La scuola anche se di qualità è sempre scuola di classe

Creato: 03 Febbraio 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2515

Sulla nozione di qualità della formazione scolastica

Nell’articolo La nuova scuola pubblica? Una fabbrica di analfabeti apparso sull’ultimo numero di D-M-D’ pur essendo giustamente colta la relazione che intercorre fra i mutamenti che intervengono nei processi produttivi, l’organizzazione del lavoro e le modificazioni dei sistemi scolastici, ivi comprese quelle introdotte dal decreto legge Gelmini, a un certo punto, però, si afferma: “Di fatto con il progetto di autonomia scolastica la formazione di qualità, che prima era funzionale e necessaria per un’alta qualificazione di diversi profili professionali, viene ridotta ad una formazione finalizzata all’acquisizione di conoscenze molto limitate, in linea con le nuove esigenze dei più moderni sistemi produttivi basati sulla microelettronica”. Ma che cosa può significare, in una società divisa in classi, “formazione di qualità”? Intanto occorre mettersi d’accordo sul significato che si vuol dare, nella fattispecie di una formazione scolastica, alla nozione di “qualità”.

Se per qualità si intende quella nozione a cui sono riconducibili alcuni aspetti della realtà sulla base di una classificazione (cattiva, buona, eccellente ecc. ecc.), è evidente che, per poterla definire, è necessario individuare i relativi parametri di riferimento in relazione agli interessi prevalenti nella formazione sociale considerata.  Infatti, dal punto di vista del capitalista, a seconda del parametro adottato può essere ritenuta di qualità anche una formazione offerta da una scuola che istruisce a svolgere determinate attività lavorative, ma lascia i discenti privi di una qualunque formazione di tipo classico-umanistico e viceversa.

In altri termini, se non si definiscono i parametri di valutazione e il contesto socio-economico parlare di formazione di qualità è un po’ come parlare del sesso degli angeli.

Quindi, stabilito che il modo di produzione vigente è quello capitalistico, dal punto di vista della borghesia, ma non da quello del proletariato e più in generale della società, una determinata formazione scolastica sarà di buona qualità se è congruente alle esigenze di conservazione del modo di produzione vigente e alla trasmissione della ideologia dominante che, come insegna il vecchio Marx, è anche quella della classe dominante. A tale proposito, è importante sottolineare che, non essendo presenti i moderni sistemi di comunicazione di massa e non essendosi ancora sviluppate le attuali forme di consumo, la borghesia, per un lungo periodo di tempo, per poter  veicolare la sua ideologia ha dovuto necessariamente prevedere che i programmi scolastici contenessero nella formazione di base, anche se in forma esclusivamente nozionistica, almeno un pizzico, diciamo così, di cultura generale.

La riforma Gentile

Premesso ciò, seppure in estrema sintesi, andiamo a vedere come è stata organizzata, a partire dalla riforma Gentile, la scuola pubblica italiana negli ultimi 80 anni.

La riforma Gentile prevedeva - a partire dalle scuole elementari- un primo corso di due anni di semplice alfabetizzazione. Dopo questi due anni, coloro che volevano e potevano proseguire, dovevano sostenere un esame per essere ammessi a completare il ciclo quinquennale della scuola elementare e poter così acquisire la relativa licenza. Questo titolo, che oggi non ha più alcun valore pratico e giuridico, allora, e ancora per molti anni dopo, era il requisito minimo richiesto per poter partecipare, per esempio, ai concorsi pubblici di operaio non qualificato, operatore con funzione di manovalanza, usciere, bidello ecc. ecc. Quindi, già nella scuola elementare si aveva una prima selezione non solo fra i figli di proletari e borghesi, ma anche in relazione alle diverse stratificazioni dello stesso proletariato. Molti, moltissimi si fermavano qui mentre a coloro che volevano e potevano proseguire gli studi, si offrivano due possibilità: di iscriversi a una scuola di avviamento professionale della durata di tre anni; oppure, previo il superamento di uno specifico esame di ammissione, di iscriversi al corso di scuola media inferiore anche esso della durata di tre anni. Con la Licenza di Scuola Media inferiore o di Scuola di Avviamento Professionale si poteva aspirare a un lavoro di tipo impiegatizio di terzo livello, quello del cosiddetto gruppo C.  Invece, i pochi che volevano proseguire gli studi, se provenivano dalla scuola di avviamento professionale potevano accedere o alle Scuole professionali, un corso di tre anni alla fine del quale si conseguiva una sorta di attestato di specializzazione nelle più svariate discipline (elettricista, tornitore e fresatore, computista commerciale ecc. ecc.); o agli Istituti Tecnici, un corso di cinque anni alla fine del quale si conseguiva il diploma di perito (industriale, edile, elettrotecnico, chimico ecc.).

Ai licei, agli Istituti Tecnici per ragionieri e geometri e alle scuole Magistrali (formava gli insegnanti elementari) si poteva accedere solo con la Licenza di scuola Media inferiore.

Vi era anche una scuola di avviamento professionale specializzata in agraria e un successivo corso quinquennale al termine del quale si conseguiva il diploma di Perito agrario.

In conclusione, l’organizzazione della scuola era quasi modellata su quella del lavoro allora prevalente: un corso di sola alfabetizzazione per la gran massa dei proletari destinati ad attività bracciantili, la quinta elementare per i destinati a svolgere un lavoro appena più qualificato; scuole professionali per la formazione di operai qualificati (elettricisti, tornitori, fresatori, falegnami, fattori) e per impiegati di livello inferiore (computisti commerciali, dattilografi ecc.). In queste scuole la formazione era di tipo essenzialmente tecnico e la cultura cosiddetta di tipo classico-umanistico si risolveva in un’infarinatura di cultura generale.

Per ragionieri e geometri, forse perché la formazione tecnica loro richiesta presupponeva anche una buona cultura generale, il piano di studi prevedeva anche una buona formazione di tipo umanistico. Nondimeno, anche il conseguimento di questi due diplomi, come peraltro quello di Perito, non consentiva il libero accesso agli studi universitari, tranne che per la facoltà di Economia e Commercio. I ragionieri potevano accedere anche a quella di Lingue Straniere ma solo di alcune università. Anche per coloro che conseguivano la maturità scientifica, l’accesso agli studi universitari non era del tutto libero, per esempio non potevano iscriversi alla facoltà di Lettere Classiche.

Era questa una formazione di qualità? Dal punto di vista della borghesia, era una formazione mediamente di qualità poiché, oltre che scuola fortemente selettiva e classista, era sicuramente rispondente alle esigenze di un paese prevalentemente agricolo (bisognoso di molto lavoro bracciantile) e con un apparato industriale ancora poco sviluppato e concentrato in un’area molto ristretta del paese. In ogni caso dava una buona formazione di base sia a coloro che erano destinati a far parte del ceto dirigente sia della forza-lavoro destinata ai diversi segmenti del mercato del lavoro.

In altri termini, era una scuola rispondente alle esigenze e al grado di sviluppo del modo di produzione vigente nonché ai meccanismi di trasmissione dell’ideologia della classe dominante.  Infatti, il sistema scolastico basato sulla riforma Gentile è sopravvissuto alla caduta del fascismo ed è, salvo qualche piccolo aggiustamento, rimasto sostanzialmente immutato fino ai primi anni ’60.

Solo dopo il boom economico e la conseguente trasformazione dell’Italia da paese prevalentemente agricolo a paese industriale, si avvertì la necessità di riformarlo radicalmente.

La nascita della scuola di massa

Vi provvide il primo governo di Centro Sinistra (1963).  Con un’apposita riforma, dopo averla resa obbligatoria, la scuola media inferiore fu unificata con quella di avviamento professionale. Furono cambiati radicalmente anche i percorsi formativi sia della nuova scuola media sia degli istituti tecnici dando alla formazione tecnica una maggiore valenza. Nella scuola Media inferiore fu reso facoltativo il latino, alleggerito lo studio dell’italiano e introdotto lo studio di Applicazioni tecniche. Insomma, si riorganizzò il sistema scolastico in modo che risultasse più confacente alle nuove esigenze del sistema produttivo: meno braccianti e manovali, più operai specializzati e più tecnici di livello intermedio e laureati. Inoltre, per favorire la frequenza degli Istituti di scuola media superiore e delle università anche da parte dei giovani provenienti dalle fasce sociali economicamente più deboli, furono istituite numerose borse di studio e il cosiddetto presalario[1] Successivamente furono liberalizzati anche gli accessi universitari per cui ci si poté iscrivere a qualunque facoltà purché in possesso di un diploma di scuola media superiore. Il processo di riforma si completò del tutto solo agli inizi degli anni ’70 anche a seguito, nel sessantotto, della forte reazione studentesca ai vigenti modelli autoritari con una marcata contestazione del modello fortemente nozionistico dell’insegnamento.

In ogni caso, si noti che sono occorsi più di dieci anni affinché il passaggio  da un sistema scolastico fortemente selettivo, e per molti versi d’elite, alla cosiddetta scuola di massa si potesse completare. Ciò sembrerebbe contraddire l’esistenza di una diretta relazione fra le modificazioni che si determinano all’interno dell’apparato produttivo e quelle del sistema scolastico. In realtà, la relazione che intercorre fra l’uno e l’altro così come più in generale quella fra struttura e sovrastruttura, nell’accezione storico-materialistica di questi termini, non è una relazione di tipo meccanicistico. L’elemento sovrastrutturale, una volta che si è prodotto, non è qualcosa privo di una sua materialità e contraddizioni  talché possa mutare senza che queste esplodano a loro volta o operino attenuando, rallentando e, a volte, perfino paralizzando le spinte al mutamento che provengono dal mondo della struttura.

Ciò è tanto vero che se la crisi non avesse imposto una pesante ristrutturazione della spesa pubblica, molto probabilmente, salvo qualche piccolo aggiustamento, saremmo ancora fermi alla scuola di massa nonostante che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, l’introduzione della microelettronica nei processi produttivi, abbia rivoltato come un calzino l’organizzazione, la divisione internazionale del lavoro e il suo mercato. Infatti, benché l’introduzione del microprocessore nei processi produttivi richiedesse un radicale mutamento del sistema scolastico in funzione di un mercato del lavoro completamente rivoluzionato dal prevalere, anche nei settori industriali e dei servizi di una domanda di forza-lavoro dequalificata facilmente intercambiabile e, grazie ai processi di delocalizzazione della produzione, in fortissima concorrenza con quella dei paesi cosiddetti emergenti, sono occorsi quasi trent’anni perché tale mutamento potesse compiutamente aver luogo.

Microelettronica e crisi della scuola di massa

Il primo tentativo di adeguare il sistema scolastico alla nuova realtà risale alla riforma varata, nei primi anni ’80 dal ministro socialista craxiano, Ruperti che fallì nonostante prevedesse solo piccoli aggiustamenti.

Infatti in un primo momento, poiché era opinione diffusa che a fronte di alcune centinaia di professioni che si sarebbero perdute, in mente tecnologica ve ne fossero almeno altre 12 mila di nuove, si pensò che sarebbe bastata l’introduzione dello studio dell’informatica nei piani didattici per adeguare il sistema scolastico alle mutate esigenze del sistema tecnico-produttivo. In realtà accadde esattamente il contrario: per anni non si è fatto in tempo a festeggiare la nascita di una nuova professione che dopo poco tempo si era costretti a celebrarne i funerali.

E’ stato così per gli informatici, per alcune specializzazioni ingegneristiche, per i biologi molecolari ecc. ecc.

Si è trattato cioè del più grande e rapido trasferimento di saperi dall’uomo alle macchine, un trasferimento che, peraltro, per la prima volta nella storia del moderno capitalismo, ha riguardato soprattutto il lavoro altamente qualificato e intellettuale. Così il problema che, in ultima istanza, si andava ponendo non era tanto, come nei primi anni ’60, quello di dar vita a un nuovo sistema scolastico quanto di smantellare quello esistente.

La riforma del sistema scolastico e la crisi economica

Si doveva smantellare un apparato obsoleto e procedere al licenziamento di qualche centinaio di migliaia di persone molte delle quali laureate. Il governo che avesse avuto la forza e la volontà di farlo avrebbe dovuto mettere in conto non solo una forte perdita di consensi, ma anche il rischio dell’esplodere di forti tensioni sociali. Pertanto, finché il bilancio pubblico lo ha consentito, si è evitato di affrontare la questione nei suoi termini reali; così la scuola di fatto si è trasformata, più o meno consapevolmente, in un vero e proprio ammortizzatore sociale per contenere, seppure offrendo lavoro precario, la crescente disoccupazione causata dai processi di delocalizzazione e ristrutturazione degli apparati industriali e amministrativi. E sarebbe rimasta tale se la crisi del terzo ciclo di accumulazione del capitale[2], le cui prime manifestazioni risalgono ai primi anni ’70 del secolo scorso, a un certo punto non avesse imposto politiche sociali di segno completamente opposto.

Da questo punto di vista nel caso della riforma Gelmini, come quelle Berlinguer e Moratti, più che di riforme del sistema scolastico si dovrebbe più propriamente parlare di manovre di politica economica mirate al contenimento della spesa pubblica. Si taglia la spesa per tutti gli ammortizzatori sociali e dunque anche per l’istruzione. Tanto più che, accanto a poche e costose scuole per elite di tecnici super specializzati, una scuola mediocre e a basso costo, poco importa se pubblica o privata, basta e avanza per formare la gran massa di schiacciabottoni di cui necessita l’attuale mercato del lavoro.

Stiamo quindi assistendo a un fenomeno che travalica il mondo scolastico per interessare l’intera società. Un processo che per la sua rapidità e violenza forse è paragonabile soltanto a quello che si svolse tra il XV e il XVI secolo. Allora fu proletarizzata, dal nascente capitalismo moderno, la quasi totalità della servitù della gleba, oggi è la volta di un’ampia fascia di piccola e media borghesia anche intellettuale, con lo sconvolgimento degli assetti sociali che hanno caratterizzato la frase fordista del capitalismo i cui esiti sono in gran parte ancora da decifrare.

Carlo & Giorgio



[1] Il presalario consisteva in una borsa di studio assegnata, per tutta la durata del corso universitario, agli studenti provenienti da famiglie che non superavano una certa soglia di reddito e  che superavano tutti gli esami previsti per ogni singolo anno di corso con una media non inferiore ai 24/30.

[2] Secondo la teoria marxista, le crisi che periodicamente colpiscono il sistema capitalistico possono essere  congiunturali cicliche o strutturali.  Appartengono alle prime, le crisi derivanti da particolari situazioni che si determinano in alcuni settori produttivi e/o di mercato. Normalmente  sono di breve durata e restano circoscritte ai settori colpiti. Le crisi strutturali o del ciclo di accumulazione del capitale, sono il prodotto dell’erompere periodico delle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione del capitale. Esse conducono al collasso generale del sistema economico, si prolungano nel tempo e il loro superamento implica costi elevatissimi per la società e in modo particolare per i lavoratori.  Le prime due crisi del ciclo di accumulazione sono state all’origine della prima e della seconda guerra mondiale. Quella  del terzo ciclo è ancora in corso e i suoi esiti si annunciano di portata epocale e, allo stato delle cose, non ancora del tutto decifrabili.