vincolati alla cooperazione perché demandano al gruppo le chance della propria sopravvivenza. Con tale meccanismo si coopererebbe solo perché garantendo l'aggregato si consente anche ai suoi membri di esistere. Knight, nell'articolo «La solidarietà umana e il gene egoista»[52], sostiene che una concezione non utopica dell'evoluzione deve considerare le forme di conciliazione tra “ogni altruismo a livello del comportamento sociale” e l'espressione dell’“'egoismo' replicativo dei geni dei singoli individui” (animali in generale). E' rilevante, pur senza qui entrare nel merito della teoria, la sua conclusione: la riflessione su questi temi configura l'evoluzionismo contemporaneo come una sorta di “scienza della solidarietà”. Una solidarietà che è una vera e propria strategia evolutiva. “Un'espressione senza prezzo dell’'egoismo' dei nostri geni”, mediante la quale si realizza la difesa della replicazione dei geni stessi al livello di raggruppamenti di individui su base parentale. Ma, evidenzia Knight, anche oggi, “nelle condizioni in cui abbiamo molto meno probabilità di essere imparentati, questi istinti continuano a spingerci con la stessa forza di una volta. La nozione di 'solidarietà fraterna' non è totalmente dipendente da fattori esterni e sociali, come l'educazione o la propaganda. Non ha bisogno di essere inculcata nelle persone contro la loro natura profonda.”[53]

Il nostro terreno di trattazione non è naturalmente la definizione di queste strategie evolutive. Registriamo comunque che, allo stato, le ipotesi interpretative di questi fenomeni, per quanto diverse, convergono quantomeno nel loro oggetto: l'altruismo, la solidarietà, la cooperazione, sono dati di fatto, riscontrabili in generale nel mondo animale, che acquisiscono un livello specifico nella specie umana. Per le caratteristiche di quest'ultima, è opportuno sottolineare, non si può però parlare genericamente di specie umana naturale: dacché c'è storia, le forme dei legami e della cooperazione tra individui sono determinate dai modi di produzione, e di questi dovremo tener conto.

Guardando al capitalismo: al livello della produzione, vedremo meglio dopo, la cooperazione è espressa al massimo grado, ma con specifiche forme dispotiche e depersonalizzanti. A livello sociale, l'individuo è posto in una condizione di isolamento e la deformazione dei rapporti umani in rapporti apparenti tra cose è, al pari, un fattore di radicale annichilimento dell'individuo, poiché incongruente con il suo fondamento relazionale e sociale.

Bauman, dopo aver posto in evidenza che “in tutte le società, la solidarietà (o, piuttosto, la fitta rete di solidarietà, grandi o piccole, sovrapposte o incrociate) è servita da protezione e da garanzia di certezza (per quanto imperfette), instillando la fiducia, la sicurezza di sé e il coraggio indispensabili all'esercizio della libertà e alla sperimentazione”[54], attribuisce al neoliberismo la responsabilità di aver attaccato frontalmente tale solidarietà, negando addirittura l'esistenza della società[55].

Ma è nel modo di produzione capitalistico in quanto tale che dobbiamo ricercare le ragioni di tale contraddizione.

La cooperazione tra individui, essendo essa stessa una forza produttiva, si realizza in modi diversi a seconda dei modi di produzione esistenti: e con essa mutano e si qualificano le relazioni interpersonali. La qualità di queste ultime definisce la ricchezza della sfera spirituale degli uomini, che a sua volta, pertanto, è data dal modo in cui si coopera, ovvero dallo stesso modo di produzione.

Iniziamo a guardare più da vicino, dunque, il modo di produzione capitalistico, per cogliere le ragioni dell'isolamento degli individui, le modalità delle loro relazioni reciproche, le contraddizioni espresse.

Il modo di produzione capitalistico e gli individui

Marx sintetizza così i tre “fatti principali della produzione capitalistica”:

a) “Concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, per cui questi cessano di apparire come proprietà dei lavoratori immediati e si trasformano in potenze sociali della produzione. [...]

b) Organizzazione dello stesso lavoro come lavoro sociale: mediante la cooperazione, la divisione del lavoro, l'unione tra lavoro e scienze naturali. [...]

c) Creazione del mercato mondiale [...].”[56]

Come si vede, questi punti salienti sono tutt'altro che i temi di un'arida disquisizione di economia politica. Tutti e tre toccano da vicino la vita delle donne e degli uomini: per comprendere così la condizione reale degli individui, è necessario partire da qui.

Posta la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani della borghesia, vedremo pertanto come  il modo di produzione capitalistico comporti necessariamente un forte carattere sociale del lavoro, ma anche come le forme specifiche, in cui questo processo si realizza e si potenzia, neghino ai singoli di essere pienamente persone. In particolare ci soffermeremo, seppur brevemente, sulla forme capitalistica della cooperazione tra gli individui, sulla divisione del lavoro manifatturiera e su quella tecnica della grande industria. Vedremo come queste, su una scala  ormai mondiale, rendano le forze sociali prodotte dalla combinazione del lavoro degli individui un potere loro estraneo, nemico.

Ma da cosa prende effettivamente inizio la produzione capitalistica? Secondo Marx, devono sussistere tre condizioni[57]:

a) l'impiego, da parte dello stesso capitale, di un numero significativo di lavoratori;

b) l'estensione e l'ampliamento del processo lavorativo;

c) una importante dimensione quantitativa della produzione.

La prima condizione (l'impiego di un buon numero di proletari) è il vero “punto di partenza”, sia dal punto di vista storico che concettuale; essa si configura a sua volta in base alle seguenti caratteristiche:

a) il lavoro avviene nello stesso tempo;

b') il lavoro si realizza nello stesso luogo fisico oppure

b'') nello stesso campo di lavoro;

c) si produce lo stesso tipo di merci;

d) si è subordinati allo stesso comando capitalistico.

E' facile comprendere che - dal punto di vista della produzione di valore[58] - è del tutto indifferente che una stessa quantità di lavoratori operi in isolamento reciproco, oppure se viene concentrata sotto un comando unico. Nonostante ciò, va rilevato, la simultaneità del lavoro e la compresenza spaziale dei lavoratori è tutt'altro che da trascurare, anche dall'angusto ma determinante punto di vista del profitto.

Quando il lavoro avviene in queste condizioni, infatti, le differenze tra il lavoro dei vari singoli proletari finiscono per scomparire in una media. La forza-lavoro media che si realizza si esplica in un lavoro di qualità sociale media: a sua volta, questo è lavoro oggettivato in valore. La giornata di lavoro di un numero importante di lavoratori impiegati simultaneamente, divisa per il loro numero, dà la giornata di lavoro sociale medio. Ed è proprio attraverso quest'ultimo che si ha la piena realizzazione della legge della valorizzazione.

Per il capitale “esiste” solo la giornata di lavoro sociale medio: quella individuale non è misurabile rispetto al prodotto, come invece avveniva quando un artigiano produceva un qualcosa di finito. Non essendo misurabile, proprio perché il prodotto è frutto di connessioni e combinazioni, non di lavori isolati, il singolo lavoro non può che essere calcolato in quanto quota della giornata complessiva di lavoro; quota che è appunto la giornata di lavoro sociale medio, come prima accennato. Ciò, spiega Marx, avviene indipendentemente dal fatto che:

a) i lavoratori in questione operino in un regime di forte connessione reciproca;

b) i lavoratori non lavorino in connessione fra loro, ma come collegamento abbiano solo la comune subordinazione allo stesso capitalista.

La forma capitalistica della cooperazione

Nel proporre una definizione di cooperazione, dunque, Marx scrive:

“La forma del lavoro di molte persone operanti secondo un piano l'una accanto e insieme all'altra in un medesimo processo di produzione, o in processi produttivi diversi ma reciprocamente collegati, si chiama cooperazione.”[59]

La cooperazione, vediamo, si può dunque realizzare con la partecipazione a un'operazione, o a più operazioni dello stesso tipo, non solo congiuntamente, ma anche attraverso la partecipazione a diverse fasi del processo, accelerando i tempi di quest'ultimo. Il prodotto finale, cioè, risulta sempre frutto della cooperazione degli individui anche se questi prendono parte alla sua realizzazione mediante la produzione di parti diverse, in luoghi diversi, ma in un processo complessivo simultaneo. Per il capitale questo significa poter compensare la naturale scarsità di tempo, rendendo una giornata lavorativa di n ore non solo pari, ma superiore a una giornata (n)·(X), dove X è il numero di lavoratori che operano simultaneamente. Superiore perché la cooperazione di lavoratori, che operano contemporaneamente nello stesso processo, ha un potenziale sociale di forza imparagonabile alla mera somma dei singoli lavori. Non solo come aumento della forza produttiva ma anche in quanto creazione di una forza produttiva di massa, una forza che in astrazione è una sola forza complessiva. Un valore aggiunto imponente, che naturalmente il capitale, che si relaziona  individualmente ai venditori di forza-lavoro, non paga a nessuno.

La cooperazione dimostra quanto gli individui umani siano animali sociali: posti in questo contatto sociale, aumentano anche le rispettive facoltà di rendimento.

La divisione del lavoro fra i proletari

Originariamente, nei piccoli gruppi umani, la divisione del lavoro non poteva avvenire che su basi naturali, sia in virtù del genere che delle caratteristiche individuali. L'ampliamento della popolazione e lo sviluppo delle forze di produzione comportarono un profondo mutamento, che consentì, affianco alla divisione naturale, anche l'affermarsi di una divisione del lavoro di carattere sociale[60].

Con la divisione del lavoro, gli uomini, pur cooperando, si ritrovano suddivisi (anche se nelle società pre-capitalistiche gli individui erano comunque uniti da qualche forma di legame, dalla famiglia alla tribù, al comune terreno lavorato, ecc.).

Il nodo della divisione del lavoro è quindi centrale per comprendere la condizione degli individui nella società capitalistica e la determinazione dei nuovi rapporti – rispetto al lavoro e lungo gli assi sociali e politici -  che essi sviluppano fra di loro[61]. Storicamente la divisione del lavoro è stata un fattore primario per l'emergenza di nuove forze produttive, ma al contempo ha determinato anche un fortissimo impoverimento delle facoltà individuali. Il lavoro viene da essa reso “unilaterale”, mentre però diviene sempre più “multilaterale” il bisogno dei “possessori della merce”[62].

Il modo di produzione capitalistico si basa su una strutturazione nuova e radicale di divisione del lavoro. Essa si configura come un “organismo di produzione naturale spontaneo, i cui fili sono stati tessuti e continuano ed essere tessuti dietro le spalle dei produttori di merci.”[63] E' così estrema che nessun proletario produce qualcosa di compiuto: per avere un prodotto finito, una merce, occorre il lavoro combinato dei vari proletari “parziali”[64].

“L'articolazione quantitativa dell'organismo sociale di produzione, che rappresenta le sue membra subjecta[65] nel sistema della divisione del lavoro, non è meno spontaneamente casuale che la sua articolazione qualitativa. Perciò i nostri possessori di merci scoprono che la stessa divisione del lavoro che li rende produttori privati autonomi, rende indipendenti da essi il processo di produzione sociale e i loro rapporti nel suo ambito; che l'indipendenza reciproca delle persone si completa in un sistema di dipendenza materiale onnilaterale delle stesse.”[66]

La divisione sociale del lavoro[67] è la condizione per produrre merci, ma non viceversa: difatti sono esistite comunità che non producevano merci, pur avendo una divisione sociale del lavoro[68]. Se è in questo senso una condizione, essa implica la trasformazione del prodotto del lavoro, merce, in denaro[69]. La merce, ricordiamo brevemente, è la forma elementare del modo di produzione capitalistico[70]. Il prodotto del lavoro è in ogni epoca storica, in ogni formazione economico-sociale, un oggetto d'uso[71], cioè un prodotto con una sua utilità[72]. Esso diventa merce solo a un certo stadio di sviluppo storico[73], nel quale è possibile la produzione di un valore d'uso sociale, che consente la cessione della merce a un terzo tramite lo scambio[74].

Lo sviluppo della forma manifatturiera della divisione del lavoro è un passaggio storico cruciale[75]. Il carattere sociale del lavoro assume proporzioni mai conosciute nella storia, producendo contestualmente un forte isolamento dei lavoratori, la loro reciproca indifferenza, ma anche la loro cooperazione su una scala inedita.

Nel ragionare sulla divisione del lavoro in un'officina e a livello sociale, Marx annota: “malgrado le numerose analogie e i legami reciproci fra la divisione del lavoro all'interno della società e la sua divisione all'interno di un'officina, esse si distinguono non solo per grado, ma per essenza”[76].

Infatti in officina solo il concorso di tutti gli operai parziali che lavorano congiuntamente produce una merce, sotto il dispotismo capitalistico, che rappresenta il piano (su questo aspetto torneremo tra breve) della produzione: “la divisione manifatturiera del lavoro ha come presupposto l'autorità incondizionata del capitalista su uomini che formano puri e semplici ingranaggi di un meccanismo collettivo di sua proprietà” (questa è una creazione specifica del modo di produzione capitalistico)[77]; e la divisione del lavoro all'interno della società “è mediata dalla compravendita dei prodotti di diverse branche lavorative”[78]; anziché la concentrazione, “implica la disseminazione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci reciprocamente indipendenti.”[79] Oppone “gli uni agli altri dei produttori indipendenti di merci, i quali non riconoscono altra autorità che quella della concorrenza, cioè la costrizione esercitata su di essi dalla pressione dei loro reciproci interessi, al modo che, nel regno animale, il bellum omnium contra omnes salvaguarda più o meno le condizioni di esistenza di tutte le specie”[80].

I lavoratori, è evidente, non cooperano volontariamente, ma solo perché sono contemporaneamente impiegati dal capitale. La cooperazione li rende sì un “corpo produttivo globale”[81], complessivo, ma questa loro unità, i loro legami, non risiedendo per l'appunto nella propria comune volontà, sono loro esterni, sono nel capitale.

Gli individui che “come persone indipendenti”[82] mettono in vendita la propria forza-lavoro, lo fanno entrando isolatamente in relazione con il capitale. Solo quando sono a lavoro entrano in cooperazione con gli altri lavoratori, cioè solo quando non sono più “persone indipendenti”, quando “hanno cessato già di appartenere a sé medesimi”[83].

La potente contraddizione che nasce è che la forza produttiva che sorge dal lavoro combinato dei lavoratori, ridotti a “un modo particolare di esistere del capitale”[84], appare come la forza produttiva propria del capitale.

Piano, obiettivi e direzione

La cooperazione, la divisione moderna del lavoro, le macchine, sono fattori che conferiscono una natura particolare al comando del capitale sul lavoro.

L'autorità esercitata del capitalista conosce un'evoluzione a motivo della cooperazione. Non è più sufficiente che sia la conseguenza formale dell'avere un operaio alle proprie dipendenze. A questo livello, il comando diventa un elemento essenziale della realizzazione effettiva della produzione.

E' impossibile che un qualunque lavoro svolto non isolatamente, ma con altre persone per un numero significativo, possa avvenire senza nessuna direzione. La direzione non può essere una parte del “movimento del corpo produttivo globale”[85], ma è necessaria una posizione di coordinamento distinta “dal movimento dei suoi organi autonomi”[86].

Tale coordinamento non deve essere necessariamente un'autorità dispotica. Marx nel Capitale propone l'esempio del violinista, che può suonare da solo, e dell'orchestra che ha bisogno di un direttore. Colin Renfrew, nel già citato Preistoria, descrive come le società “egualitarie”, nelle quali non esistono posizioni di preminenza e forme di comando, hanno saputo edificare grandi opere, frutto evidente di un'”azione di gruppo” che “assume nella maggior parte dei casi la forma del lavoro collettivo”[87]. Si trattava di un lavoro che, seppur di certo coordinato, non vedeva nessun individuo o gruppo sociale esprimere dispotismo sugli altri[88]. Il coordinamento non si identificava cioè con un comando. Gli esempi sono diversi: dai progetti di irrigazione in Birmania, ai megaliti dell'Europa nord-occidentale, agli imponenti henge[89] della Bretagna, e ancora alle struttura di Chaco Canyon in America del Nord, o a quelle sulla costa peruviana[90]. Sono forme di cooperazione che, usando le parole di Marx, poggiano “da un lato sulla proprietà comune delle condizioni della produzione, dall'altro sul fatto che l'individuo non ha ancora spezzato il cordone ombelicale che lo unisce alla comunità o alla tribù, più che l'individuo-ape si stacchi dall'alveare.”[91]

Citando R. Jones[92], Marx descrive l'effetto imponente “della cooperazione semplice nelle colossali opere degli antichi Asiatici, Egizi, Etruschi ecc.”[93]. Era il potere di cui erano depositari re e faraoni che consentì loro di imporre la costruzione di monumentali opere a grandi numeri di lavoratori, di cui “concentravano” gli sforzi. Dalle società antiche classiste a quelle medioevali, alle aree coloniali, la base di questa cooperazione era la schiavitù, o comunque rapporti diretti di subordinazione tra signore e servo.

Nell'ordinamento sociale attuale questo potere “si è trasferito nel capitalista”[94], singolo o “combinato” (come nelle S.P.A.). Nella società capitalista mancano le due basi della cooperazione  tipiche delle società egualitarie: la proprietà comune delle condizioni di produzione, che al contrario sono concentrate nelle poche mani della classe dominante, e il legame organico tra individuo e comunità. Manca anche la base della schiavitù: il proletario vende liberamente la sua forza-lavoro al capitalista. In ciò consiste oggi la libertà per i lavoratori. D'altronde, è vero che l'individuo è una moderna creatura del capitalismo, ma “essere un individuo”, osserva anche Bauman, “non significa necessariamente essere libero. La forma di individualità proposta nella società tardo-moderna o postmoderna, e in verità la forma più comune in questo genere di società, l'individualità 'privatizzata', denota, essenzialmente, la condizione di 'non-libertà'”[95]. Non-libertà degli individui non significa necessariamente, a sua volta, la chiara distinzione dell'oppressione. In ogni routine, continua Bauman, c'è oppressione, ma questo non si traduce nella sua intelligibilità: nella non-libertà c'è un elemento di ambivalenza, che facilita la subordinazione. Essa entra nella quotidianità, diviene sfuggente, assume le sembianze di qualcosa di naturale.

Arriviamo al punto del piano. E' chiaro ormai che la cooperazione ha assunto, e può assumere, forme diverse in base ai vari modi di produzione. Nella forma odierna, la direzione del piano è una funzione del capitale.

E' intuitivo che ogni piano è orientato da un obiettivo.  E' un punto importante, perché la possibilità di individuare uno scopo e progettare i percorsi per raggiungerlo è una specificità umana. La presenza di un piano distingue il lavoro nella forma che appartiene solo agli uomini. “Un ragno compie operazioni simili a quelle del tessitore; un'ape fa arrossire molti architetti umani con la costruzione delle sue celle di cera. Ma ciò che, fin dapprincipio, distingue il peggior architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la cella nella propria testa prima di costruirla in cera.”[96] Il risultato cioè viene dall'uomo prefigurato idealmente, e, in quanto obiettivo, “determina a guisa di legge il modo del suo operare”, ad esso l'uomo “deve subordinare la propria volontà”[97]. Questa subordinazione al piano in vista dello scopo deve essere tanto più forte quanto più il lavoro non è di per sé gratificante.

La perversione borghese di questa specificità umana però è ormai evidente. Lo scopo oggi non può che essere la massima autovalorizzazione del capitale, non certo obiettivi che i lavoratori sentano propri. “Autovalorizzazione del capitale” equivale a dire “la maggior produzione possibile di plusvalore, quindi il maggior sfruttamento possibile della forza lavoro ad opera del capitalista.”[98] Non solo, cioè, l'obiettivo è estraneo a coloro che lo realizzano, ma è anche apertamente loro ostile, concretandosi nel loro stesso sfruttamento! Ecco la “duplicità del processo” che viene così diretto: “da un lato è processo lavorativo sociale per la creazione di un prodotto, dall'altro è processo di valorizzazione del capitale.”[99]

Oggi, pertanto, la direzione, che abbiamo definito funzione del capitale, si qualifica anche come “funzione dello sfruttamento di un processo lavorativo sociale.”[100]

Schematizzando, la sintesi di Marx sulla direzione capitalista è la seguente:

a) la sua forma è dispotica;

b) il suo contenuto è duplice:

idealmente è un piano,

praticamente è autorità, cioè “il potere di una volontà estranea”[101].

Autorità come potere di una volontà estranea, dunque; un dominio che si esplica impiegando un esercito di “dirigenti e manager”[102], di sorveglianti e di capireparto.

Connessione e isolamento con l'affermarsi della grande industria

Lo sviluppo del macchinismo[103], delle telecomunicazioni, poi della microelettronica, ha portato alla tendenza degli ultimi decenni, in Occidente in particolare, alla riduzione delle concentrazioni di grandi quantità di lavoratori negli stessi impianti produttivi. Essa non esprime un minor livello di connessione ma l'esatto contrario, grazie proprio alle forme globali di divisione tecnica del lavoro e ai processi di meccanizzazione e informatizzazione dei processi produttivi[104]. “Le modernissime forme produttive che utilizzano reti di stazioni di ogni genere”, scriveva ad esempio Bordiga, “come le centrali idroelettriche, le comunicazioni, la radio, la televisione, danno sempre più una disciplina operativa unica a lavoratori scaglionati in piccoli gruppi a enormi distanze. Il lavoro combinato resta, in intrecci sempre più vasti e meravigliosi, e la produzione autonoma sparisce sempre di più”[105].

Vediamo dunque cosa comporta rispetto a cooperazione e divisione del lavoro la diffusione della grande industria su scala mondiale.

Con la grande industria viene meno la figura del lavoratore che impiega uno strumento, l'elemento caratteristico è ora la macchina (intesa ormai in un senso molto più ampio rispetto ai tempi in cui Marx scriveva) che subordina i lavoratori, facendone sue appendici.

Per cogliere il grado di novità che determina il macchinismo, è il caso di seguire la distinzione che opera Marx tra cooperazione tra molte macchine e il sistema di macchine. Le macchine poste in cooperazione sostituiscono operativamente il vecchio lavoro artigiano nella produzione del singolo manufatto. Abbiamo cooperazione di macchine omogenee. Un sistema di macchine produce invece un manufatto mediante una serie di processi lavorativi diversi ma integrati. Cioè è combinazione di macchine eterogenee. Mentre nella manifattura abbiamo trovato una combinazione di lavoratori parziali, nella fabbrica la combinazione è relativa a macchine parziali. Viene meno cioè il principio soggettivo della divisione manifatturiera del lavoro: nel sistema delle macchine l'organismo produttivo diventa oggettivo. Ancora, se nella divisione manifatturiera del lavoro la caratteristica dei vari processi lavorativi era il loro isolamento, nell'industria moderna subentra invece, quale tratto specifico, la loro continuità.

Il sistema delle macchine costituisce un unico mostro meccanico. Comunicazioni, trasporti, connessioni materiali e digitali, sospinte dalla grande industria, assumono forme mai conosciute nella storia. La dimensione sociale esplode: non è possibile che il sistema delle macchine funzioni se non è gestito da un lavoro socializzato e complessivo. Quindi la cooperazione, a questo stadio, viene determinata dalla natura della macchina stessa. I rapporti tra capitalisti e operai perdono anche le parvenze di relazioni tra persone libere. Il capitale può ora sottrarre tutta la vita al lavoratore, estendendo il tempo di lavoro, intensificandolo esponenzialmente.

Il macchinismo, con le sue evoluzioni moderne, consente di ridurre ancor più fortemente, se non praticamente abolire, la necessità di competenze: possono venir impiegati, in ogni angolo del mondo, bambini, uomini, donne, di qualunque tipo, formazione, esperienza. Non servono più particolari abilità, perché tutte quelle necessarie sono nella macchina stessa. La divisione manifatturiera del lavoro viene così soppressa, anche se ne possono permanere degli strascichi; i lavoratori, prima divisi in una gerarchia in base alla loro specializzazione, tendono ora al livellamento verso lo status di semplici addetti alla macchina.

La divisione del lavoro, a questo stadio, si configura dunque in modo diverso. Essa consta nella sola distribuzione dei lavoratori alle macchine e nei reparti di fabbrica. Torna alla semplicità l'articolazione interna al gruppo dei lavoratori, basta un piccolo nucleo di controllo da una parte, dall'altra i lavoratori occupati alle macchine con i loro manovali semplici. La divisione del lavoro precedente viene superata così da una meramente tecnica.

Non dipendendo più dalla competenza del singolo operaio, ma muovendo direttamente dalla macchina, il processo lavorativo continua anche se i singoli lavoratori vengono spostati di continuo da una funzione all'altra, o se smettono di lavorare.

Scienze applicate, forze naturali e lavoro sociale di massa, spiega Marx, diventano fantasmi che trovano corporeità nell'automa impiegato capitalisticamente[106]. Tutte queste forze diventano il potere del capitalista, che appare smisurato, di fronte al quale il singolo lavoratore si sente come un atomo nell'universo. Si percepisce come soggiacente a leggi obiettive, particella insignificante di una totalità soverchiante. La disciplina della fabbrica viene non a caso paragonata da Marx a quella della caserma, con i suoi sorveglianti, le punizioni, la sua cieca autocrazia.

Un potere dalle parvenze totalitarie e sfuggevoli

Il capitalismo, dunque, dando al potere una forma in-audita di estraneità e oggettivazione, è storicamente il regime sociale di maggior oppressione dell'individuo in quanto tale,  pur producendo donne e uomini che possono isolarsi, con tutte le sovrastrutture che questo produce. Non scompare la comunità: muta la forma, si impone quella del denaro e del lavoro astratto[107]. Relazionandosi attraverso lo scambio, poi, gli individui lo fanno solo come possessori, rappresentanti di merci: queste maschere[108], spiega Marx, sono la personificazione di rapporti economici rispecchiati in rapporti giuridici (l'essere “proprietari privati”). Ecco che chiaramente abbiamo un esempio di come i modi di produzione determinino tutta la nostra vita, i rapporti che ci legano agli altri, o che da loro ci separano. L'istinto naturale è soppiantato dalle “leggi della natura delle merci”. Tutte le relazioni vengono conformate a questo scontro in maschera.

Riassumendo, la società capitalistica rende impossibili per i lavoratori:

a) il superamento della loro concorrenza reciproca

b) una forma volontaria di cooperazione

c) l'intelligenza stessa del processo produttivo

d) il governo delle forze produttive secondo un piano

e) la loro libera espressione onnilaterale in quanto persone

f) la loro autentica relazionalità.

Con l'oggettivazione della forza del lavoro sociale in potere estraneo, con il superamento della subordinazione formale del dominato a un dominante, l'individuo che vende forza-lavoro (ci riesca o meno) si trova come di fronte a un dominio impersonale, che travalica la relazione conflittuale con la proprietà aziendale.

L'apparenza del potere si trasfigura in una carica oppressiva pervasiva dai contorni incerti, dalla sembianza totalitaria. Sfugge quella immediata corporeità del nemico che in apertura abbiamo visto rappresentata così efficacemente, per esempio, dai Sidney Cooke.

Il potere del capitale costruisce invece l'illusione di stagliarsi come il Castello kafkiano, che disattiva ogni contrapposizione fra re e sudditi, fra potere e dominati[109]. Le contraddizioni su cui poggia il suo trono ne minacciano però, storicamente, tanto le parvenze quanto l'ordine. “I rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali”, scrive Marx ripercorrendo un ampio arco storico, “nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in misura ristretta e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo.”[110] Se ci sarà una rivoluzione comunista, sarà possibile arrivare a governare assieme queste forze sociali in maniera cosciente e libera, lavorare poco, con mezzi di produzione comuni, per soddisfare i bisogni di tutti; sarà possibile la piena realizzazione degli individui in quanto persone. In caso contrario, lo scenario prospettabile è quello di un fosco futuro di abbrutimento e annichilimento, di miserie materiali e spirituali, di guerre e conflitti, che getterà in lotta gli uni contro gli altri i lavoratori, giorno dopo giorno, per contendersi anche solo un salario sempre più prossimo al “limite minimo” del valore della forza-lavoro[111].



[1] Sociologo e filosofo polacco, nato nel 1925, celebre per la sua teorizzazione della società liquida.

[2] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale [1999], Feltrinelli, Milano 2008

[3] Kenneth J. Gergen, psicologo sociale statunitense, nato nel 1935, di scuola costruttivista

[4] Ivi, pag.29; cfr. Kenneth J. Gergen, The Saturated Self: Dilemmas of Identity in Contemporary Life, Basic Books, New York 1991, pag.150

[5] Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca [1846], Editori Riuniti, Roma 1993

[6] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, op.cit.

[7] Decca Aitkenhead, «These Women Have Found Their Cause, but They're not Sure What It Is», The Guardian, 24 aprile 1998

[8] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, op.cit., pagg.16-17

[9] Ivi, pag.22

[10] Comunità non statuali, ma con un capo, privo tuttavia di facoltà riconducibili a comando e coercizione: cfr.  Francesca Giusti, I primi Stati, Donzelli, Roma 2002

[11] Cfr. Arnold von Gennep, I riti di passaggio [1909], Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag.86

[12] Cfr.  Pierre Clastres, La società contro lo Stato [1974], Ombre Corte, Verona 2003

[13] Massimo Cacciari, in Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Ama il prossimo tuo, Il Mulino, Bologna 2011, pagg.88-89

[14] Cfr. Donatella Puglia, L'ospitalità è un mito? Un cammino tra i racconti del Mediterraneo e oltre, Il Melangolo, Genova 2010

[15] Arnold von Gennep, I riti di passaggio [1909], Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag.23; cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forme e motivo dello scambio nelle società arcaiche,  [1923], Einaudi, Torino 2002

[16] Cfr. Ian Watt, Miti dell'individualismo moderno [1996], Donzelli, Roma 2007

[17] Ivi, pag.106

[18] Ivi, pag.107

[19] Ivi, pag.VII

[20] Ivi, pagg. 114-115

[21] Anthony Eliott, Charles Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione [2006], Einaudi, Torino 2007

[22] Alexis de Tocqueville, La democrazia in America [1835], BUR, Milano 1999

[23] Ian Watt, Miti dell'individualismo moderno, op. cit., pag.190

[24] Ivi, pag.178

[25] Ivi, pag.196

[26] Anthony Eliott, Charles Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, op, cit.

[27] Ivi, pag.49

[28] Sociologo e filosofo tedesco (1858-1918). Cfr. Georg Simmel, I problemi fondamentali della sociologia [1917], Feltrinelli, Milano 1983

[29] Anthony Eliott, Charles Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, op. cit., pag.50

[30] Ibidem

[31] Scuola che, nella sintesi di Eliott e Lemert, attribuisce la nascita del controllo sociale e dell'egemonia politica a “un'acuta contraddizione all'interno delle vere e proprie strutture tecnologiche globali che plasmano le necessità ideologiche dell'individualismo.” (Ibidem)

[32] Sono tra i principali esponenti della Scuola. Per un primo approccio rimandiamo a AA.VV., La scuola di Francoforte, Einaudi, Torino 2005; Rolf Wiggershaus, La scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

[33] Anthony Eliott, Charles Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, op. cit., pag.50

[34] Ivi, pag.51

[35] Jürgen Habermas è un filosofo e sociologo tedesco, nato nel 1929. Lavoro nel solco della tradizione della Scuola di Francoforte.

[36] Anthony Eliott, Charles Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, op. cit., pag.52

[37] Ivi, pag.53

[38] Ivi, pag.56

[39] Ivi, pag.62

[40] Ivi, pag.66

[41] Cfr. Francesca Brezzi, Maria Teresa Russo (a cura di), Oltre la società degli individui, Bollati Boringhieri, Torino 2011

[42] Marcel Mauss (1872-1950) è stato un noto antropologo, storico e sociologo francese. Tra le tracce più significative dei suoi studi compare il tema del dono. Cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forme e motivo dello scambio nelle società arcaiche, op. cit.

[43] Cfr. il volume monografico «Riconoscimento Misconoscimento», Postfilosofie. Rivista di pratica filosofica e di scienze umane, Anno I n.1, Cacucci Editore, Bari 2002

[44] Karl Marx, Gründrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica [1857-1858], Vol.I, PGreco edizioni, Milano 2012, pag.6

[45] Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca, op. cit.

[46] Karl Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica [1867],  Libro I, Utet, Torino 2009, pag.274

[47] Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto Sociale [1762], Einaudi, Torino 2002

[48] Martin Novaw, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione: perché abbiamo bisogno l'uno dell'altro [2011], Codice Edizioni, Torino 2012

[49] Colin Renfrew, Preistoria. L'alba della mente umana [2007], Einaudi, Torino 2011

[50] Ivi, pag.129

[51] Cfr. Richard Dawkins, Il gene egoista [1976], Mondadori, Milano 1995. Questo saggio si fonda su un approccio all’evoluzionismo basato sui geni e non sugli individui o sulle specie. Nella seconda edizione del 1989 Dawkins aggiunse un nuovo capitolo dedicato all’“altruismo reciproco”.

[52] Tradotto in italiano e pubblicato dalla Corrente comunista internazionale su it.internationalism.org, come contributo al dibattito che la CCI sta sviluppando attorno a questi temi, a prescindere dal grado di condivisione particolare

[53] it.internationalism.org/node/1250

[54] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, op. cit., pag.37

[55] "La società non esiste. Ci sono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie", Margaret Thatcher, Primo Ministro britannico dal 1979 al 1990, in Woman's Owner, 31 Ottobre 1988

[56] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.129

[57] Cfr. Ivi, § XII

[58] Cfr. Karl Marx, Il Capitale, op. cit.

[59] Ivi, pag.449

[60] Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca, op. cit.

[61] Ibidem

[62] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.189

[63] Ivi, pag.189

[64] Cfr. Ivi, § XII

[65] 'Membra disgiunte', da Orazio, Satire, I, 4, n.

[66] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pagg.190-191

[67] “Cioè una sempre maggiore specializzazione del prodotto fabbricato come merce da un dato capitalista, una sempre più accentuata scissione di processi di produzione complementari in processi di produzione autonomizzati” (Karl Marx, Il Capitale, Libro II, op. cit., pag.59)

[68] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.115

[69] Ivi, pag.191

[70] Ivi, § I

[71] Ivi, pag.138

[72] Ivi, pagg.108-110

[73] Ivi, pag.138

[74] Ivi, pag.114

[75] Rimandiamo a Ivi, § XII

[76] Ivi, pag.483

[77] Ivi, pag.489

[78] Ivi, pag.484

[79] Ibidem

[80] Ivi, pag.485. “Bellum omnium contra omnes”, la “guerra di tutti contro tutti”, è un’espressione del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), contenuta nel Leviatano [1651], BUR, Milano 2011, saggio di filosofia politica dedicato al tema dello Stato. Marx, nei suoi lavori, riprende l’espressione più volte.

[81] Ibidem

[82] Ivi, pag.458

[83] Ivi, pag.459. Pur entrando in connessione reciproca nel loro lavoro combinato, i lavoratori non costituiscono per quest'unione, infatti, nemmeno una classe. La loro reciproca ostilità, la concorrenza sempre più spietata, non viene soppressa ma acuita da questa forma di potere. Gli individui, così Marx ed Engels nell'Ideologia tedesca, formano una classe solo nella misura in cui vengono accomunati, e perciò uniti, dallo scontro contro la classe loro antagonista. Ma la classe, al contempo, acquisisce autonomia contro gli individui, sussumendoli sotto di sé, ne determina le condizioni di vita, ne delimita gli spazi di sviluppo personale.

[84] Ibidem

[85] Ivi, pag.456

[86] Ibidem

[87] Colin Renfrew, Preistoria, op. cit., pag.159

[88] “Non c'è alcun dubbio che sia stata necessaria un'organizzazione manageriale ma essa non era, comunque, concentrata in una singola autorità cui fosse riconosciuta una posizione sociale preminente [...]” (Ivi, pag.161)

[89] “L'henge è una struttura architettonica preistorica, di forma quasi circolare o ovale, costruita su un'ampia area pianeggiante, anche di 100 metri di diametro, racchiusa generalmente da un fossato con un terrapieno esterno” (Ivi, pag. 160 n.d.t. Claudia Matthiae)

[90] Ivi, pagg.160-161

[91] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.460

[92] R. Jones, Text-book of Lectures, pagg. 77-78, in Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.459n

[93] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.459

[94] Ibidem

[95] Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, op. cit., pag.69

[96] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., pag.274

[97] Ibidem

[98] Ivi, pag.456

[99] Ivi, pag.457

[100] Ivi, pag.456

[101] Ivi, pag.457

[102] Ibidem

[103] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., § XIII

[104] Cfr. Antonio Noviello, «La microelettronica nei processi produttivi e il degrado del lavoro telematico», in questa stessa rivista

[105] Amadeo Bordiga, «Spazio contro cemento», Il programma comunista n. 1, 8-24 gennaio 1953

[106] Cfr. Giorgio Paolucci, «Gli uomini, le macchine e il capitale», DemmeD'. Problemi del socialismo nel XXI secolo n.1, Aprile 2010

[107] Cfr. Massimiliano Tomba, «Concetto di comunità in Marx. Note sulla traduzione di un termine», traduzione italiana della relazione «Les ambiguïtés de la traduction de Gemeinwesen en italien», per il Convegno Traduire et diffuser les textes de Karl Marx et Friedrich Engels: approches internationales et historiques, 28 maggio 2008, Université de Bourgogne (Dijon)

[108] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., § II. Cfr. anche Luca Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell'ultimo Marx, Ombre Corte, Verona 2012

[109] Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano 2009, pag.69

[110] Karl Marx, Gründrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Vol.I, op. cit., pag.89

[111] Cfr. Karl Marx, Salario, prezzo e profitto [1865], Editori Riuniti, Roma 1988, pagg.70-75