La nuova scuola pubblica? Una fabbrica di analfabeti

Creato: 24 Novembre 2010 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2357

Completando l’opera avviata dal governo di  centrosinistra con il ministro Luigi  Berlinguer e successivamente dal centrodestra con Letizia Moratti, la riforma Gelmini porterà la scuola pubblica alla totale debacle.

Il processo che ha portato la scuola italiana alle attuali condizioni,  inizia  nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso con il cosiddetto progetto di autonomia scolastica.

L’accordo tra il governo e le cosiddette parti sociali, che venne siglato nel settembre 1996, ufficialmente mirato all’ammodernamento del sistema scolastico nazionale, in realtà sanciva l’avvio del suo smantellamento incentrato sull’aziendalizzazione degli istituti scolastici, compreso le università.

Infatti, come sostenevano gli stessi fautori del progetto, esso era finalizzato a trovare “ la giusta connessione tra i temi dell’istruzione, della formazione professionale, della ricerca scientifica e tecnologica”, ciò implica una sostanziale deviazione in senso tecnicistico della cosiddetta offerta scolastica in generale e della ricerca di base rispetto a quella applicata. Di fatto con il progetto di autonomia scolastica la formazione di qualità, che prima era funzionale e necessaria per un’alta qualificazione di diversi profili professionali, viene ridotta ad una formazione finalizzata all’acquisizione di conoscenze molto limitate, in linea con le nuove esigenze dei più moderni sistemi produttivi basati sulla microelettronica. Di fronte alla velocità con cui lo sviluppo tecnologico modifica continuamente le tecniche produttive, premiare la rapidità della formazione a discapito della sua qualità e dei suoi contenuti umanistici è divenuto un imperativo inderogabile. La formazione scolastica si è adeguata, cioè, al modello usa e getta che andava imponendosi anche nel mercato della forza-lavoro.

Va, infatti, ricordato che fino ad allora la scuola pubblica italiana si basava ancora, salvo qualche ritocco, sulla riforma Gentile varata nel 1923. Essa prevedeva l’obbligo scolastico fino a 14 anni, scuola elementare fino ai dieci anni di età, e quindi indirizzo classico-umanistico di alta qualità per formare i futuri dirigenti e un ramo professionale per i figli della classe operaia.

Senza soluzione di continuità con il processo avviato dal ministro Berlinguer, la ministra Moratti che gli succede, in linea con lo slogan elettorale delle famose tre I ( impresa, inglese, informatica) e con il pensiero unico dominante, secondo il quale il privato è per definizione più efficiente del pubblico,  imprime una notevole accelerazione al processo di aziendalizzazione dirottando ingenti risorse verso la scuola  privata e in particolare quella cattolica.

A conti fatti, in realtà, alla  Gelmini è toccato ora il compito di infliggere il colpo di grazia alla scuola pubblica. Con la graduale reintroduzione del maestro unico, la riduzione del tempo pieno nelle scuole primarie ed elementari, la riduzione delle ore di insegnamento, la cancellazione di cattedre come per esempio quella di geografia di storia dell’arte o il latino reso facoltativo nei licei scientifici, l’accorpamento delle classi in classi sempre più numerose e l’introduzione degli stage di apprendistato validi a tutti gli effetti per la determinazione dei crediti scolastici, la scuola pubblica viene di fatto trasformata in una sorta di atelier di apprendistato per manodopera altamente dequalificata. Con in più il vantaggio, grazie ai licenziamenti che queste misure rendono possibili, di dare una bella boccata d’ossigeno al disastrato bilancio dello Stato. Secondo alcune stime, con questa controriforma, infatti, saranno cancellati, fra personale docente e non docente, almeno 120.000 posto di lavoro. Già negli ultimi due anni, a fronte di una carenza di organico di ben 80.000 unità fra scuola media e media superiore, dei ben  240.000 gli insegnanti iscritti nelle graduatorie solo 10.000 sono stati immessi in ruolo. Se si tiene conto che l’età media degli insegnati in graduatoria è di 38 anni (l’età media di quelli in servizio invece è di 52 anni) è evidente che stiamo assistendo al più feroce processo di proletarizzazione di una massa imponente di quei  laureati che un tempo andavano a collocarsi negli strati intermedi della società e un’altrettanto  poderosa crescita dell’ esercito industriale di riserva con conseguente accentuazione della già forte spinta alla riduzione generalizzata dei salari.

Di fatto, d’ora innanzi nessun giovane laureato potrà più aspirare, con qualche probabilità di riuscirci, a entrare, se non per vie traverse, nella scuola. E ancora più inaccessibile  diventerà per loro il mondo dell’università.

La riforma dell’Università

Facciamo un passo indietro. Nel 1999, si incontrarono a Bologna i ministri di 29 paesi europei al fine di coordinare una serie di misure per dare vita a un sistema universitario internazionale nell’ambito di  un’area universitaria europea.

Il  meeting, conclusosi con l’accordo denominato “processo di Bologna”, diede il via a una serie di riforme mirate all’allineamento dell’università italiana a quella europea attraverso i seguenti punti:

- organizzazione di percorsi formativi nella formula del 3 + 2;

- inserimento di un sistema di valutazione basato sui crediti (CFU);

- introduzione del concetto di Autonomia Universitaria;

- introduzione del concetto di Autonomia Didattica.

Il tutto secondo i limiti fissati da apposite tabelle ministeriali.

Insomma  furono gettate le basi per la liquidazione del sistema scolastico pubblico.

La riforma Gelmini,  basandosi  proprio sul principio dell’autonomia didattica e universitaria, prevede, infatti,  non solo che le università che non abbiano i conti a posto possano essere commissariate e che se non dimostreranno di essere in condizioni di regolarizzare i loro bilanci vedranno decurtati parte dei fondi assegnati, ma soprattutto il forte ridimensionamento della figura del ricercatore. Se la  riforma, come ormai sembra, verrà approvata,  essi saranno assunti solo con contratto a tempo  determinato, al termine del quale dovranno sostenere degli esami senza il cui superamento il loro rapporto con l’ateneo cessa.

Orbene, poiché i ricercatori, non essendo per contratto obbligati a farlo, svolgono il 40 per cento delle attività didattiche nella sola speranza di poter diventare un giorno  professori, è del tutto evidente che, venendo meno questa possibilità e non prevedendo la riforma l’immissione in ruolo di un cospicuo numero di professori, tutta l’attività didattica universitaria è destinata al blocco totale e un consistente numero di università italiane a chiudere i battenti. Potranno salvarsi solo quegli atenei che saranno capaci di attrarre ingenti finanziamenti privati e/o quelle costosissime università private destinate ai figli dell’alta borghesia. Insomma un po’ il modello americano.

Le charter school

L’amministrazione Bush nel 2001 ha varato la legge Nclb ( No child left behind – nessun bambino lasciato indietro) che prevedeva la creazione delle cosiddette charter schools, letteralmente: scuole a noleggio (già questo scivolamento in un campo semantico proprio del mondo del commercio è tutto un programma). Si tratta di una sorta di scuole private finanziate dal pubblico, in concorrenza con quelle pubbliche tradizionali. Naturalmente, i propositi enunciati dal legislatore erano di creare una scuola pubblica gestita con la stessa presunta efficacia del privato. Ma lo scopo non dichiarato e raggiunto era di creare delle scuole di elite dirette da privati e/o da associazioni non aventi fine di lucro, il cui accesso fosse di fatto impedito ai soggetti indesiderati (ispanici, afro-americani, handicappati) e meno abbienti, per i quali rimanevano le poco competitive e fatiscenti scuole pubbliche.

Grazie a questo sistema le charter schools hanno anche potuto disdire i precedenti contratti di lavoro degli insegnanti e stipularne dei nuovi a esse molto più favorevoli. Oggi in questi istituti un insegnante mediamente è costretto a  lavorare anche sessanta o settanta ore settimanali.

Nondimeno i risultati non sono stati quelli attesi.  Secondo un’inchiesta finanziata dalla Walton family foundation,e condotta da Margaret Reymond, economista all’università di Standford e accesa sostenitrice, come ci informa le Monde Diplomatique, delle charter school: “Solo il 17 per cento di tali istituti presenta un livello superiore a quello delle scuole pubbliche di pari grado.”[1] E, guarda caso sono solo quelle frequentate da studenti provenienti da “…famiglie in grado di mobilitare maggiori risorse dal punto di vista scolastico[2]. Per tutte le rimanenti scuole il livello è decisamente basso. Ben il 69% degli alunni di terza media non sa leggere e scrivere in modo adeguato, il 68% è insufficiente in matematica, oltre il 20% lascia la scuola prima di aver conseguito un diploma.  Di fronte a un simile disastro persino l’ex viceministro dell’educazione dell’amministrazione Bush, Diane Ravitch, che pure era stata fra le più convinte sostenitrici della legge Nclb, ammette che: “ oggi osservando gli effetti concreti di queste politiche ho dovuto ricredermi…Nel gennaio 2009, quando l’amministrazione Obama salì al potere, ero convinta che essa avrebbe annullato la legge Nclb per ripartire su basi sane. Si è verificato il contrario: il nuovo governo ha abbracciato le idee e le scelte più pericolose dell’era di George W. Bush. Il programma dell’amministrazione Obama, battezzato “Race to the top” (Corsa verso la vetta), offre a Stati presi per la gola dalla crisi sovvenzioni per 4,3 miliardi di dollari. Per beneficiare di questa manna, essi devono sopprimere tutte le limitazioni legali all’installazione di charter schools. Così, la loro espansione va a realizzare quello che è sempre stato il sogno del businessman dell’educazione e dei partigiani del libero mercato, vale a dire lo smantellamento del sistema pubblico.”[3]

E gli Usa e l’Italia non sono un’eccezione. Riforme simili, mirate a smantellare la scuola pubblica, sono state o stanno per essere varate un po’ovunque. Per esempio in Gran Bretagna, se dovessero essere confermati i tagli annunciati dal ministro dell’economia George Osborne, rischiano di perdere il loro tanto decantato blasone perfino le prestigiose università di Oxford, Cambridge e St. Andrews. Infatti, verrebbero tagliati 105 milioni di sterline di fondi destinati alla ricerca sul cancro, che proprio in queste università ha i suoi centri di eccellenza.

Scuola e sistemi produttivi

In realtà, nel sistema capitalistico i sistemi scolastici sono stati sempre espressione delle esigenze del modo di produrre le merci e della circolazione del capitale. Uno sguardo al passato ce ne dà un’ampia conferma.

Il XIX° e XX° sono stati secoli in cui si è verificato uno sviluppo tecnico senza precedenti. Le varie rivoluzioni scientifiche, e le loro applicazioni, che si sono susseguite in questo periodo, hanno costantemente rivoluzionato l’intero modo di produrre. L’agricoltura ha perduto progressivamente  peso a favore dell’industria manifatturiera e più recentemente questa a favore del terziario.  Nella prima fase è stato il lavoro artigiano a essere scomposto nelle sue diverse fasi in modo che il frazionamento dei saperi fra molti lavoratori favorisse la specializzazione dei singoli favorendo la crescita della sua produttività.

Poi, con la nascita della grande industria, la gran parte di questi saperi è stata trasferita al sistema delle macchine su cui essa si basa. Di pari passo con questo sviluppo sono via via mutati anche i requisiti professionali richiesti alla forza-lavoro. L’operaio, che pur della macchina andava diventando sempre più una semplice appendice, per poterla far funzionare, doveva pur sempre saper almeno leggere e scrivere. Per progettarla necessitava un numero crescente di ingegneri e poiché con lo sviluppo del sistema delle macchina e della grande industria cresceva anche la produzione delle merci, al progressivo svuotamento di contenuti del lavoro dell’operaio ha corrisposto anche la nascita di nuovi saperi e di nuove mansioni. E la scuola, confermando con ciò il suo carattere classista, vi si è sempre adeguata.

Nella seconda decade del XIX secolo le persone di età compresa fra 15 e 65 anni ricevevano mediamente non più di 2 anni di istruzione e la maggior parte della popolazione era completamente analfabeta.  Basti pensare che i Principles di Ricardo ebbero una tiratura complessiva di 2.700 copie. Agli inizi del secolo scorso gli anni di istruzione erano saliti a 5-8 mentre oggi sono mediamente 12-18.

La scuola nell’epoca dei computer

Con la nascita della microelettronica, però, tutto è cambiato. Mansioni che un tempo richiedevano anni di formazione oggi vengono svolte dal sistema delle macchine per cui non il solo lavoro operaio ma tutto il lavoro, salvo alcune nicchie di alta specializzazione, è stato svuotato dei suoi contenuti e i saperi a esso connessi trasferiti al sistema delle macchine. Così sono stati resi superflui tecnici di media specializzazione quali i periti, i ragionieri, i geometri ecc.; di alta specializzazione quali alcuni profili di ingegneri, biologi, chimici e così. Con la microelettronica, quasi tutto il lavoro è stato, per dirla con Marx, trasformato in lavoro astratto per cui la gran parte del lavoro ormai consiste nella sola, semplice e alienante erogazione di forza-lavoro e i lavoratori in macchine umane intercambiabili fra di loro, puri venditori tempo. E poiché il tempo è la vita, in venditori della loro vita. Pertanto tutto il sistema formativo costruito precedentemente non è divenuto solo obsoleto, ma prevedendo necessariamente lo sviluppo di una certa capacità critica, anche estremamente pericoloso. E con l’erompere della crisi del terzo ciclo di accumulazione, anche economicamente insostenibile. L’attuale produzione capitalistica non ha più bisogno del contabile, con la sua conoscenza della partita doppia e di bilanci: può essere sostituito da un banale PC, peraltro più veloce di lui e meno costoso. Così non è più necessaria la precisione e la professionalità del tornitore in fabbrica a sua volta sostituibile da un robot che non sciopera, non si ammala e non contesta.  Ma anche di un numero sempre minore di progettisti, disegnatori industriali, di biologi molecolari e perfino di informatici.  A che serve, si chiede dunque il borghese, l’insegnamento del greco e del latino, della storia e della geografia, se non a mantenere quell’immenso esercito di fannulloni che costituisce il corpo degli insegnanti? A nulla. Ecco quindi il netto ridimensionamento delle risorse destinate alla scuola pubblica.

Il non certo incolto ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, commentando l’approvazione dell’ultima finanziaria, fatta quasi esclusivamente di tagli alla spesa pubblica e in particolare a quella per la scuola, ha sintetizzato al meglio quello che per il capitale è l’imperativo del momento dichiarando che: la cultura non si mangia. E dal suo meschino punto di vista ha ragione. In una società basata sul denaro, sul profitto, in cui ogni cosa o è merce o è nulla, la scuola altro non può essere che un centro di produzione di istruzione su come erogare quella che è la merce per eccellenza, la forza-lavoro.

D’altra parte, “La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale”. Tratta dall’ideologia tedesca di Karl Marx, mai definizione è stata tanto puntuale e attuale per spiegare bene che tipo di evoluzione o meglio di involuzione sta subendo l’intero mondo del sapere in questa società. Solo che si analizzi la questione da un preciso punto di vista di classe e quella che a molti appare come una scelta folle, mostra tutta la sua intrinseca coerenza con le esigenze di conservazione del sistema capitalistico. Quindi, come da qualche secolo addietro, non essendo più necessari saperi e istruzione alti e diffusi anche  l’accesso alla scuola  torna a essere privilegio di pochissimi. Negli Stati uniti ormai una scuola privata di eccellenza arriva a costare fino a 30.000 dollari all’anno per cui ne sono esclusi anche i figli di buona parte della piccola e media borghesia.

Di conseguenza, per la prima volta da molti secoli a questa parte, la mobilità sociale torna essere  bloccata e la trasmissione generazionale sempre più per caste che per capacità. E da  oltre un secolo a questa parte, per le giovani generazioni il futuro riserva un arretramento della loro condizione rispetto a quelle dei loro genitori. Ma un sistema che nega alle nuove generazione anche solo la promessa di un futuro migliore e in cui il futuro diventa sempre una minaccia, non è degno di perire? [4]

Gaetano Fontana



[1] Diane Ravitch – A che cosa serve l’educazione secondaria ? – Le Monde Diplomatique ottobre 2010.

[2] Ib.

[3] Ib.

[4] Sulle devastanti conseguenze che derivano dal  futuro che  da promessa si fa minaccia vedi: U. Galimberti – L’ospite inquietante . – Ed. Feltrinelli – feb. 2008