La rivoluzione la faranno i robot

Creato: 18 Dicembre 2017 Ultima modifica: 18 Dicembre 2017
Scritto da Maria Rosaria Nappa e Antonio Noviello Visite: 3408

Dalla rivista D-M-D' n°11

“In altri termini: ciò deriva dal fatto che le forze produttive generate dal modo di produzione capitalista moderno, al pari del sistema di ripartizione di beni che esso ha creato, sono entrati in contraddizione flagrante con questo stesso modo di produzione, e ciò a un grado tale che diviene necessario un rovesciamento del modo di produzione e di ripartizione eliminando tutte le differenze di classe, se non si vuole vedere perire tutta la società.” [Engels, Anti-Duhring]

Fantascienza

robot masterNel 2099, i centri di produzione mondiali contavano solo poche unità umane, le quali dietro a spessi vetri e davanti a grandi monitor controllavano sterminate distese di robot superintelligenti. Questi non erano i robot impacciati del 2016, quando occorrevano algoritmi da milioni di linee di codice per simulare un piccolo movimento del braccio; ora i robot erano in grado di auto-apprendere e di trasformare in azione, all’istante, un comando che arrivava dal loro centro di controllo, ed erano in grado di impartire lo stesso ordine anche ai colleghi di lavoro.

All’interno di queste “cittadelle produttive” erano pochi gli uomini che avevano ancora un lavoro. La disoccupazione, o meglio il numero di chi non aveva mai avuto un lavoro retribuito di tipo “novecentesco”, con diritti e doveri, raggiungeva il 99,9% della forza lavoro utilizzabile, il capitalismo aveva trasformato gli esseri umani in una massa di persone che si dimenava alla ricerca del necessario per tirare avanti; la popolazione si era notevolmente ridotta, sempre più frequentemente si moriva di stenti, e le nascite erano diminuite esponenzialmente, come nei periodi delle peggiori pestilenze. Pochissimi si potevano permettere le cure dei medici elettronici, i pochi medici in carne ed ossa rimasti lavoravano in grandi centri di ricerca per istruire o controllare le migliaia di macchine che compivano le operazioni in enormi e tecnologicamente avanzati lazzaretti. Un esercito di “straccioni” si contrapponeva a una minoranza che possedeva non molto, ma letteralmente tutto: conoscenze, mezzi di produzione, semenza per l’agricoltura, controllo di ogni risorsa: il miglior cibo, le ultime e vitali risorse incontaminate, i luoghi rimasti salubri, le migliori strutture per curarsi, le migliori scuole. La semplificazione della società aveva portato a distinguere due sole classi sociali: i possessori di tutto e i possessori di niente.

I conflitti di un tempo, per l’espansione economica o di conquista di risorse o di quote di mercato, avevano lasciato il posto a continue guerre. La povertà generalizzata e un’atavica mancanza di lavoro rendeva la classe subalterna una polveriera, soprattutto per via di un’altissima tensione interna. Una continua competizione senza esclusioni di colpi falciava migliaia di esseri umani, i clan malavitosi avevano preso il posto degli Stati che intanto si erano completamente dissolti. Chi deteneva il potere, chi dettava legge, erano gruppi mafiosi, armati di tutto punto, e ogni gruppo conduceva una guerra senza pietà contro gli antagonisti. La quasi totalità di questi erano foraggiati dalle potenti multinazionali che, a seconda dei propri interessi, favorivano di volta in volta un clan piuttosto che un altro. Anche la scena sociale in quel 2099 si era quindi notevolmente semplificata, la dissoluzione degli Stati e delle altre organizzazioni continentali aveva trascinato via con sé prima di tutto la parte residua del welfare sopravvissuta alle crisi del primo ventennio del Duemila, cosicché furono i clan più organizzati e assetati di conquiste a restare incolumi sul campo di battaglia. Di fatto, questi si erano sostituiti a qualsiasi potere borghese post novecentesco, e avevano messo in piedi una tirannia che considerava “nemico” chiunque non fosse un affiliato, e ciò lo rendeva automaticamente un bersaglio da colpire ed annientare. La vecchia e borghese “società civile” si era dissolta.

Le risorse erano totalmente appannaggio delle multinazionali, che quindi influenzavano senza contrasto l’intera scena economica e sociale a livello globale. Queste compagnie erano le stesse sopravvissute alla tremenda selezione darwiniana che si era ingenerata a partire dalla lontana crisi del 2007, sfociata poi in una guerra per il controllo delle fette di mercato e delle conoscenze; da questa guerra erano uscite vincitrici le multinazionali più agguerrite e senza scrupoli. In quattro o cinque gestivano la totalità delle ricchezze ancora disponibili sull’intero Pianeta. Le multinazionali, tra loro, badavano bene a non pestarsi più i calli, ma concentravano le loro attenzioni sul controllo del potere raggiunto e qualsiasi forma di protesta (“ribellione” è dire troppo) o tentativo di destabilizzazione veniva represso subito con uccisioni di massa. Per questo motivo chi prendeva parte agli sparuti tentativi di assalti alle risorse doveva innanzitutto premunirsi di armi.

Una apocalisse sociale. Eppure qualcuno, come un’instancabile minatore, scavava e minava dalle sue stesse viscere il potere. Gruppi non molto numerosi di esseri umani cercavano in tutti i modi di porre un freno a queste barbarie, non mollando quel vivido pensiero nato con Marx, ormai due secoli e mezzo addietro, e che alimentava la necessità del superamento di questa organizzazione di produzione capitalista, anch’essa già plurisecolare, e che aveva detto tutto già da tempo, e che ora viveva gli effetti postumi e del tutto nocivi della sua ultima degenerazione, non contemplando più alcuna forma di redistribuzione, come poteva ancora accadere in passato, neanche di una minima quota della ricchezza prodotta.

In una desolata casetta sgangherata, di un luogo non meglio precisato, che per i meno poteva sembrare un promontorio di un Calanco Lucano, ma che poteva essere anche una prateria depilata da alberi nell’isola di Pasqua, si stava mettendo a punto un robot in grado di intrufolarsi nelle cittadelle di produzione. Una volta entrato in rete con altri colleghi elettronici, in catena di montaggio, era in grado di assorbire e di trasferire tutte le informazioni e il livello d’apprendimento raggiunto dagli operai-androidi. Una qualche decina di robot-rivoluzionari piazzati chirurgicamente in posizioni strategiche all’interno delle cittadelle industriali principali avrebbe in pochissimo tempo mandato in tilt tutta la produzione mondiale. Contemporaneamente, i robot-rivoluzionari avrebbero sabotato la catena di distribuzione, rendendola praticamente inutilizzabile per lungo tempo. Un colpo durissimo grazie a una decina di infallibili androidi, resi tali grazie all’apprendimento totale di tutta la teoria rivoluzionaria e di critica economica al capitalismo, appunto, dei robot anticapitalisti, in grado di selezionare in ogni occasione la miglior mossa possibile per arrivare allo scopo prefissato, e in maniera irreversibile. L’opera sarebbe poi stata portata a termine dagli umani sobillatori dei robot.

 

Torniamo sulla Terra. Oggi.

Tutti i dati, frutto di studi seri recenti, si sono affannati a dimostrare[1] come il Jobs Act non ha fatto altro che precarizzare definitivamente tutti i rapporti di lavoro, siano essi a tempo indeterminato (come si affermava una volta) sia quelli nati già precari, ossia tutta la massa di contratti sorti dalle varie riforme dal 1993 in poi, e che si sono sviluppati soprattutto negli ultimi decenni; si è aggiunta ora una nuova variabile: il voucher lavoro, con la seguente logica sottostante : “mi servi, ti utilizzo, ti pago con un voucher, te ne vai”, nessun rapporto duraturo, vincolato il meno possibile e tutto lasciato alla libera iniziativa: sfrutta e fuggi.

Una manna per chi ha bisogno di forza lavoro on spot, al momento. Un buono-lavoro, abbiamo detto, non affatto lavoro buono.

Molti studi (la cui serietà non mettiamo minimamente in dubbio) dimostrano che dall’introduzione delle nuove leggi sul lavoro da parte del Governo Renzi le assunzioni a tempo indeterminato sono incrementate notevolmente, soprattutto con riferimento al periodo in cui le aziende hanno goduto del sostegno dato da incentivi e sconti sul costo del lavoro davvero convenienti. E’ logico che essendo il Jobs Act cablato, realizzato, proprio per rendere definitivamente precari tutti i contratti di lavoro; la statistica ci propone una nuova beffa: nell’ormai quotidiano processo di “trasformazione” di un rapporto da tempo indeterminato, tutelato con quel che resta dell’articolo 18, a un tempo indeterminato renziano, entra nella statistica come un nuovo lavoro. Questo cambio di pelle apre un baratro ulteriore nei rapporti di forza tra il datore di lavoro (padrone) e il possessore di forza lavoro (salariato), le nuove norme precarizzano massivamente ogni tipologia di lavoro, permettendo di interrompere la “collaborazione” con una semplice comunicazione, giusto il tempo di scrivere tre righe ed inviarle allo sfortunato dipendente. Capitolo a parte merita il demansionamento, autentico tabù per decenni di diritto del lavoro, rispetto al quale oggi è riconosciuta la possibilità, normata per legge, di essere chiamato a svolgere ruoli e compiti di livello inferiore, senza nemmeno più l'obbligo di mantenere il riconoscimento economico precedente: un laureato in ingegneria elettronica, che fino al giorno prima ha svolto compiti da ingegnere elettronico, può benissimo occuparsi di impacchettare a mano pasta in scatoloni, niente di straordinario[2].

Poi ci sono i voucher, i “buoni lavoro” cui abbiamo fatto cenno poc’anzi. Questi magici tickets non nascono all’improvviso, dopo decenni di rispetto delle vecchie leggi (novecentesche) che regolavano i rapporti di lavoro, non sono figli di governi equilibrati, di tempi di pace sociale in cui un fantomatico sindacato ha forza e strumenti atti alla difesa dei lavoratori, no!! Questi buoni-lavoro sono la perfetta metafora di ciò che significa travagliare[3] oggi. Se da una parte l’oratoria putrida e bugiarda del fantoccio Renzi parla di “lavoro 2.0”, di nuovi orizzonti, di ere più felici, di maggiori libertà per tutti (per i padroni sicuramente…) di possibilità altrimenti precluse per i giovani di farsi valere, tale da pubblicizzare l’Italia come il posto in Europa che fa maggiore innovazione nel campo delle norme per lavoro, tutte utili per attrarre, secondo lui, le migliori aziende al mondo (perché, è non si ha pudore di dirlo a chiare lettere, “da noi il lavoro costa meno”), dall’altra la violenta e inesorabile realtà dei fatti pone in evidenza una sola e solare verità: per chi ha la fortuna di aggiudicarsi un voucher o un lavoro a tempo cosiddetto indeterminato siamo tornati a rapporti di lavoro ottocenteschi; quello che si è ottenuto è l’azzeramento totale di qualsiasi conquista fatta col vivo sangue proletario attraverso lotte e sacrifici indescrivibili, per strappare brandelli di emancipazione alla classe borghese.

Poi ci sarebbe l’ultima moda padronale, in realtà non nuova affatto, ma che fa tendenza a tutto gas: il mancato pagamento dei salari, o il pagamento a intermittenza degli stessi, e quasi sempre il pagamento in ritardo o comunque a scadenze non regolari. Pur di mantenere un lavoro che tutto fornisce fuorché sicurezza e tranquillità, molti dipendenti preferiscono adattarsi a queste forme intermittenti di pagamento, sebbene mettano a durissima prova la sussistenza stessa delle famiglie quand’anche si tratti di pochi giorni di scarto, perché quei pochi giorni, per i più, determinano grane di tutti i tipi, soprattutto con istituti di credito e finanziarie.

Siamo difronte quindi a un Lavoro 2.0 precario, pericoloso, mal pagato o affatto retribuito, con la possibilità di essere licenziati in qualsiasi momento, e soprattutto si è col tempo costruito un infernale trita-proletari da cui non è possibile uscire, se non ritornare poi in uno status di disoccupato o peggio di neet (Not (engaged) in Education, Employment or Training). E non stiamo parlando di spossanti lavori agricoli in qualche piana del Sud, o di qualche commessa di un centro commerciale, o di una badante che si dimena tra pentole e pannoloni; ma stiamo parlando di importanti profili, come ad esempio ricercatori universitari, di giovani laureati; oppure di skillati quarantenni alla ricerca di un nuovo impiego, o di gente ancora più esperta e vicina alla pensione, ma che, nonostante tutto, non può ancora tagliare questo traguardo perché mancano pochi e maledetti anni al raggiungimento di quei requisiti con cui ormai si gioca a rimpiattino. Una bolgia dantesca infinita, una via disseminata di ostacoli che ridurrebbe a brandelli e stremerebbe qualsiasi temerario. Ad esempio, basterebbe pensare che mostro è diventato l’italico Ministero dell’Istruzione nella sua qualità di datore di lavoro, capace di rendere la vita a migliaia di addetti letteralmente impossibile, con il risultato doppio di produrre un corpo insegnante svuotato da qualsiasi prerogativa di educazione alla vita, e adibita a trasferire nozioni a ragazzi che vivono problematiche sicuramente diverse da quelle percepite dalla Scuola; personale per larga parte meridionale e costretto a trasferimenti folli lungo lo stivale, con sedi che di mese in mese vengono cambiate, rendendo poi instabile qualsiasi prestazione. Un mondo insomma che produce due vittime principali: l’alunno e l’insegnante. 

Ancora di più sulla terra: i dati.

Al mondo, in questo momento ci sono 200 milioni di disoccupati. Questo numero è certificato da uno studio fatto dall’International Labour Organization[4], ed ha un trend, una tendenza a crescere inesorabilmente per i prossimi anni. Infatti, rispetto ai dati del 2014, il livello di disoccupazione globale è salito di circa un milione, sia nei paesi avanzati (cosiddetti) che in quelli emergenti (cosiddetti pure questi…). Dall’inizio della crisi del 2007 si sono aggiunti 30 milioni di disoccupati.

Un dato ancora più significativo sul livello raggiunto è quello sulla qualità del lavoro. Nel Mondo circa il 46% del totale degli occupati è alle prese con lavori definiti “vulnerabili”, in quanto precari, malsani, malpagati, ecc. Metà della attuale forza lavoro impiegata sul globo vive condizioni difficili di lavoro e quindi in piena povertà. Nell’Africa Sub-Sahariana, ad esempio, si arriva al 70%, come pure in quello del sud-est asiatico. Ma la differenza di genere, in questo caso, rende i numeri ancora più duri: ancora a livello Mondo, il numero delle donne che ogni giorno opera in condizioni di alto rischio supera del 20% quello degli uomini. E nelle zone più difficili, le percentuali salgono al 35%.

E se per i paesi emergenti i dati annunciano un incremento di 2.3 milioni di disoccupati per l’anno corrente, e di 1.1 ulteriori per il 2017, il dato si fa drammatico per i paesi ad economia “consolidata” come gli Stati Uniti o l’Europa, dove il livello raggiunto di disoccupazione, ad oggi, viene di fatto reso stabile, dopo il tonfo dovuto alla crisi, da una stagnazione economica più che quinquennale. Nonostante i timidi segni di inversione, ad esempio come quelli registrati in Italia attraverso i risultati (poco genuini, come accennato sopra) prodotti dal jobs act nel 2015 e non più confermati nel 2016, il tasso di disoccupazione italiano è fermo intorno al 12%, rispetto al 12.7% del 2014; ciò, in termini numerici, significa che nel 2015 i disoccupati erano 3 milioni, nel 2016 saranno 3 milioni, e sono previsti a 2.9 milioni nel 2017.

Interallacciando ora i dati con le politiche economiche, si configura con più chiarezza e nettezza come il capitalismo abbia reso strutturale e irreversibile (… se non attraverso l’abbattimento dello stesso) questa condizione diffusa di povertà e disoccupazione. Gli Stati Uniti dal 2008 con le politiche economiche di Obama, coadiuvate dalle stampanti di dollari, hanno potuto attrarre investimenti esterni, favorendo la delocalizzazione in America da altri paesi, ed è questo che ha permesso di affrontare il periodo post-crisi, mantenendo un tasso di disoccupazione stabilmente intorno al 5%, passando dal 6% del 2014 ai 4.9% previsti per il 2017.

Se per Paesi ad economia avanzata, tra cui l’Europa, il crollo del costo delle materie prime è stato un aiuto importante per il contenimento del debito; i tagli alla spesa pubblica, soprattutto per quanto attiene il “welfare state”, hanno dato un colpo letale alla domanda interna. Per i Paesi “emergenti” allora, la diminuzione di richiesta di merce da parte dei Paesi “consolidati” ha fatto contrarre il mercato e impennare l’indice di disoccupazione, nonostante le materie prime a più buon mercato; per cui, in un discorso globale, al relativo contenimento della domanda al consumo nell’occidente avanzato è corrisposta una elevazione dell’indice di disoccupazione nella parte restante e meno “fortunata” del globo. E le stime per il prossimo anno prevedono l’incremento di disoccupazione più consistente in Russia e Brasile (pieno BRICS), ma anche Cina e Sud Est asiatico.

Lo studio sopra citato pone ancora in evidenza come debba essere la qualità del lavoro, e non solo il numero di occupati, un indicatore più fedele delle condizioni dei lavoratori. Se, in generale, nell’Occidente si concentra il lavoro qualitativamente meno vulnerabile, ossia più tutelato, più organizzato, meno precario, meno pericoloso, ecc., sono i lavoratori dei paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Oriente, fino anche dell’Italia a svolgere lavori con tutele insufficienti. In Africa, India e nel sud Est Asiatico oltre il 60% dei lavoratori è considerato in una condizione di povertà profonda. Nel continente Americano, rispetto a tale aspetto sociale i paesi Latini hanno percentuali non inferiori al 30%. In Europa, le nazioni con il più alto indice di lavoratori in condizioni di debolezza sono Portogallo, Italia, Grecia, Bulgaria, Turchia e Polonia, con indici che variano tra il 15% e il 30% di lavoratori in condizioni precarie.

Sotterraneo e servile

Il voucher-lavoro è utilizzato, almeno in Italia, dal 2008. Come ci dicono i liberisti: un imprenditore necessita di una prestazione occasionale (parliamo sempre di lavoro) allora chiama un singolo prestatore, lo utilizza per il tempo necessario. Alla fine di questo rapporto occasionale, gli ammolla voucher che condensano il valore di 10 euro lordi (per ora lavorata) e di 7,5 euro netti, infatti le trattenute prevedono un 18% per la gestione INPS, del 7% alla copertura di assicurazione infortuni a favore dell’INAIL, riducendo in questo modo del 25% il suo valore iniziale. Anno dopo anno la legislatura ha poi allargato i possibili settori di applicazione, che inizialmente prevedevano ambiti realmente occasionali, i “lavoretti”, come poteva essere l’utilizzo di un paio di questi voucher per pagare una baby-sitter che non ha evidentemente necessità che si instauri un vero e proprio rapporto di lavoro, salvo poi fagocitare platee sterminate, includendo ad esempio settori quali quello agricolo o del turismo, che presentano invece ogni caratteristica necessaria e sufficiente per il riconoscimento di un contratto di lavoro, fosse anche stagionale o a tempo determinato.

I dati riportati da un recente studio della UIL[5] parlano chiaro: se nel 2008 erano stati utilizzati 536 mila, siamo passati ai 115 milioni del 2015. Complessivamente in questi 7 anni sono stati sottoscritti 277 milioni di voucher e utilizzati circa 238 milioni con una differenza di quasi 40 milioni di voucher non usati, fatto questo molto interessante e che la dice lunga sulla natura truffaldina del processo che sottende questo meccanismo. Oltre a creare volumi fittizi di domanda e soprattutto a falsare i dati sulla disoccupazione, poiché chi percepisce anche un solo voucher in un anno è considerato… occupato (!!!); inquina ulteriormente i dati delle rilevazioni statistiche, in quanto, ad esempio, per due ore o più di lavoro effettivo potrebbe essere consegnato un solo voucher, creando uno sterminato sottobosco di lavoro non pagato.

Altro elemento caratterizzante le nuove politiche del lavoro, è la definizione di norme e regole stringenti solo per i lavoratori, ed anche per il caso dei voucher vediamo che esiste un tetto massimo di 7 mila euro percepibile tramite buoni lavoro, per il datore in pratica non esistono limiti effettivi: potrebbe in teoria (e in pratica) costruirsi un’intera rete di attività, tutte pagate con voucher, senza incappare in nessuna sanzione, agendo completamente entro i confini della legalità. E i numeri in possesso delle statistiche, per l’anno 2016, dicono che sono stati sottoscritti ben 145 milioni di voucher, con un incremento oltre il 40% per l’equivalente periodo 2015. Coloro che percepiscono i voucher sono passati da 24 mila nel 2008, ai 1,4 milioni nel 2015, il 37% di questi percepisce unicamente il reddito dato dai voucher. Che genialata: quel ticket abbatte d’un colpo tutte le tutele sociali, come scatti, accantonamenti, contrattazioni collettive, sindacato, tutto! Renzi esulta con frasi del tipo: “I dati sulla disoccupazione migliorano e il jobs act funziona”. Come dire, disoccupazione abbattuta con un trucco degno del gioco delle tre carte di cui si trovano i maestri a Piazza Garibaldi a Napoli.

Sappiamo bene che queste forme di rapporto di lavoro non scaturiscono dalle leggi, ma che le norme costituiscono piuttosto l’involucro migliore per contenerle, legalizzarle, renderle un dato di fatto assodato e quindi ampiamente praticabile. E’ la parcellizzazione delle attività, ossia la polverizzazione e la distribuzione globale del loro processo realizzativo, e soprattutto il massiccio impiego di tecnologia nei rami produttivi, a creare nuove esigenze di lavoro o prestazioni sempre più occasionali e precarie. Un tipo di lavoro regolato da voucher, indica un modello di economia, o meglio un sistema di produzione, che non è più la vecchia fabbrica fordista, tipo FIAT anni Sessanta, ma prevede un sempre maggiore sviluppo nel settori dei servizi, di lavoro che definiremmo improduttivo, secondo la terminologia classica marxiana[6], e di precariato diffuso: esattamente ciò che l’attuale scenario italiano propone. E’ sintomatico proprio il caso Italia, dove dallo scoppio della crisi dei Subprime del 2007 ad oggi è stato perso quasi il 24% della capacità produttiva[7], con livelli di disoccupazione mai raggiunti prima, e le attività principali sono diventate i servizi a corredo della valorizzazione del capitale. Questo processo è talmente avanzato che ri-emergono (in realtà mai scomparse) prepotentemente lavori che possono essere facilmente ritenuti servili[8].

A Torino, molte delle vecchie fabbriche della “cintura torinese” sono ruderi cadenti, ma molte altre sono state convertite trasformandole, come la storica sede della FIAT, da vecchi capannoni industriali in luccicanti sedi di società finanziarie o di servizi, tipo assicurazioni, alberghi o sedi per meeting o di fiere. E che tipo di attività sono nate, in luogo delle vecchie figure operaie, se non assistenti di sala, barman, addetti alle pulizie, interpreti, broker, ecc.? I voucher hanno preso il posto dei vecchi contratti di lavoro. Un piccolo esercito fluttuante di sottoccupati di norma giovane, che si barcamena alla corte di questo nuovo modello di lavoro, che produce precariato e instabilità diffusa, anche nei rapporti umani. Qualche ardito chiama questa fase come postcapitalismo[9], ma in realtà siamo alla manifestazione di un modello (capitalista in pieno) che si riconfigura addirittura su rapporti di lavoro pre-novecenteschi, malgrado riguardi nuovissime forme di lavoro e anche settori ipertecnologici. Una manifestazione a tutto tondo di un modello pornografico, di cui riprende il modo ripetitivo ossessivo, che genera sempre maggiore incertezza e povertà.

 

I robot avanzano

Nella fabbrica globale, la multinazionale della produzione per conto terzi di apparecchiature elettroniche, la Foxconn, è stata rivoluzionata per l’ennesima volta la catena di montaggio introducendo circa 40 mila nuovissimi robot. Si tratta di macchinari, questi, dotati di intelligenza artificiale e sono quindi in grado di prendere delle decisioni dinamiche in base alle esigenze contingenti di produzione, e riescono addirittura a relazionarsi in rete con altri loro simili.

Nel 2011, Terry Gou, il magnate di questa multinazionale Taiwanese aveva in progetto di adottare un milione di robot (!!!) con il dichiarato obiettivo di ridurre il personale umano e aumentare la produttività. In realtà oggi questi 40 mila super intelligenti robot sostituiranno 60 mila operai cinesi e tutto, oltre il danno la beffa, a costi inferiori rispetto ai salari erogati.

Nel piccolo dell’Istituto Onorato Damen abbiamo trattato le motivazioni economiche che sottendono questa scelta, e abbiamo sintetizzato, secondo i dettami marxiani, che è la crisi di saggio di profitto a indurre i capitalisti come Terry Gou a rivoluzionare il ciclo di produzione alla ricerca spasmodica di sempre crescenti quote di produttività, per cui non torniamo sul tema. Quello che ci preme segnalare ora è che il processo di sostituzione di lavoratori in carne ed ossa con androidi dotati di intelligenza artificiale è diventato irreversibile e sempre più esteso e globalizzato, anche se non ancora pienamente visibile né immediatamente percepito. Ma già a questi livelli primordiali, il processo in esame produce maggior profitto per i capitalisti e aumento della disoccupazione, ossia delle quote dello sterminato esercito di riserva.

Il processo di automazione spinta non è solo prerogativa della produzione immediata ed industriale, ma anche di tutti gli altri settori connessi alla circolazione e alla valorizzazione della merce. Per cui, inesorabilmente, a essere sempre più robotizzato è l’intero processo Denaro Merce Denaro Accresciuto (D-M-D’), ossia tutto l’insieme delle attività che permettono ai capitalisti il rientro del capitale investito (D) più un capitale accresciuto D’e inglobante il plusvalore estorto attraverso la produzione di merce M.

I settori in cui viene introdotta l'automazione spinta sono i più vari, a partire da quello della circolazione della merce; ad esempio, è proprio di questi giorni l’introduzione di una cassa elettronica in alcuni supermercati, e questo robot lavorerà al posto non di una, ma almeno di tre povere commesse, se consideriamo i turni di riposo, ferie, malattie e orario giornaliero di lavoro.

Ma ad essere privato di personale “umano” saranno tutte le attività di servizio connesse con un classico supermercato: banconista che taglia e affetta… via! cassiera… via! assistente… via! addetti ai reparti… via! Tutti saranno sostituiti dal super androide Yumi, lo troveremo, per esempio, tra le corsie delle rosse Coop a lavorare, mentre noi facciamo la spesa finalmente liberi da qualsiasi intralcio dei vecchi e “noiosi” addetti, che magari ti disturbano per proporsi di esserti utile.

Amazon ha fatto già tutto, o quasi. Ha completamente automatizzato tutti i suoi magazzini grazie a un robot di nome Kiva che somiglia a una locomotiva in miniatura in grado di seguire dei percorsi ben definiti e programmati e sincronizzati tra loro (Amazon ne impiega già 14 mila). Questi congegni spostano scaffali pieni di pacchi da un posto all’altro di un deposito, sopportando fino a 330 kg di carico. Il risparmio, per l’azienda leader negli acquisti e consegna merce online, è stato di circa 900 milioni di euro.

Basta dare uno sguardo all’interno di un capannone dove lavorano questi robot per constatare che al più occorre un operaio in carne ed ossa, laddove prima se ne contavano a decine per chilometro quadrato. Infatti, se anche l’azienda si affretta a precisare che non si hanno impatti sulle assunzioni, in realtà Kiva tenderà a sostituire in primis la figura poco specializzata del magazziniere, e avente mansioni semplici e automatizzabili da compiere.

Questi pochi esempi delineano in realtà scenari sempre più foschi per la possibilità di recupero della disoccupazione globale. Le aziende producono profitti a doppia cifra, la tecnologia avanzata permette di raggiungere picchi sempre più alti e con sempre meno addetti umani alla produzione.

A questo punto appare ovvio e conseguente che il grado di sfruttamento degli operai è aumentato notevolmente, anche perché sono le macchine a dettare i nuovi ritmi di produzione, i nuovi obiettivi di produttività e i nuovi standard di qualità: mai frase fu più azzeccata di quella dell’operaia cinese della Foxconn quando sentenziò di sentirsi, sul luogo di lavoro, come “mangime per le macchine”.

Il processo di sostituzione di lavoratori umani con robot è solo all’inizio. Se questi Kiva, Yumi, ecc sono tecnologie ora già effettivamente utilizzate, in realtà condensano risultati di ricerca e di lavoro nei laboratori (con capitali sia pubblici che privati) di almeno dieci anni. Basta quindi dare un’occhiata ai prototipi che si stanno implementando, e a quale utilizzo massiccio di intelligenza artificiale fanno ricorso, per comprendere che genere di macchine complesse avremo nel futuro prossimo, cioè androidi in grado di prendere decisioni dinamiche, sempre più complesse, e in grado di simulare e riprodurre anche le mappe concettuali e le linee di ragionamento prettamente umani.

Recentemente è apparso su un canale della televisione italiana un servizio del preparatissimo giornalista Riccardo Iacona, in cui si è cercato di approfondire (cosa sempre più rara sui mezzi di comunicazione ufficiali) la nuova frontiera e le conseguenze, soprattutto per il lavoro, della tecnologia nelle attività umane. E al di là delle considerazioni finali del bravo Iacona, che, per intenderci, delinea possibili soluzioni che rimangono comunque interne al sistema dato e non si affacciano oltre, sono stati citati importanti studi del settore che confermano l’aumentare dell’investimento di capitali in tecnologia e produttività, quindi e di conseguenza, il depauperamento del capitale variabile (quello investito in salari diretto, indiretto e differito).

Se nel diciannovesimo secolo le introduzioni tecnologiche nella produzione di merci avevano tempi più dilatati, e quindi i loro impatti erano visibili sul medio-lungo periodo. Basti pensare, a titolo di esempio, all’introduzione dell’elettricità in fabbrica, con l'utilizzo dei primi strumenti che funzionavano a corrente invece che a vapore; nel XXI secolo, il nostro, abbiamo annullato tutti i tempi e le rivoluzioni si susseguono oramai ininterrotte da una all’altra, con conseguenze continue ed immediate, a tutto tondo.

Oggi le macchine non alleviano dalla fatica l’uomo, lo schiacciano costringendolo ad assecondare il loro ritmo infernale, oppure lo spodestano totalmente da qualsiasi impegno sia fisico che mentale. E il processo è talmente irreversibile che la massa di disoccupati non tenderà minimamente a decrescere, come abbiamo visto, ma piuttosto il loro numero si impennerà notevolmente nei prossimi decenni.

E i robot già attualmente non sono più prerogativa solo della catena di montaggio: invadono tutti i settori delle attività umane: basti pensare che a Napoli, nei laboratori della Federico II, stanno costruendo un androide in grado di manipolare della materia, elaborare forme e compiere di conseguenza i movimenti giusti, tanto da essere in grado di simulare un pizzaiolo nella lavorazione della pasta, imparando e osservandone uno vero al lavoro. Si tratta di un salto di qualità spaventoso, la simulazione degli arti era il problema principale fino a qualche anno addietro, ora è una realtà.

In Inghilterra, nei sotterranei di laboratori universitari si sta allenando Boris a prendere oggetti e a porli nel contenitore adatto secondo una classificazione non necessariamente predeterminata. E’ dotato di intelligenza artificiale (AI) quindi è in grado di capire da “solo” come comportarsi, attraverso algoritmi di apprendimento automatico (scritti dall’uomo in carne ed ossa, per ora) che quindi gli permetteranno di possedere autonomia e “discernimento”.

Discorso simile per Amelia, un androide AI che sarà in grado di sostituire centraliniste, segretarie, call center, ecc. perché impara tutto e ricorda ogni cosa (deep learning).

Siamo difronte quindi a una spinta tecnologica senza pari, non affatto impressa da nè a vantaggio del proletariato, ma derivante dalle esigenze connesse al profitto che il capitale richiede e che non trova soddisfazione nelle forme precedenti di produzione.

Si stima che 5 milioni posti di lavoro, entro tre anni, saranno sostituiti da questo tipo di tecnologia nelle prime 15 economie al mondo.

Persone fisiche perderanno il lavoro, non macchine. Persone fisiche che probabilmente, per sopravvivere, dovranno piegarsi a fare lavori scartati in precedenza, segnando definitivamente, la loro progressiva discesa agli inferi. Cattiva sorte per il proletariato, costretto a vendersi a chi comprare non vuole, se non a un costo inferiore a un chip.

Un destino infausto per i lavoratori attivi, che oltre alla concorrenza dei disoccupati di sempre, ora devono resistere anche ad un nuovo antagonista: il robot Kiva, o Yumi, o Amelia, o Boris, o quello che sarà; e tutto ciò avverrà al cospetto di una borghesia globalizzata in grado di scagliare qualsiasi dardo infuocato contro il suo storico nemico di classe.

Un automa che stende l’impasto, aggiunge il giusto quantitativo di pomodoro, mozzarella e basilico, che inforna, dopo 5 minuti tira fuori e mette la pizza nel piatto, potrà eseguire 1000 pizze a sera senza soffrire il caldo del forno o lamentarsi, senza fare i conti in tasca al proprietario della pizzeria per richiedere un aumento, senza ammalarsi né pretendere ferie o riposi: un progresso immane per l’umanità.

E poi la pizza verrà servita in tavola con un carrellino automatico, e probabilmente, viste le prospettive, sarà necessario inventare anche clienti elettronici, perché il povero umano, tendenzialmente, non potrà permettersi nemmeno una futuristica pizza.

Verso il 2099

Riprendiamo l’importante lavoro dei ricercatori della Oxford Martin School, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne[10] e le prime rilevanti conclusioni a cui sono arrivati sono queste: primo, il 47% delle attività umane sono altamente sostituibili dalle macchine e il 19% lo potrebbero essere (rischio medio); secondo, nel 2017 il continente a più altra progressione tecnologica e quindi con maggiori introduzioni di robot nei cicli lavorativi sarà l’Asia (Cina in primis) con 190 mila robot rispetto ai 136mila del 2014; terzo, la produttività sul lavoro rispetto ai salari medi percepiti si è innalzata molto di più con una forbice che si è allargata notevolmente dal 1970 ad oggi; quarto, gli incrementi sostanziosi di reddito si sono avuti solo per le fasce alte (parliamo di manager CEO, ecc..).

Lo studio approfondisce il tema. Solo nella prima decade di questo secolo, ad esempio nel 2003, il progetto sul Genoma Umano è stato completato[11], nel 2007 il primo Iphone, nel 2010 Google annuncia la prima automobile che si guida da sola. Parallelamente a questo incremento di ricerca e di risultati nel campo dell’automazione, il divario tra la produttività sul lavoro e il salario si è notevolmente incrementato, ad esempio, se nel 1980 la produttività per ora lavorata cresceva dell’2% rispetto all’anno precedente, il salario cresceva dello 1%. Ma nel duemila nei paesi economia avanzata il divario già balzava al 4%, e nel 2010, nonostante la crisi del 2007 il divario è passato al 5% per i paesi avanzati. Da questa forbice possiamo trarre indicazioni riguardo le quote di plusvalore ottenute negli anni rispetto ai salari, tenendo presente l’investimento sempre maggiore di capitale fisso (tecnologia) nella produzione. Osservando ora il coefficiente di GINI che misura la distribuzione della ricchezza prodotta nella società, e posto a 1 il valore di GINI per una società (ideale) che distribuisce tutta la ricchezza prodotta equamente, e 100 una società che concentra tutto in pochissime mani; secondo lo studio dei ricercatori, per i paesi maggiormente industrializzati, se nel 1980 tale indice segnava 28, nel duemila era diventato quasi 33, nel 2013 quasi 34, oggi vale oltre 35; una tendenza che prevede un aumento quasi di un punto percentuale per anno.

I tromboni del capitale hanno sempre affermato, e si affannano a farlo di continuo, che le macchine, i robot servono a migliorare la vita degli esseri umani liberandoli dal lavoro, e quindi a vivere più degnamente. Una serie di falsità sconfessate dai dati sopra citati.

Il più grande salto in avanti, per quanto riguarda l’utilizzo dei robot, avverrà entro il 2025. Su questo lo studio di Frey e di Osborne coincide con quello McKinsey. Si prevede che globalmente il numero di androidi che verranno impiantati nelle industrie si aggirerà sui 25 milioni, con una particolare permeazione soprattutto in Cina, che si pone in controtendenza rispetto al resto delle economie avanzate mostrando una serie di contraddizioni abbastanza marcate. Infatti, secondo i due ricercatori, la Cina dal 2000 ha avuto l’incremento più consistente del costo del lavoro rispetto alla produttività, e questo significa minore attrattiva per l’offshore, inoltre, elemento di non secondaria importanza, si prevede che l’invecchiamento della popolazione lavorativa ridurrà considerevolmente l’offerta di forza lavoro, passando dal 74% di popolazione in età lavorativa (i classici 15-64 anni) al 52% nel 2050. Aspetti che non sfuggono alla classe dominante, rispetto ai quali fa i conti ed organizza le contromisure da adottare.

Ricardo, nella terza edizione de Principi di economia politica e dell’imposta, laddove tratta del ruolo dei macchinari nella produzione, dice: “la sostituzione con macchine di lavoratori potrebbe rende ridondante la popolazione”, concetto da intendersi chiaramente da un punto di vista capitalista e riferito alla popolazione lavorativa.

Partendo da quest’ultima citazione arriviamo al nucleo centrale dello studio che qui abbiam voluto proporre: ragionare su cause ed effetti del fatto che il 47% dei lavori attuali sono ad alto rischio di sostituzione con robot/macchine, in quanto presentano caratteristiche tali da poter essere modularizzati e automatizzati. E se a questo aggiungiamo un ulteriore 19% che viene considerato come a medio rischio di sostituzione, ci accorgiamo che ben il 66% delle attuali attività umane, in tempi brevi, potrà essere realizzato da macchine più o meno intelligenti.

Benché queste percentuali si riferiscano segnatamente agli Stati Uniti, le altre nazioni non sono affatto immuni da queste previsioni: ad esempio il Regno Unito presenta le stesse percentuali di rischio, ma potremmo dire lo stesso anche per l’Italia e la Grecia, per le quali il 56% di attività risultano sostituibili con buona probabilità da androidi, oppure la Romania (62%), il Portogallo (59%), Francia e Germania (50%).

Lo studio smentisce categoricamente l’illusione (coltivata caldamente dai tromboni di cui sopra) secondo la quale le nuove tecnologie distruggono sì vecchi posti di lavoro, ma senza alcun dubbio ne creano anche di nuovi.

Il dato ciliegina afferma che dal 2000, solo negli Stati Uniti, i nuovi lavori nell’industria creati dall’introduzione di nuova tecnologia sono intorno allo 0.5% della forza lavoro impiegata! Le nuove frontiere del lavoro non creano affatto occupazione in proporzione ai capitali che generano, basta fare l’esempio lampante di WhatsApp che è partita con un capitale di 250mila dollari e con 55 lavoratori ed è arrivata a vendersi a 19 miliardi contando sempre 55 impiegati. Questo tipo di economia, secondo lo studio di Oxford, potrebbe essere responsabile della stagnazione secolare in cui siamo entrati con la crisi del 2007, per cui per la prima volta anche laddove aumenta la produzione non si registra una proporzionale ripresa dell’occupazione.

Sappiamo bene che non è solo questione di WhatsApp o di Internet a determinare condizioni di stagnazione, sappiamo bene che nel processo capitalistico globale le variabili si moltiplicano esponenzialmente, ma ci sono alcune attività o contesti che permettono di intravedere in anticipo qualcosa del futuro che ci attende, e la produzione della tecnologia assolve sicuramente a questo compito.

Se abbiamo azzardato, un poco per gioco, uno scenario possibile per il 2099, quando molti di noi non ci saranno più, è che con queste premesse reali che abbiamo sotto al naso adesso, e senza una concreta (al momento) prospettiva di ripresa della lotta di classe verso i dominanti, in grado di rovesciare questo abominevole e putrido sistema; non possiamo fare altro che tornare a Engels e constatare il perire della società, tutta.  A meno che non crediamo veramente che la rivoluzione la faranno i robot al posto nostro.

[1]http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/18/lavoro-inps-31-di-licenziati-piu-nei-primi-otto-mesi-del-2016-e-351mila-assunzioni-rispetto-al-2015/3105545/

http://www.repubblica.it/economia/miojob/2016/10/18/news/inps_lavoro-150026463/

[2] Rimandiamo per ulteriori approfondimenti all’articolo di Giorgio Paolucci: Jobs Act: lavoratori all’asta, e per un salario sempre più basso, consultabile sul sito dell’Istituto Onorato Damen, al link http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/lavorolottaclasse/348-jobsact

[3] Preso in prestito dal dialetto Siciliano che significa faticare (lavorare). Ma più in generale, travagliare nel dizionario è procurare travaglio, pena; tormentare, affliggere. Altra definizione di travagliare è affannarsi, affaticarsi penosamente: si travaglia per guadagnarsi da vivere. Travagliare è anche penare, soffrire, tribolare, fisicamente e moralmente.

[4] Lo studio a cui facciamo riferimento è il World Employment and Social Outlook: trend 2016, scaricabile al link:  http://www.ilo.org/global/research/global-reports/weso/2016/WCMS_443480/lang--en/index.htm

[5] Secondo rapporto UIL sui Voucher http://www.uil.it/documents/2%C2%B0%20RAPPORTO%20UIL%20VOUCHER%20(maggio%202016).pdf

[6]Tratto da marxist.org: Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. "Il risultato del processo di produzione capitalistico", egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto (valore d'uso) né una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione.

Oltre alle occupazioni legate alla produzione di merci e alla loro circolazione, esistono molte professioni che, senza partecipare all'una o all'altra di queste sfere, producono servizi e non merci. I loro membri attingono il loro salario dai lavoratori o dai capitalisti, oppure da entrambi. Dal punto di vista capitalistico il loro lavoro, per quanto utile o necessario possa essere, è da considerarsi improduttivo; sia che i loro servizi siano comprati in quanto merci o remunerati con il denaro proveniente dalle imposte, tutto ciò che essi percepiscono proviene dal reddito dei capitalisti o dal salario dei lavoratori. A questo punto sembra insorgere una difficoltà. Infatti, tra queste professioni, ce ne sono molte i cui membri (insegnanti, medici, ricercatori scientifici, attori, artisti e altri), pur producendo soltanto dei servizi, non sono né più né meno che dei dipendenti e portano un profitto all'imprenditore che dà loro lavoro. Questo è il motivo per cui quest'ultimo considera produttivo il lavoro che egli ha pagato e che gli ha permesso di realizzare un profitto, di valorizzare il suo capitale. Per la società invece, questo lavoro è improduttivo poiché il capitale così valorizzato costituisce una parte del valore e del plusvalore creato nella produzione. Lo stesso si può dire sia per il capitale commerciale e il capitale bancario che per gli impiegati di questi due settori; anche in questo caso viene prodotto pluslavoro e valorizzato del capitale, anche se i salari e i profitti riguardanti questi settori sono di necessità prelevati dal valore e dal plusvalore creati nella produzione. Inoltre, esistono tuttora degli artigiani e dei contadini indipendenti che non occupano operai e che non producono quindi in qualità di capitalisti.

[7] Dati presi da Banca d’Italia, per cui: nel periodo 2008-2013 l’economia italiana ha sofferto due crisi in rapida successione arrivando a perdere il 9% del Pil (lo shock più importante dal 1861). La produzione nel manifatturiero ha registrato una caduta oltre il 23,5%.

[8] Articolo di Tonino Perna apparso su Il manifesto il 19 Agosto 2016, dal titolo: la new age del lavoro servile.

[9] Ad esempio, il libro di Paul Mason, Postcapitalismo, edito da Il Saggiatore.

[10] Carl Benedikt Frey, Michael Osborne TECHNOLOGY AT WORK The Future of Innovation and Employment, paper scaricabile al seguente link: http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/reports/Citi_GPS_Technology_Work.pdf

[11]Progetto Genoma Umano, https://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_genoma_umano.