«Die Aufhebung der Arbeit». Attualità e prospettive del superamento del lavoro

Creato: 14 Marzo 2020 Ultima modifica: 14 Marzo 2020
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Dalla rivista D-M-D' N°14

Il superamento del lavoro (Die Aufhebung der Arbeit) è un tema centrale per ripensare la trasformazione radicale dell’attività umana in una società comunista. Questo contributo si propone di rimetterlo oggi a tema, nella consapevolezza che possa rappresentare un asse fondamentale attorno cui approfondire la riflessione sulla dialettica tra necessità e libertà, sulle modalità di relazione uomo-natura e sulle stesse forme di razionalità dominanti.

… die kommunistische Revolution sich gegen

die bisherige Art der Tätigkeit richtet, die Arbeit beseitigt...

… la rivoluzione comunista si rivolge

contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro…

(K. Marx, F. Engels)

Lavoro: dalla dannazione al superamento

derarbeitQuando si prospetta l’effettivo statuto della «libertà» nel comunismo, il tema del lavoro è necessariamente centrale, per l’importanza che assume nella vita degli individui e della società umana.

Il lavoro è una forma determinata dell’attività umana in generale, e delle forme di attività produttive in particolare.

Dalle sue origini è connesso alla mancanza e alla sofferente attività necessaria per porvi rimedio.

Lavoro, in greco (πόνος, pònos), rimanda sia a penuria che a pena. Operaius, in latino, è uomo di pena. Lavoro è sempre sofferenza[1]. «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra»: così Yahweh ammonisce l’Adam nel mito di Genesi (Gn 3:19).

Non si tratta naturalmente del semplice dispendio di energie legato a ogni attività, che sia scrivere una poesia, curare una rosa, giocare con un bambino o passeggiare in riva al mare.

Al labor si lega qualcosa di specifico: quella disperante fatica data dal vincolo, dall’oppressione, dal fatto che gli obiettivi posti al proprio agire siano determinati da un’autorità altra ed esterna, una necessità contrapposta alla nostra libertà. Nella sua antica radice in sanscrito c’è rabh (poi labh), che «sembra avere il senso proprio di afferrare e quello figurato di volgere il desiderio, la volontà, l’intento, l’opera a q.c., che è quanto dire agognare, intraprendere, ottenere, impossessarsi»[2]. Rabh-ate è agire violentemente, furiosamente. È radice di rabbia. Da rabh al gotico arbh, per attestarsi in tedesco come Arbeit, che in slavo diventa matrice di tutti i termini che rimandano all’attività servile.

Si pone allora la questione: la produzione, il ricambio organico con la natura, l’attività dell’uomo per soddisfare i suoi bisogni, può dirsi ancora “lavoro” nel comunismo?

La complessità e l’ambivalenza del concetto stesso di “lavoro”, che riecheggia nel suo etimo, solo dialetticamente può trovare una possibilità di lettura, e con essa quella di comprendere che cosa possa significare il superamento del lavoro in quanto dannazione, senza favoleggiare di abolizione di ogni attività produttiva che risponda ai bisogni degli uomini.

“Aufheben”: un concetto dialettico                     

Denunciando il lavoro estraniato, nei suoi manoscritti del 1844, Marx mette in evidenza che in tale forma il lavoro non consente al proletario di affermarsi, di sviluppare le proprie potenzialità fisiche e spirituali. Al contrario, l’uomo lavoratore viene da esso sacrificato, negato. Gli si strappa la sua stessa umanità, che attraverso l’attività produttiva dovrebbe invece potersi estrinsecare.

L’attività degli uomini viene degradata a un mezzo, perdendo la sua specificità appunto umana di essere libera e cosciente. Attraverso la sua attività l’uomo dovrebbe invece trovare la possibilità effettiva di realizzare se stesso, affermando la propria libertà ed esprimendo a pieno le proprie potenzialità[3].

Questo non può darsi dove il lavoro è stretto nelle maglie di un regime di sfruttamento, dominio e alienazione. Ma la questione non è “liberare il lavoro”. Le chiacchiere borghesi su “la dignità del lavoro”, “il lavoro libero”, “il lavoro che è realizzazione e soddisfazione” sotto il capitalismo sono tanto più odiose quanto più mistificano una realtà di radicale de-umanizzazione ed estraniazione.

Scrivono Marx ed Engels che «mentre i servi della gleba fuggitivi … volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro»[4].[…] «Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo»[5].

“Abolire” il lavoro, dunque. Cosa che comunque può apparire contraddittoria con la natura di un’attività produttiva che, di per sé, è l’unica vera possibilità per gli uomini di essere effettivamente umani. Il concetto è tuttavia diverso dalla mera “abolizione”, e la traduzione non può renderlo.

Marx parla, in più punti dei suoi scritti, di «Aufhebung»[6] del lavoro. Si tratta di un termine centrale nella teoria dialettica. È quel momento in cui due opposti trovano un superamento che non è semplice abolizione, ma una negazione che conserva ciò che è negato (che anzi lo determina[7]), e che li porta a un piano ulteriore (superiore).

Hegel spiega con chiarezza il carattere dialettico del termine:

«Aufheben da un lato vuol dire togliere, negare, e in tal senso diciamo ad es. che una legge, un'istituzione ecc. sono soppresse, superate (aufgehoben). D'altra parte però aufheben significa anche conservare, e in questo senso diciamo che qualcosa è ben conservato mediante l'espressione: wohl aufgehoben. Quest'ambivalenza dell'uso linguistico del termine, per cui la stessa parola ha un senso negativo ed uno positivo non deve essere considerata casuale, né addirittura se ne deve tratte motivo di accusa contro il linguaggio, come se fosse causa di confusione; al contrario, in quest'ambivalenza va riconosciuto lo spirito speculativo della nostra lingua che va di là della semplice alternativa “o – o” propria dell'intelletto»[8].

Un’ulteriore chiarificazione viene da Heidegger, che spiega il significato di aufheben come «mettere qualcosa su…» (come il «mettere un libro sul tavolo per guardarlo»), perché «l’atto fondamentale della dialettica è in effetti dapprima quello di far apparire gli opposti, per vederli». Una volta vista «la contrapposizione dei due opposti, allora aufheben significa: elevarli (erheben) alla loro unità. La loro unità è come un arco che si tende più alto dei due opposti uno di fronte all’altro, e in questo senso aufheben sarebbe il latino elevare. Aufheben significa “custodire”, “conservare”, “mettere in un luogo sicuro”». Si prosegue dunque indicando che «questa custodia si realizza nell’identità assoluta, in cui gli opposti restano conservati, invece di scomparire come facevano le vacche nella notte dell’identità schellinghiana». Il significato non è dunque mai negativo, non si può ridurre a mera “abolizione” ma un «appropriarsi elevando alla sua unità»[9].

Concetto problematico, ricco di implicazioni e oggetto di innumerevoli discussioni critiche[10], torna qui utile per comprendere - oltre la vulgata “lavorista” e quella “antilavorista” - la prospettiva di superamento del lavoro-dannazione e di affermazione della possibile configurazione dell’attività produttiva in termini autenticamente umani, come attività non coatta che manifesta la specificità dell’uomo in quanto libero e cosciente.

L’Aufhebung del lavoro esprime il concetto e il processo attraverso cui:

- si possono negare i caratteri servili, coatti, di pena, di sfruttamento e dominio tipici del lavoro alienato;

- si può conservare l’aspetto produttivo insito nell’attività propriamente umana di trasformazione della realtà e di sé;

- si riconfigura il concetto e la natura dell’attività produttiva degli uomini, su un livello ulteriore, più elevato.

Una prospettiva che muta?

Lo studio degli scritti di Marx suggerisce che, dai Manoscritti giovanili fino ai Grundrisse, permane sempre l’idea dell’Aufhebung del lavoro (nella società comunista), tradotto correntemente come “abolizione del lavoro” anche se, come si è sottolineato, la resa è imprecisa.

Nel Capitale (libro III) la prospettiva sembra mutare. In un celebre passaggio, Marx scrive:

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mani che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa»[11].

Deve intendersi come accantonata ogni possibilità di andar oltre ogni residuo di lavoro-pena, potendo al più ridurre radicalmente il tempo da dedicarvi?

Il ricambio organico con la natura, quindi il soddisfacimento dei bisogni, chiaramente essenziale all’uomo, resta tutto interno al regno della necessità. E non può essere abolito. Certo cambia in maniera profonda, diventa finalmente consapevole, dignitoso, razionalmente regolato, ma non è un’attività pienamente libera. La vera libertà, piena manifestazione dell’autoaffermazione umana fine a se stessa, è solo al di là del ricambio organico con la natura, comunque sia organizzato – anche comunisticamente. Il regno della necessità è la base che consente alla libertà di dispiegarsi, ma non è possibile accantonarlo in quanto tale.

Ma questo può davvero significare che resta, in seno al comunismo, il “lavoro-dannazione”?

Non manca la letteratura che ha tentato di sviscerare questo punto, nei termini più vari, restando all’interno di un approccio esegetico e marxologico. Con questo contributo intendiamo invece proporre una reimpostazione della questione, non vincolandoci al mero approfondimento testuale.

È possibile rendere fine a se stesso e libero il lavoro necessario?

Nei Grundrisse, Marx fa l’esempio del lavoro artigianale medievale: per metà tale lavoro è artistico, e dunque, in questa misura, fine a se stesso. Uri Zilbersheid, nel suo “L’abolizione del lavoro nell’insegnamento di Marx”[12], lo indica come una delle più significative tracce, nei testi di Marx, rispetto a questo problema.

L’arte è dunque un esempio di attività fine a se stessa. Un’attività non strumentale: in questo Zilbersheid, facendo riferimento alle puntualizzazioni a riguardo di Adorno e Horkheimer, individua la chiave della questione. Un’attività produttiva che, nel caso dell’artigianato medievale, è in più capace di essere produttiva e non solo legata all’estetica.

Ciò non avviene invece per il gioco (preso a modello da Fourier per l’Aufhebung del lavoro), che è sì attività non strumentale ma non è produttiva.

Marx osserva: «che del resto lo stesso tempo di lavoro immediato non possa rimanere in astratta antitesi al tempo libero - come si presenta dal punto di vista dell'economia borghese - si intende da sé. Il lavoro non può diventare gioco, come vuole Fourier, al quale rimane il grande merito di aver indicato come obbiettivo ultimo la soppressione [Aufhebung] non della distribuzione, ma del modo di produzione stesso nella sua forma superiore. Il tempo libero - che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori - ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato»[13].

Scrive Zilbersheid che Marx «elogia Fourier per aver espresso l’idea del “superamento (Aufhebung)… del modo di produzione stesso in una forma superiore”. Per quanto il termine tedesco “Aufhebung” significhi sia “abolizione” che “superamento”. Marx qui gioca con le parole, affermando che l’abolizione del lavoro non è l’abolizione della produzione, quanto la soppressione di un modo di produzione, e lavoro, inferiore, a vantaggio della creazione di una più alta forma di produzione, non basata sul lavoro»[14].

Il lavoro, attività produttiva strumentale, può venir superato in direzione di un’attività non strumentale, ma che sia produttiva, come l’arte, e che come quest’ultima sia libera e manifestatività di se stessi, della propria umanità. Quello dell’arte è esempio e modello, un segnale, un’indicazione che è possibile superare il lavoro, e che il comunismo è tutt’altro che il regno del “lavoro-pena”.

Questa prospettiva riconosce la non unicità della razionalità strumentale, dell’orizzonte tecnico proprio del sistema macchinico, delle forme in cui si è oggi storicamente dato il ricambio organico tra uomo e natura.

Tutto lo schema fondato sull’idea di gestire collettivamente il lavoro in forme più umane, di estendere la razionalità strumentale a ogni aspetto della vita associata, di generalizzare la “proprietà” e la gestione dei mezzi di produzione così come sono, di distribuire senza ingiustizie i “prodotti” in virtù del loro “uso”, prescindendo da cosa sia generato e a cosa sia finalizzato, è un fraintendimento della reale portata storica dell’autoemancipazione comunista dell’umanità. Come scriveva appropriatamente K. Korsch, «il difetto del socialismo dottrinario e utopistico consiste nel fatto che esso, nel tentativo di raffigurare una futura condizione socialista, inconsapevolmente assume un’immagine senza ombre dell’attuale società reale, che nella sua concretizzazione e realizzazione riproduce inevitabilmente questa vecchia forma sociale borghese»[15]. A causa dello stalinismo, il futuro comunista è stato poi ancor peggiormente identificato con un’immagine della società attuale reale, nella quale le ombre restano lugubri e avvolgenti.

In Eros e civiltà, Marcuse propone una riflessione su questo tema che, per quanto complessivamente non condivisibile, ha un focus teorico interessante. L’autore ragiona del progresso al di là del “principio di prestazione” (espressione con cui intende «la forma storica prevalente del "principio della realtà"»[16]), sostenendo che « non viene promosso migliorando o completando l'esistenza presente con l'aggiunta di un po' più di contemplazione, un po' più di tempo libero, propagandando e praticando “valori superiori”, elevando se stessi e la propria vita. Sono idee che appartengono all'economia culturale dello stesso principio di prestazione. Le lamentele sull'effetto degradante del “lavoro totale”, le esortazioni ad apprezzare il bene e le bellezze di questo mondo e di quello dell'al di là, sono esse stesse un fenomeno repressivo in quanto riconciliano l'uomo col mondo del lavoro, lasciando il mondo del lavoro tale e quale. Inoltre rendono un servizio alla repressione facendo divergere lo sforzo proprio da quella sfera nella quale la repressione ha le sue radici, e dove essa si perpetua.

Al di là del principio di prestazione, la sua produttività ed anche i suoi valori culturali perdono la loro validità. La lotta per l'esistenza si svolge su un terreno nuovo e con obiettivi nuovi: essa si trasforma nella lotta concertata contro ogni restrizione del libero gioco delle facoltà umane, contro la fatica, la malattia, la morte. […] Una nuova esperienza fondamentale dell'essere cambierebbe l'esistenza umana nella sua totalità»[17].

Quello che è davvero degno di riflessione è l’accento che viene qui suggerito sulla possibilità di prospettare, oltre la sfera delle attività finalizzate a scopi determinati, attività fini a se stesse che non siano strutturate, pensate, immaginate all’interno dei confini generati dalla risposta alla necessità. Si tratta di una trasformazione profonda, che inevitabilmente finisce per investire a sua volta anche quella sfera di attività necessarie.

Superare il lavoro o riorganizzarlo?

La prospettiva dell’Aufhebung del lavoro sembra, come si anticipava, scomparire negli scritti più maturi di Marx, nei quali il lavoro - “attività conforme allo scopo” - viene presentato come «condizione naturale dell’esistenza umana ... una condizione del ricambio organico fra uomo e natura»[18]. La produzione quindi è strumentale o non è. Secondo la ricostruzione di Zilbersheid, si assiste poi a una ripresa e riabbandono continui dell’Aufhebung del lavoro. Emergerebbe invece l’idea, nel Capitale, della possibilità di una organizzazione comunista del lavoro, dove carattere strumentale e aspetto autoaffermativo si coniugano in un unico ridefinirsi del lavoro.

Zilbersheid attribuisce il cambio di prospettiva alla consapevolezza che Marx avrebbe raggiunto rispetto alla tecnologia moderna: «nel capitolo tredicesimo del primo libro del Capitale, “Macchine e grande industria”, Marx ha esaminato la struttura del moderno macchinario, la natura delle innovazioni tecnologiche, e la funzione del tempo – anzi l’intero carattere della tecnologia. Si direbbe che Marx e Engels abbiano concluso che la moderna tecnologia comporti un carattere strumentale il quale non può sostanzialmente essere cambiato. con “carattere strumentale della tecnologia” intendiamo che il criterio più rilevante nella moderna tecnologia è quello dell’efficienza. I macchinari sono costruiti secondo tale criterio, considerato che servono alla produzione strumentale come mezzi, e come tutti i mezzi sono misurati secondo la loro efficienza. La tecnologia moderna, questa immensa conquista dell’umanità, è scaturita direttamente dalla produzione strumentale. Pertanto, essa è intrinsecamente strumentale e non può non evolvere come tale»[19].

L’esegesi puntuale dei testi di Marx, che Zilbersheid porta avanti con ampi riferimenti, sostanzialmente sembra mostrare un’oscillazione tra due posizioni, una dalla giovinezza e che resiste fino ai Grundrisse (superamento dialettico del lavoro), un’altra attestata nel Capitale (riorganizzazione del lavoro, condizione eterna e naturale dell’esistenza umana, insuperabile a fronte di un carattere integralmente e irrinunciabilmente strumentale della tecnologia moderna, a sua volta condizione irrinunciabile di ogni attività umana contemporanea di ordine produttivo).

La questione che qui ci preme, come dicevamo, non è l’analisi testuale. È chiederci se la prospettiva dell’Aufhebung del lavoro sia oggi ripensabile come uno degli assi centrali della teoria comunista. Se a partire da questo problema, inoltre, sia possibile fecondamente interrogarsi sulla natura della stessa ragione strumentale, che dal Novecento ad oggi ha dato prova di un’intrinseca aderenza all’impianto complessivo delle forme di esistenza proprie della società capitalistica, caratterizzata da sfruttamento, dominio e alienazione.

Il lavoro nel... regno della libertà

Non si può pertanto trattare semplicemente di strappare i mezzi di produzione agli agenti del Capitale e trasferirli in mano alle donne e agli uomini che lavorano, e di riorganizzare la produzione e la distribuzione. La rivoluzione comunista è davvero totale perché supera le forme stesse del lavoro per come si è dato sinora: muta radicalmente l’attività con cui gli uomini rispondono ai propri bisogni, rendendola razionale, consapevole, non coatta, ridotta nei tempi all’essenziale.

Conserva del vecchio lavoro il fatto di esser produttiva per soddisfare i bisogni umani ma non ne conserva più alcun aspetto servile o comunque dis-umano.

La rivoluzione comunista apre poi, soprattutto, alla piena manifestazione dell’umano, attraverso l’attività libera, fine a se stessa.

La proposta teorica che avanziamo è quella di mettere in dialogo il concetto di Aufhebung del lavoro con la dialettica tra il regno della necessità e il regno della libertà che Marx presenta nel III Libro del Capitale.

L’obiettivo è aprire al ripensamento dello stesso nesso tra libertà e necessità, come territorio di riflessione che richiede una nuova tematizzazione nella teoria comunista, ridinamizzando un rapporto che:

- da una parte è stato inchiodato a una interpretazione riduttivistica del richiamo di Engels (Antidühring) a Hegel, secondo cui la libertà è la verità della necessità,

- dall’altra che ha visto l’ancoraggio a una ipertrofica “necessità”, vera e propria struttura metafisica che vuole ridurre a utopia ogni prospettiva di emancipazione radicale degli uomini, «in omaggio al common sense reazionario»[20].

Di innegabile fecondità uno spunto, pur problematico, offerto in tal direzione da Adorno e Horkheimer:

«Elevando la necessità a “base” per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito - alla maniera idealistica - a vetta suprema, esso [il “socialismo”] ha conservato troppo rigidamente l'eredità della filosofia borghese. Cosi il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe puramente quantitativo, meccanico, e la natura, posta come affatto estranea, come nella prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme col socialismo»[21].

Che i due filosofi includessero nel “socialismo” l’esperienza drammatica dello stalinismo e della socialdemocrazia del Novecento rappresenta un insormontabile vizio dell’intera argomentazione. Tuttavia quel che è interessante in questa sede non perde di rilievo. Se il regno della necessità e quella della libertà sono tra di loro relazionati rigidamente, nella misura in cui più si riduce la sfera dell’attività necessaria e più si amplia quella della libertà, se la prima è ricambio organico con la natura che viene interpretato in modo riduttivo come dominio di quest’ultima, l’autentica potenzialità di emancipazione e liberazione propria del comunismo verrebbe indebolita e compromessa.

La portata è ulteriore. E può muovere proprio dal passaggio in cui sembra che Marx rinunci ad affrontare in termini davvero radicali la questione del superamento del lavoro.

Superare il “lavoro”, trasformare la produzione materiale

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna». Non può non permanere un’attività produttiva che sia finalizzata a soddisfare i bisogni che gli uomini esprimono. Le finalità di quest’attività sono stabilite non dall’individuo, ovviamente, ma dai processi di definizione che saranno propri di una società comunistica. Resta un’attività determinata dalla necessità.

Nello specifico si tratta appunto della «sfera della produzione materiale vera e propria».

Nella puntualizzazione che Marx sviluppa nel libro III del Capitale, però, pur precisando che il “vero” regno della libertà è al di là di questa sfera, dice anche un’altra cosa, che a nostro avviso è centrale.

«La libertà in questo campo [della produzione materiale, del lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna] può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa».

Ora, pur distinguendo tra il regno della necessità e quello della libertà, viene chiaramente scritto che esiste anche nel regno della necessità un certo grado di libertà, una certa libertà. Non è piena, non è la libertà vera e propria e nel senso più pieno, ma esiste una qualche libertà.

Essa consiste in:

- una regolazione razionale del ricambio organico con la natura; un aspetto che apre a sua volta altre questioni che meritano in altra sede una riflessione: quale razionalità? Come muta il rapporto con la natura? Si può andare oltre l’idea tradizionale del dominio della natura da parte dell’uomo?

- Che il controllo di tale ricambio organico sia effettuato dal comune controllo degli individui liberamente associati fra loro. Cessa il dominio della “forza cieca” che caratterizza la società di classe: una questione essenziale. L’organizzazione stessa dell’attività umana, finalizzata al soddisfacimento dei bisogni, in seno al comunismo, diventa fattore e spazio di libertà, per quanto ancora relativa. Inoltre, un altro aspetto di grande rilevanza teorica: il dominio della “forza cieca” sopravvive nell’autorità del sistema delle macchine?

Engels scrive nel Dell’autorità: «l'automata meccanico di una grande fabbrica è molto più tiranno, come non lo sono mai stati i piccoli capitalisti che impiegano operai. Almeno per le ore di lavoro si può scrivere sulla porta di queste fabbriche: Lasciate ogni autonomia, voi ch'entrate! Se l'uomo con la scienza e il genio inventivo sottomise le forze della natura, queste si vendicarono su di lui sottomettendolo, mentre egli le impiega, ad un vero dispotismo, indipendente da ogni organizzazione sociale. Voler abolire l'autorità nella grande industria, è voler abolire l'industria stessa, distruggere la filatura a vapore per ritornare alla conocchia»[22].

Tuttavia quanto sia problematico assumere senza ulteriore passaggio critico l’autorità tecnica del sistema macchinico è assolutamente evidente, soprattutto dopo aver attraversato il Novecento.

«Ci si guarda bene», così Adorno e Horkheimer, «dal dire che l’ambiente in cui la tecnica acquista il suo potere sulla società è il potere di coloro che sono economicamente più forti nella società stessa. La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto, se cosi si può dire, della società estraniata a se stessa»[23].

Non si apre però forse in questo passaggio di Marx sui regni di necessità e libertà la suggestione della possibilità che gli uomini, liberamente associati nel comunismo, possano dare e riconoscere spazio ad altre forme di razionalità oltre quella strumentale? Possibilità ulteriori, che possano rimettere in discussione i termini della relazione di subordinazione nei confronti della logica stessa dell’apparato macchinico, che con l’informatica, la robotica e l’intelligenza artificiale sta acquisendo contorni che chiedono con forza il rifiuto di ogni prospettiva che lo assuma come scontato così com’è? Una della sfide principali che abbiamo di fronte è proprio in quest’ordine di problemi.

- Che questo lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna sia ridotto al minimo tempo possibile, impiegando meno energie possibile.

Già Marx ai suoi tempi, scrivendo del sistema macchinico, dopo aver premesso che «il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana»,  poteva sottolineare:

«Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato»[24].

Gli attuali livelli di automazione, inimmaginabili nella seconda metà dell’Ottocento, schiacciano davvero a quote residuali il lavoro necessario.

- Che le condizioni in cui si realizzi rispondano alla natura umana. Affinché le condizioni del lavoro siano rispondenti alla natura umana, devono consentire precisamente che l’attività degli uomini stessi sia oggetto della loro volontà e della loro coscienza, come evidenziato nei Manoscritti del 1844 da Marx. Cioè che non sia un’attività determinata da vincoli esterni, ma libera, tanto da poter essere persino strutturata secondo bellezza[25] e non solo secondo criteri di utilità, strumentalità rispetto a fini determinati ecc.. Torna il paradigma dell’arte come esempio di libertà nell’attività umana. E non è forse possibile pensare che nel comunismo la stessa attività produttiva materiale sia contaminata, mutata, riorientata anche da modalità altre dalle uniche attualmente concepibili?

D’altronde il modo di produzione nuovo, dopo il capitalismo, reso possibile dallo sviluppo universale delle forze produttive cui tende il capitale («sebbene limitato per la sua stessa natura»), è caratterizzato, proprio in virtù di questa sua premessa storica e tecnica, dal fatto di non essere «basato su uno sviluppo delle forze produttive inteso a riprodurre e tutt'al più ad ampliare una situazione determinata». Per la natura che gli sarà propria, se si darà, il nuovo modo di produzione ha nello «sviluppo libero, articolato, progressivo e universale delle forze produttive» la «premessa stessa della società e perciò della sua riproduzione». Si determina quindi una situazione nella quale nel modo stesso di produzione «l'unica premessa è il superamento del punto di partenza»[26].

Non è dunque pensabile nessuna staticità nell’ambito delle caratteristiche del “lavoro necessario”; necessariamente saranno al contrario costantemente in mutazione. Non si tratterà dunque di mera riduzione dell’orario da dedicarvi. Sin da subito, ma soprattutto a partire da un certo grado di sviluppo del comunismo tale per cui il tempo da impegnare all’attività produttiva sarà già minimo o pressappoco tale, si supererà continuamente il punto di partenza, ridefinendo senza sosta il “che cos’è” un’attività produttiva necessaria.

Impensabile, al pari, prendere così com’è oggi il lavoro necessario e stabilizzarlo nelle sue condizioni e forme sub specie aeternitatis, come eterne e date ontologicamente.

Il capitale è da intendere come «semplice punto di transizione»[27], proprio perché porlo in questi termini è posto dalla stessa forza di «questa tendenza — che è propria del capitale, ma che al tempo stesso rappresenta una contraddizione col capitale in quanto forma di produzione limitata, e perciò spinge alla sua dissoluzione»[28].

Il fatto che l’uomo «produce universalmente», non solo, come fa l’animale «sotto il dominio del bisogno fisico immediato», ma anche «libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo», potendo, come si diceva supra, persino produrre secondo bellezza, segnala che la vera produzione umana è in effetti quella oltre il bisogno fisico; in qualche misura si può proiettare questa considerazione investendo l’intera sfera del bisogno.

Nell’ambito della produzione materiale, del lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna, quindi, siamo comunque in presenza di una forma di libertà, parziale certo, ma che non giustifica di considerare nel suo seno il lavoro come la dannazione che è il lavoro alienato.

Sarà superata la sua forma alienata, la sua divisione, la sua natura di pena e sofferenza.

Termini e questioni esegetiche a parte, siamo a tutti gli effetti dinanzi a una forma di Aufhebung del “lavoro”, in vista di un’attività certo produttiva e non fine a se stessa, ma del tutto irriducibile a quello che “lavoro” significa oggi. Si può certo assumere come evidente che con le attività umane cambierà anche il linguaggio degli uomini, e tutto ciò che implica, e si daranno parole per intendere un’attività produttiva finalmente umana.

Il “vero regno della libertà” è oltre questa sfera: è l’autorealizzazione di ogni individuo mediante la piena manifestazione della propria “umanità”, una libera e consapevole relazione autotrasformativa / trasformativa con il mondo (con se stesso, gli altri, la natura…) del tutto fine a se stessa.

Questo regno tuttavia non è staticamente oltre quello della necessità, né la questione è meramente “quantitativa”: meno tempo in una sfera, più tempo in un’altra.

Gli uomini, individui in carne e ossa, mente e cuore, liberamente associati tra loro, modificheranno i loro bisogni, le modalità con cui produrranno, i loro desideri, le forme del loro stare assieme, le possibilità di espressione e manifestazione di sé. Lo sviluppo del “vero regno della libertà” parte dalla base del regno della necessità, che diventa comunque caratterizzato da una “certa” libertà. Ma poi, inevitabilmente, consentendo agli uomini di trasformarsi in una direzione pienamente umana e mai sperimentata nella storia, retroagisce sulla stessa sfera dell’attività produttiva materiale[29]. Non solo potrà essere ridotta e razionalizzata il più possibile, ma potrà modificarsi progressivamente tanto da mettere in discussione i termini assoluti con i quali oggi tendiamo a concepire l’“autorità” dell’apparato tecnico, l’eterodirezione e l’eterofinalità dell’attività produttiva, la natura meramente strumentale della sua logica e razionalità, il profilo dominatore nella relazione con la natura.

Sono queste traiettorie teoriche che non è possibile né sensato condurre fino alle famose ricette per “l’osteria dell’avvenire”[30], la cui prescrizione resta al di fuori del potere di chi pensa oggi.

Ma è sulla riapertura di questi temi, riteniamo, che si gioca un aspetto di primo piano di ogni teoria contemporanea della transizione dal capitalismo al comunismo.

In una delle sue più belle pagine sulla possibile società umana di domani, Marx scrisse che il comunismo è la «reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo», il «ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi». Il comunismo vi viene presentato come «la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie». Questa visione ridisegna la cosa stessa. Spinge a confrontarsi con il superamento delle dicotomie libertà-necessità o uomo-natura. Comporta, infine, l’esigenza di muovere lo sguardo al di là degli angusti confini tracciati dai punti cardinali delle società di classe[31].

[1]                             Cfr. M. Godelier, “Lavoro”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1979, vol. VIII, pp. 31 e ss.

[2]                             “Lavoro”, in Vocabolario etimologico della lingua italiana di O. Pianigiani, etimo.it.

[3]                             Cfr. ad es. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 278-279 e Id., Note su James Mill, in Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 210-211.

[4]                             K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 56-57.

[5]                             Ivi, p. 187.

[6]                             “Aufhebung” è  sostantivo, “aufheben” voce verbale.

[7]                             M. Maurizi, Adorno e il tempo del non-identico: ragione, progresso, redenzione, Jaca Book, Milano 2004, p. 35.

[8]                             G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Parte prima: Scienza della logica, Utet, Torino  2004, pp. 280-281.

[9]                             M. Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano 1992, pp. 77-78.

[10]                           La letteratura a riguardo è sterminata. Cfr. a titolo esemplificativo e per maggiore attinenza alle problematiche più prossime alla nostra riflessione: T.W. Adorno, Dialettica Negativa, Einaudi, Torino 2004; H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2017; J. Derrida, “Nous autres Grecs”, in AA.VV., Nos Grecs et leurs modernes, Éditions du Seuil, Parigi 1992; H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001; R. Kurz, “Tabula Rasa. Wie weit soll, muss oder darf die Kritik der Aufklärung gehen?”, Krisis n. 27, Novembre 2003; R. Kurz, N. Trenkle, “Die Aufhebung der Arbeit. Ein anderer Blick in das Jenseits des Kapitalismus”, tr. it. www.krisis.org/1999/il-superamento-del-lavoro.

[11]                           K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, vol. III, sez. VII, cap. 48, p. 933.

[12]                           U. Zilbersheid, L’abolizione del lavoro nell’insegnamento di Marx, https://libcom.org/library/abolition-labour-marxs-teachings-uri-zilbersheid, trad. it. https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/04/14/labolizione-del-lavoro-nellinsegnamento-di-marx/.

[13]                           K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1968-70, II vol. p. 411.

[14]                           U. Zilbersheid, L’abolizione del lavoro nell’insegnamento di Marx, cit..

[15]                           K. Korsch, Karl Marx, Laterza, Bari 1969, p. 35.

[16]                           Il principio di realtà muta nelle sue forme storiche, secondo Marcuse, in virtù dei vari modi di dominio (di uomo e natura); dietro tale principio «sta il fatto fondamentale dell'Ananke o penuria ("Lebensnot"), e ciò significa che la lotta per l'esistenza si svolge in un mondo troppo povero per poter soddisfare i bisogni umani senza continue limitazioni, rinunce e differimenti. In altri termini quel tanto di soddisfazione che è possibile raggiungere necessita "lavoro", un adattamento più o meno doloroso, e attività per procurare i mezzi atti a soddisfare i bisogni. Per tutta la durata del lavoro, che praticamente occupa l'intera esistenza dell'individuo maturo, il piacere è “sospeso” e predomina la pena. E poiché gli istinti fondamentali lottano per il predominio del piacere e per l'abolizione del dolore e della pena, il principio del piacere è incompatibile con la realtà, e gli istinti devono sottomettersi a un regime repressivo. Ma questo argomento che compare spesso sull'orizzonte della metapsicologia di Freud, è fallace in quanto applica al "fatto" bruto della penuria ciò che effettivamente è la conseguenza di un'"organizzazione" specifica della penuria e di un atteggiamento esistenziale specifico imposto da questa organizzazione. Durante tutto il corso della civiltà il bisogno prevalente fu sempre organizzato (anche se in forme molto diverse) in modo tale da non distribuire mai collettivamente la penuria a seconda delle necessità individuali, così come la conquista dei beni necessari alla soddisfazione dei bisogni non fu organizzata con l'obiettivo di soddisfare nel modo migliore le necessità degli individui, man mano che esse si sviluppano. Al contrario la "distribuzione" della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro, sono stati "imposti" agli individui – dapprima con la violenza pura, più tardi con un'utilizzazione più razionale del potere. Ma per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell'insieme, essa rimase una razionalità del "dominio", e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi. Il dominio è ben diverso dall'esercizio razionale dell'autorità». H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 80-81.

[17]                           Ivi, p. 182.

[18]                           U. Zilbersheid, L’abolizione del lavoro nell’insegnamento di Marx, cit.; cfr. Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, vol. I e Il Capitale, Libro I.

[19]                           U. Zilbersheid, cit..

[20]                           T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 48.

[21]                           Ibidem.

[22]                           F. Engels, Dell’autorità (1872) https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1872/autorita.htm

[23]                           T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell'Illuminismo, cit., p. 127.

[24]                           Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., II volume, “Frammento sulle macchine”, pp. 389-411.

[25]                           Cfr. K. Marx, “Il lavoro estraniato”, in Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1970, p. 79.

[26]                           K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., II volume, p. 182.

[27]                           Ibidem.

[28]                           Ibidem.

[29]                           Cfr. anche il già citato passo su Fourier e il gioco dei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (p. 411).

[30]                           Per la celebre espressione v. il “Poscritto alla seconda edizione” de Il Capitale.

[31]                           K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 111.