La newco di Mirafiori e un medioevo “prossimo venturo” già attuale

Creato: 27 Gennaio 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2512

Se dovessimo ricorrere alla categoria del “ribaltamento di senso” per riassumere la vicenda FIAT, ebbene, non potremmo non avvalerci delle teorizzazioni di Eugenio Scalfari che in un suo recente articolo su “La Repubblica” quasi invoca che “ la classe operaia deve tornare in paradiso” -

laddove, vien da chiedersi, se ci sia mai stata – e che costituiscono l’espressione illuminante di una distanza siderale tra la situazione oggettiva e le varie ricette che i “maitres à penser” del pensiero liberale ammanniscono, forse per cercare di diluire o esorcizzare il disagio sociale montante, forse per alimentare illusioni più che vacue, certamente per difendere gli interessi della classe di cui, da sempre, sono paladini indefessi.

La cacofonia di voci si fa più stridente se a ciò si assommano i peana innalzati, da più parti, ad un “eroe moderno” quale è considerato Marchionne all’interno di una visione che, avvalendosi di qualifiche fluide e manipolabili, tende a far passare per “modernizzazione” una sostanziale feudalizzazione dell’industria con annessa affermazione del primato del lavoro servile e per “conservatorismo” il tentativo degli operai di rimanere abbarbicati ad un privilegio (!) chiamato lavoro.

Forse la cifra più autentica di tale modernizzazione è esemplificata da un “accordo storico”, cioè un piano industriale che è consistito in uno striminzito comunicato stampa di una sola pagina e sul quale sono state chiamate a pronunciarsi le maestranze attraverso un referendum che ha visto un pronunciamento dei “sì” pari al 54,05% e quello dei “no” attestatosi al 45,95%.

Distinguere tra chi ha vinto e chi ha perso è operazione forviante: hanno perso i lavoratori che, secondo Massimo Mucchetti del Corsera, sono stati scaraventati all’indietro, a ciò che erano i braccianti all’inizio del ‘900.

I termini dell’accordo

I contenuti, in pillole, dell’intesa spaziano dalla “clausola di responsabilità individuale” alla riduzione delle pause, dalla più stringente regolamentazione della malattia al cosiddetto monitoraggio dell’assenteismo col contentino finale dell’iperbolica cifra di 3.600 euro lordi in più all’anno laddove l’azienda abbia bisogno di far ricorso allo straordinario.

Andando ad analizzare, più da vicino e sinteticamente, le clausole di questo accordo, ciò che traspare è la dimensione peggiorativa dello “status” dei lavoratori.

La troviamo nella turnazione del lavoro, con l’azienda che può contare su varie opzioni; nella riduzione delle pause che sarà ricompensata (!) con un controvalore di 1 euro al giorno, cioè 32 euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del TFR;  nelle 120 ore di straordinario obbligatorio – estensibile fino a 200 – di cui potrà disporre l’azienda a seconda delle esigenze della produzione.

E, come se non bastasse, la FIAT non assume impegni in fatto di investimenti in quanto non c’è alcun piano “Fabbrica Italia” da 20 miliardi e tale da garantire un piano industriale per i prossimi dieci anni, apre la strada al licenziamento collettivo – la serba ZASTAVA insegna - , vieta il diritto di sciopero, esclude i sindacati che non aderiscono all’intesa.

Al di là di alcuni evidenti aspetti contraddittori come, ad esempio, l’ipotetica busta paga più pesante – grazie agli straordinari – nel mentre l’accordo prevede la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale e per tutto il personale, a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno, ciò che emerge nettamente è che il modello Marchionne mira alla intensificazione del lavoro ed alla conseguente ulteriore riduzione se non alla eliminazione della porosità del lavoro e quindi ad una saldatura totale dell’operaio alla catena di montaggio attraverso un processo di ottimizzazione che si basa sulla libertà assoluta di disporre della forza-lavoro adattandone l’impiego ai carichi lavorativi. E’ un modello che, all’interno del processo capitalistico, non ha da produrre che individualizzazione dei processi produttivi, sfruttamento totale e povertà. Diventa dato irrilevante che ci siano “persone”, che ci sia il loro “tempo di vita” trasformato, oramai, in sostanza spalmabile, a piacere, dall’impresa sulle catene di montaggio.

Per comprendere meglio ciò che sta avvenendo ci si deve riferire alla crisi che sta vivendo il settore automobilistico che, a fronte di una capacità produttiva mondiale di 100 milioni di auto, vede la domanda complessiva attestarsi sui 60 milioni con una evidente ricaduta in termini concorrenziali che si manifesta in una vera e propria “struggle for the life”  ( lotta per la vita) che non può che passare, capitalisticamente parlando, se non attraverso l’ottimizzazione degli impianti e la riduzione del costo del lavoro.

I dati parlano un linguaggio inequivocabile: oggi la FIAT detiene il 6,7% del mercato europeo e la data-obiettivo del 2014 assume i contorni sempre più nitidi di una chimera in quanto non si profila alcuna crescita europea e italiana capace di rilanciare la FIAT né, tantomeno, ci si può basare sulla crescita dei paesi emergenti poiché in tali contesti, eccetto il Brasile, la casa torinese non è presente.

Le prospettive sono quindi tutt’altro che rosee ed in tutto ciò la sfida dei paesi emergenti – motivazione addotta per giustificare la politica di deroghe e di tagli – c’entra ben poco in quanto il perno della strategia FIAT, onde poter intercettare la domanda europea, si basa su una ristrutturazione aziendale in grado di ottenere una drastica riduzione della capacità produttiva in eccesso ed un aumento considerevole della produzione per addetto e, conseguenzialmente, una pesante riduzione dell’occupazione.

Ma, paradossalmente, la FIAT viene a trovarsi in una situazione contraddittoria per cui “per ottenere significativi aumenti di produttività tali da avere effetti competitivi e di diffusione sul territorio, è necessario che le innovazioni tecnologiche si accompagnino a un salto della scala di produzione verso valori di gran lunga superiori alle 500-600 mila unità attuali” (J. Halevi – Manifesto 7 gennaio). Tradotto in termini più prosaici vorrebbe dire che questo allargamento della produzione potrebbe essere reso possibile solo da una crescita della domanda e quindi dei redditi, italiani ed europei. Esattamente l’opposto di ciò che sta avvenendo, in termini di potere d’acquisto, un po’ dappertutto. Quindi, piuttosto, le innovazioni dovranno anch’esse subire un ridimensionamento con conseguente delocalizzazione in zone low cost dove poter usufruire di aiuti statali e da dove reimportare verso l’Europa occidentale.

La deindustrializzazione a Torino sarebbe cosa fatta con tutto ciò che ne consegue in termini di disoccupazione e precarizzazione di massa.

Ecco perché l’affermazione di Marchionne sulla mancanza di convenienza ad investire in Italia va ad assumere contorni sempre più concreti e fa il pari con la tendenza, in casa FIAT, a “liberarsi” dell’auto in quanto più interessata alla finanza e ai dividendi che nel 2010, uno dei peggiori anni per il gruppo torinese, sono puntualmente arrivati nel mentre agli operai veniva cancellato il premio di risultato.

Di fronte ad una logica capitalistica così stringente e lucidamente sintetizzata dal premio Nobel, Michael Spence : ”Accordo duro ma senza alternative: è la legge del mercato”, le teorizzazioni  circa un generico nuovo modello di sviluppo o lo scandalizzarsi “ sulla pretesa del capitalismo di uscire dalla crisi con le stesse regole che l’hanno scatenata” diventano astruserie o flebili lamentazioni.

Quali altri modi conosce o ha conosciuto mai il capitalismo, nel corso della sua storia, per uscire dalla crisi, che non sia stato quello di riversarne interamente gli effetti sulle spalle del proletariato?

Alla stessa logica s’è attenuto il sindacato che, da pilastro fondamentale della programmazione capitalistica, ha fatto proprie le parole d’ordine aziendali.

La falsa opposizione della Fiom

Non inganni la contrapposizione tra le diverse sigle sindacali in quanto la FIOM avrebbe firmato l’accordo se non fosse stato per le clausole sulla rappresentanza che, di fatto, trasformano il sindacato in una sorta di appendice aziendale, un  “organo ratificatore” con ciò che ne discende in termini di  ridimensionamento drastico del proprio potere contrattuale e politico, cosa che non può andar bene alla FIOM che si fa forte del numero dei suoi iscritti e che, di converso, va più che bene alla FIM, alla UILM, alla FISMIC, fortemente minoritarie tra gli operai  metalmeccanici.

D’altra parte la FIOM può giocare questo ruolo che le consente, di fatto, di rappresentare più che un sindacato un vero e proprio partito che intercetta  il malessere di una cerchia di lavoratori che un tempo costituivano ampi settori di aristocrazia operaia, i cui referenti politici erano, in gran parte, i partiti socialdemocratici, e che successivamente, con l’incedere della crisi e con le ristrutturazioni implicanti massicci ricorsi alla tecnologia, hanno visto sfarinare la loro centralità sia in termini di reddito che di condizioni di lavoro.

Questo ruolo non ha, tuttavia, impedito, alla stessa FIOM,  di firmare, in altre realtà come la Sandretto, la STM, la Exside, da sola o insieme alla FIM e alla UILM, accordi ben più onerosi  di quello di Mirafiori sia sotto forma di deroghe al ribasso dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale sia per quel che riguarda il lavoro notturno.

Diventa quindi esercizio un po’ stantio spandere illusioni a piene mani circa nuovi modelli di sviluppo o appellarsi di continuo ai dettami costituzionali passando disinvoltamente sulla labilità che è propria di tutti gli ordinamenti borghesi che vengono utilizzati o stravolti dalla classe dominante a seconda delle convenienze.

Richiamarsi agli obblighi dello Stato, considerato come giudice neutro che sta al di sopra delle parti e che ha la funzione di dirimere e armonizzare, significa voler sorvolare sul fatto che “lo Stato è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente, politicamente dominante che, in tal modo, acquista uno strumento, una macchina, per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa” (F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).

E’ la stessa macchina statale che consente al ministro Sacconi di far riferimento ad un nuovo “Statuto dei lavori” che, derogando dalle leggi esistenti, consente liberamente “intese tra le parti” per cui ogni privato deve poter operare senza l’obbligo di rispettare i triti e ritriti lacci e laccioli.

Autorganizzazione o  Organizzazione?

Tutto ciò avviene, tra le altre cose, senza che vi siano significative reazioni con chiare connotazioni di classe mentre piuttosto, ad emergere, sono solo lotte rivendicative che di anticapitalistico possiedono proprio niente. A farla da padrone è la guerra tra poveri. Una guerra che riguarda non solo etnie, nazionalità, religioni diverse ma anche lavoratori della stessa nazionalità, quando non del medesimo settore o impresa.

La situazione mostra una notevole criticità e pone all’ordine del giorno una domanda che ha a che vedere con la annosa “questione sociale” che è destinata non solo a riproporsi drammaticamente ma anche a esplodere.

In un contesto siffatto, caratterizzato dall’estrema debolezza  e dalla frammentazione dei lavoratori, ha senso – come proviene da alcune parti - parlare di autorganizzazione o, all’ordine del giorno, non si pone, in tutta la sua impellenza, il problema dell’organizzazione?

Quando il riferimento privilegiato diventa l’autorganizzazione, cioè a dire lotte organizzate e dirette dai lavoratori stessi, si dà la stura ad istanze movimentiste e spontaneiste che prescindono totalmente dalla condizione reale dei lavoratori, dal livello attuale della lotta di classe.

Si prescinde da una nuova organizzazione del lavoro che ha come cardine la contrattazione individuale favorendo quindi l’atomizzazione del proletariato. Ci si astrae dai processi di mondializzazione del mercato del lavoro, dalla svalutazione del salario, dallo smantellamento del welfare state, tutte cose che hanno come approdo finale una concorrenza spietata tra proletari.

A ciò si aggiunga che il sindacato continua ad essere ritenuto strumento insostituibile per la difesa degli interessi dei lavoratori per cui si coglie nettamente il drammatico isolamento del lavoratore rispetto al resto del mondo del lavoro.

Altro che esaltazione incondizionata delle lotte dei lavoratori! Altro che enfatizzazione di qualsiasi iniziativa intrapresa da quest’ultimi!

La realtà è ben altra.

Siamo in presenza di una classe che, in larga parte, non si riconosce come tale. I lavoratori  non hanno coscienza di appartenere ad una determinata classe.

Stante tutto ciò come possono dar vita “spontaneamente” ad una autorganizzazione capace perfino di superare, attraverso le lotte, la stessa dimensione di spontaneità e rendere quindi  pleonastico un organismo come il partito?

Nel “Che fare?” Lenin sintetizza così :” Il movimento, la rivendicazione immediata, la spontaneità si presenta in primo piano: resta in ombra la direzione, l’elaborazione strategica e la tattica unitaria, il programma politico, il partito, la teoria rivoluzionaria” volendo rimarcare il ruolo determinante del partito affinché la lotta economica possa trascrescere sul piano politico.

Infatti, l’insorgere e l’acuirsi del conflitto sociale è, sì, condizione essenziale per acquisire la consapevolezza di appartenere ad una medesima classe di sfruttati, però non si può prescindere da una organizzazione politica, il partito, capace di condurre a sintesi tutti gli elementi che sono alla base del conflitto sociale e di raccordare tutte le esperienze di lotta del proletariato.

Calando il tutto nello specifico “Mirafiori” manca la presenza di un partito che sappia connettere le istanze di lotta, il malessere sociale, la rabbia che animano i lavoratori FIAT con i lavoratori polacchi di Tychy e con quelli serbi della Zastava  che hanno lanciato ultimamente questo messaggio:” I lavoratori FIAT nel mondo devono essere uniti e coordinare le iniziative di lotta. Come uno sciopero internazionale. Solo così si può vincere questa battaglia.”

E chi la può portare avanti se non “ un partito internazionale del proletariato capace di dare le giuste indicazioni politiche alle lotte di classe”? E ancora:” Proprio le mutate condizioni di vita del proletariato spingono nella direzione di una lotta di classe che non si manifesta sempre sul piano delle rivendicazioni economiche ma che può nascere potenzialmente e immediatamente sul terreno politico.” (L. Procopio: Dall’aristocrazia operaia al precariato – Prometeo n. 15/2007).

Gianfranco Greco