PRIMAVERA ARABA…AUTUNNO ISLAMICO ?

Categoria: Africa
Creato: 23 Maggio 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 4839

Dalla  rivista  D-M-D' n °4

Appare sempre più evidente – a voler interpretare le dinamiche in atto nei paesi che sono stati teatro del cosiddetto risveglio arabo – come gli esiti o quantomeno le speranze che pervadevano i vari movimenti nordafricani si stiano progressivamente accartocciando per lasciare il posto – in un vero e proprio processo di restaurazione – ad un islamismo più o meno integralista che va a colmare il vuoto lasciato dalle autarchie o dalle dittature deposte.

Rivisitata l’analisi degli accadimenti due date possono emblematizzare lo spartiacque tra rivolte e controrivolte arabe: il 14 marzo - allorchè l’Arabia Saudita, su mandato  del Consiglio di cooperazione del Golfo invia in Bahrein un contingente armato per reprimere la sommossa in atto, arrestare gli organizzatori ed imporre il coprifuoco – e il 17 marzo, allorquando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per il tramite della risoluzione 1973, autorizza la cosiddetta “comunità internazionale” all’uso della forza contro Gheddafi.

E’ noto come il dittatore libico non avesse l’esclusiva di talune pratiche poco commendevoli; è sufficiente, infatti, far riferimento alle oligarchie imperanti nello stesso Bahrein o nello Yemen di Saleh per realizzare quanto abbastanza nutrita fosse la compagnia.

Altrettanto noto è però come le preoccupazioni di Ryad siano le preoccupazioni di Washington e come tutti e due abbiano” l’interesse di minimizzare il loro ruolo negli avvenimenti che si susseguono in questa regione dove troppo spesso gli americani sono stati accusati di ingerenza e i sauditi di servilismo”.[1]

Ma l’attivismo dei paesi del Golfo non si limita a quest’opera di polizia regionale in quanto troviamo sempre l’Arabia Saudita, insieme a Qatar ed Emirati Arabi,  far parte della  “coalizione dei volenterosi” che sotto l’ombrello della Nato da inizio alle operazioni belliche contro il regime di Mohammar Gheddafi.

Per gli americani e gli stessi europei va più che bene la partecipazione dei sauditi anche in cambio di una acquiescenza più che interessata a che Ryad possa esercitare il suo controllo sulle faccende “domestiche” nel Golfo Persico soprattutto in funzione anti-Iran, rivale acerrimo – come potenza regionale – in termini geopolitici, energetici e religiosi.

Appare pertanto appropriato, di fronte a questi “modelli di coerenza”, parlare di “doppio standard” poiché “ in paesi come l’Egitto, la Tunisia e la Libia essi hanno accettato a malincuore o addirittura sostengono i cambiamenti democratici che vengono chiesti a gran voce dai popoli di questi paesi, mentre nel Bahrein, nello Yemen e in Arabia Saudita essi considerano le rivendicazioni di libertà e uguaglianza come questioni secondarie rispetto alle proprie esigenze energetiche e di sicurezza, e alla stabilità regionale”.[2]

Ed ecco quindi che il velo d’ipocrisia del finto umanitarismo viene squarciato e svela i veri motivi per cui gli USA e la UE hanno premuto per intervenire in Libia.

La necessità di eliminare un soggetto politico indipendente e, perciò stesso, potenzialmente pericoloso in termini prettamente imperialistici – e Gheddafi lo era – si coniuga con la ridefinizione di un assetto di controllo, da parte europea e americana, su di un area in cui sono concentrate rilevanti riserve energetiche. Tutto questo può anche valere l’appoggio ad elementi islamici come la Fratellanza Musulmana  o i Salafiti che, in Libia per restare all’ambito dei ribelli, vanno a svolgere  compiti assai simili a quelli che ebbero i Talebani nella Jihad contro l’Armata Rossa in Afghanistan.

In un contesto siffatto quale altro termine vien da usare – se non quello di connivenza – allorquando le prime armi ai ribelli libici vengono distribuite da un commando islamista che aveva precedentemente assaltato una caserma dell’esercito libico? E come valutare, allo stesso tempo, l’opera di disinformazione scientifica portata avanti dal canale satellitare “Al Jazeera” controllato dall’emiro qatarino Al Thani?

L’estremismo islamico se sapientemente manovrato può anche tornar utile come i fatti, oltre alla Libia, stanno sufficientemente dimostrando in Egitto o in Tunisia laddove le rivolte portate avanti dai vari movimenti sono state percepite – e lo sono tuttora - come una pericolosa espansione di instabilità destinata a gonfiarsi sempre più in quanto alimentata dalla crisi economica con tutte le sue inevitabili ricadute politiche e sociali.

In termini di conservazione, quindi, i movimenti islamici vanno ad assumere una rilevanza particolare ed a giocare un ruolo fondamentale nei futuri assetti politici e istituzionali tant’è che sia nella “nuova” Libia che in Egitto o in Tunisia il riferimento alla “sharia”, come legge di derivazione religiosa che sarà alla base della legislazione, non poteva essere più esplicito.

Per sintetizzare meglio:” Così, anche i regimi che pure cercheranno di reprimere l’Islam politico non riusciranno mai a prescindere del tutto dal riferimento alla religione come codice di legittimazione”.[3]

A risaltare maggiormente in tale contesto è un progressiva contaminazione tra la precettistica islamica e le tesi liberiste, giocata interamente sulla campo della più becera conservazione.

L’Islamismo si contenta di allinearsi a queste tesi e di converso – in linea generale – presta poca attenzione alle questioni sociali, la qualcosa si riflette, ad esempio in Egitto, nella posizione assai defilata della Fratellanza musulmana nelle manifestazioni di piazza Tahrir. Non solo. Sempre i Fratelli musulmani hanno esplicitamente condannato i grandi scioperi degli operai e le lotte dei “fellah” (contadini) egiziani stando, al contempo, ben vigili nel difendere la proprietà delle loro terre come si conviene, d’altronde, a dei borghesi a tutto tondo che si sono guardati bene – nella situazione egiziana attuale – di formulare qualsiasi programma economico-sociale per la semplice ragione che – forti del patronato saudita  e quindi, per estensione, di quello a stelle e strisce – non mettono in discussione né un liberismo sfrenato né il ritorno ad un certo dirigismo che hanno costituito proprio gli obiettivi contro cui sono state inscenate le manifestazioni.

Lottare contro le disuguaglianze sociali o per la riduzione della povertà non rientra tra le priorità dell’Islam politico forte com’è della convinzione (o della convenienza) che la “zakat” (l’elemosina legale codificata che costituisce uno dei cinque pilastri dell’Islam) sia la più alta forma di politica redistributiva.

Non molto difforme si presenta la situazione tunisina laddove ad una modernità che si reggeva prevalentemente sulla separazione degli ambiti politico e religioso oltre che su espliciti presupposti razionalisti occidentali, inseriti nella Carta costituzionale del 1956, si contrappone, oggi, il programma del partito religioso “Ennahda” (Rinascita: in arabo) che si autodefinisce “l’Islam moderno” e come tale si guarda bene dal mettere in discussione il liberismo e neppure l’apertura commerciale verso l’altra sponda del Mediterraneo sempre che, tuttavia, ci sia un certo riequilibrio tra gli investitori occidentali e quelli islamici, provenienti dalla regione o dai paesi del Golfo verso i quali ci sono – in tutta evidenza – dei debiti di riconoscenza.

Tutto cambi affinchè nulla cambi

Trattandosi di aiuti mirati allo scopo di preservare la stabilità della regione nonché di operare – a livello di profilassi – per circoscrivere l’eventuale contagio nonché depotenziare i vari movimenti inibendo loro la possibilità di svilupparsi, magari, in funzione anti-sistema ne consegue che tutte le problematiche che hanno costituito la causa che ha fatto deflagrare la situazione sono rimaste disattese quando non del tutto sono andate ad aggravarsi.

Analisti più che attenti che rifuggono dalla lirica rivoluzionaria sul nuovo 1989 – quello arabo – pongono giustamente l’accento sulla depressione economica,sull’emergenza sociale e sull’insicurezza geopolitica che investe tutta l’area del Nord Africa e dello stesso Medio Oriente.

Ci si pone l’ovvia domanda se a seguito delle rivolte nordafricane – Libia a parte - si sia verificato un vero e proprio cambiamento o se, invece, non si stia assistendo ad una riedizione/restaurazione dei vecchi regimi dietro la facciata di riforme puramente cosmetiche considerato che “Alcuni autocrati sono stati liquidati ma i meccanismi di potere che li avevano espressi mostrano capacità adattive (Tunisia, Egitto) e/o reattive (Yemen) tali da mitigare la spinta al cambiamento canalizzandola entro i cardini riverniciati del vecchio ordine oppure sfibrandola nel caos organizzato di provocazione e repressione”.[4]

In tutto ciò risiede il motivo per cui in Tunisia riesplode la rabbia dei manifestanti che ad ormai nove mesi dalla “Rivoluzione dei gelsomini” non hanno avuto modo di apprezzare alcun cambiamento da parte del governo di transizione: le riforme annunciate sono rimaste lettera morta, la disoccupazione permane altissima mentre, allo stesso tempo, parecchi alti funzionari dell’ex regime di Ben Alì godono ancora di una inspiegabile impunità che fa il paio con la presenza di politici del vecchio partito al potere, il Rassemblementi Constitutionnel Democratique, nell’attuale governo di transizione.

Al vertice del G8 di Deauville del maggio scorso venne deciso, al fine di affrontare le problematiche sociali ed economiche emerse con la “primavera araba, di istituire un fondo di 35 miliardi di dollari per sostenere la transizione democratica nonché finanziare un piano di riforme unitamente ad un altro di aiuti economici alla crescita e i paesi del Golfo – segnatamente il Qatar - risultano essere tra gli investitori esteri più attivi in special modo nel settore finanziario, minerario e tecnico avendo compreso, al pari di altre grandi aziende internazionali e nazionali, che nell’odierna Tunisia si possono fare grandi affari.

Ma è proprio tutto questo che viene guardato con molta circospezione da quella parte della società tunisina che ha portato avanti la rivolta, ossia che questa massiccia invasione di capitale straniero non abbia modo, alla fine, di tradursi in fattivi benefici.

Houssen Hajlaoui, sul blog “Nawaat”, si chiedeva se” Tunisia ed Egitto, i cui governi, non ancora eletti, si stanno indebitando con le grandi istituzioni economiche mondiali, non siano destinati a passare dalla “dittatura alla schiavitù” schiacciati dagli oneri finanziari…” ed ancora “Dovremo restituire dei soldi che non abbiamo deciso di prendere a prestito e saremo obbligati a rispettare le loro agende come e più dei dittatori che abbiamo rimosso”.[5]

L’attuale situazione dell’Egitto è sintetizzabile nella dichiarazione di un leader della giunta militare provvisoria, il generale Mahmud Nasr, secondo cui si profilerebbe una “rivoluzione degli affamati” a fronte di una situazione, a livello di finanze statali, assai deficitaria.

Le difficoltà economiche sono andate via via peggiorando e i suoi endemici, nonchè irrisolti, problemi socio-economici contrassegnano la realtà attuale: disoccupazione galoppante, soprattutto giovanile, una progressiva proletarizzazione del ceto medio, diseguaglianze economiche col loro lascito di povertà diffusa.

Il ministro del lavoro e dell’immigrazione, Ahmed Borai, per rendere ancor più verosimile il quadro di rappresentazione ha esplicitamente dichiarato :” Sapete cosa accadrà se sbagliamo a stabilire il minimo salariale? La gente scenderà di nuovo in piazza Tahrir, o meglio, brucerà tutto”.[6]

Si comprendono quindi – inseriti in quest’ottica – gli ammonimenti del Csfa (Consiglio supremo delle forze armate) che, il giorno successivo al suo insediamento, affermava che avrebbe applicato la decisione di vietare gli scioperi portando quindi a compimento un restauro di quell’ordine tanto caro ai militari, alla dirigenza della Fratellanza musulmana ed alle forze conservatrici.

Si ha a che fare – in tutta evidenza – con un’operazione preventiva che mira alla dissuasione, ad un rientro nei ranghi, al mantenimento di una pace sociale che costituiscono i soli presupposti per attrarre investimenti nazionali ed esteri e quindi, per esclusione, vengono emarginate con decisione le ipotesi di ri-nazionalizzazione di quelle fabbriche che, dal 2000, secondo i dettami dell’”infallibilità neo-liberista” sono state privatizzate.

L’ambasciatrice americana Margaret Scobey, da fervente sostenitrice di tali dettami, trovava modo di sostenere che “ Un ritorno alle nazionalizzazioni scoraggerebbe notevolmente gli investimenti. La storia dimostra che la privatizzazione è stata produttiva, utile e vantaggiosa perché ha aiutato numerosi paesi a diventare delle democrazie”[7].

Infatti…

D’altro canto c’è da tenere nel dovuto conto che l’Egitto ha una sua rilevanza strategica per quanto concerne gli equilibri mediterranei, e non solo, per cui sono state avanzate diverse profferte di intervento economico da parte dei vari organismi internazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per gli investimenti, la Banca europea di ricostruzione e sviluppo, la stessa Banca mondiale che per bocca del suo presidente, Robert Zoellick, ha chiarito – nel caso qualcuno avesse voluto equivocare – che l’erogazione di queste somme sarebbe stata vincolata all’attuazione di un piano di riforme che aprano, ulteriormente, l’economia egiziana alle piacevolezze del “mitico mercato”.

Detto per inciso, si tratta delle medesime riforme che hanno convinto gran parte degli egiziani a scendere in piazza e che fanno dire ad Hasan Nafi, politologo dell’Università del Cairo, che “l’esperienza egiziana con la Banca mondiale ed il Fondo monetario è totalmente negativa, perché i cosiddetti aggiustamenti economici strutturali effettuati sotto la loro egida hanno reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri”.[8]

La Libia rispetto agli altri due contesti presenta precipui tratti di differenziazione in quanto nel caso libico il movimento ha preso la strada di una rivolta armata contro l’esercito, assumendo i tratti di una guerra civile piuttosto che quelli di una ondata di manifestazioni.

I prodromi si erano già evidenziati quando il regime era stato “indotto” a passare da un modello - che, con tutte le sue storture e contraddizioni, riusciva, tramite una certa redistribuzione della rendita petrolifera, ad assicurare, mediamente, un reddito pro-capite più elevato rispetto a quello di tanti altri paesi arabi - al solito modello neo-liberista che aveva sortito l’effetto di accentuare le difficoltà sociali della maggioranza dei libici.

Su una situazione che andava assumendo crescenti picchi di criticità hanno avuto modo di approfittare un Islam politico, sempre esistente in Libia nonostante la politica di repressione del regime, nonché le pulsioni regionaliste.

Guerra di Libia. Guerre all’orizzonte. Guerra permanente

La guerra di Libia fornisce il giusto abbrivio per comprendere i motivi veri – prescindendo quindi dalle insulsaggini a sfondo umanitario ammannite per giustificare l’ultimo dei tanti conflitti bellici – che sottendono all’intervento della “coalizione dei briganti” nel paese nordafricano.

Un intervento – sia chiaro tutto ciò – pianificato ne minimi dettagli già nel 2008, secondo quanto affermato senza tanti giri di parole dalla giornalista di “Le Monde” Natalie Nougayrède e che aveva, sin dall’inizio, come mire, le vaste risorse di petrolio e di gas nonché il controllo sui copiosi capitali libici. Ma più importanti dello stesso petrolio e del gas sono i giacimenti fossili di acqua esistenti nel sottosuolo del Sahara e che sarebbero dovuti servire per i paesi africani del Sahel ma, ai quali giacimenti, le multinazionali francesi si sono premurate di cambiare la destinazione d’uso finendo col privilegiare impieghi ben più redditizi come la produzione di agro-combustibili. Motivi più che validi – secondo un’ottica imperialistica – per giustificare un dinamismo che ha visto la Francia investire con decisione sul rovesciamento del regime di Gheddafi armando i ribelli e facendo pressioni per un intervento della Nato. La Francia – c’è da aggiungere – si è servita della guerra in Libia  anche ai fini di un riposizionamento interno alla UE contrapponendo alla egemonia economica tedesca un protagonismo di natura militare tutto teso alla rapina delle risorse libiche.

Vero è che Gheddafi aveva rappresentato a lungo un ostacolo per gli interessi francesi contrastando l’Unione per il Mediterraneo, creatura voluta da Sarkozy per avviare partnership coi paesi africani e mediorientali, ma era soprattutto il suo progetto relativo alla istituzione della Banca Africana che andava a collidere con l’area di influenza francese.

In tutta questa vicenda gli Usa hanno accuratamente evitato una loro sovraesposizione in quanto  paese indebitato fino al collo e che vive all’interno di una contraddizione per cui “ non si può ritrarsi dal globo ed al contempo dominarlo”  ossia gli Stati Uniti non possono permettersi di restringere il fronte dei loro impegni senza che lo standard di potenza egemone non venga messo in discussione. Meglio quindi concentrare le proprie attenzioni sulle zone di crisi che possono minacciare i suoi interessi vitali disimpegnandosi – in termini assai relativi, s’intende – dalle fasce in cui ad essere vitali sono gli interessi dei propri partner/competitori. Ne consegue un diverso posizionamento che si traduce in minori costi e soprattutto in minori perdite di vite umane e che rappresenta il nocciolo della cosiddetta “dottrina Obama” che, lungi dalla sovraesposizione geostrategica, economica, finanziaria che aveva caratterizzato gli anni delle amministrazioni Clinton e Bush, consente a Washington di mandare avanti la Francia e la Gran Bretagna salvo far sentire tutto il peso della “sua” potenza bellica sotto opportuna copertura dell’egida della Nato e - chi oserebbe metterlo in discussione? - a “difesa dei civili libici”.

Il modello evoluto del presidente americano prevede infatti di stare dentro agli eventi allo scopo di condizionarne il decorso e, soprattutto, l’esito.

Per intanto Obama ha la pressante esigenza di trasferire l’Africom (il comando militare USA per l’Africa) che finora aveva base a Stuttgart in Germania, con l’obiettivo strategico di controllare l’Africa, in funzione soprattutto anti-cinese, con un occhio di riguardo alle forniture di petrolio e di gas.

Nella spartizione del bottino la trama sembra svolgersi secondo logiche e criteri che tengono conto, segnatamente, del grado di coinvolgimento dei singoli paesi nel conflitto libico per cui sono previste “differenziazioni” nei confronti di Cina, Russia e Brasile. E’ interesse, infatti, di Usa e Francia sbattere fuori la Cina così come è interesse del Qatar poter disporre del greggio libico (assai ambito perché contiene poco zolfo ed è ad alta resa di prodotto) per miscelarlo col proprio greggio pesante e poter quindi piazzare sul mercato maggiori quote di petrolio.

Gli scenari si fanno un po’ più fluttuanti allorchè l’attenzione si polarizza sulla ricostruzione resa imprescindibile – e non potrebbe essere diversamente – considerato che la Libia è stata bombardata con cinquantamila bombe rigorosamente “intelligenti” e “precise” colpendo e devastando aree urbane e i civili, con notevole beneficio – appunto – per gli affari della ricostruzione.

La Cina, ad esempio, proprio per limitare i danni ed in considerazione dei grossi progetti infrastrutturali, in particolar modo nel settore ferroviario e delle telecomunicazioni, ritiene che ad occuparsene debbano essere le Nazioni Unite in un’opera di coordinamento e di cooperazione con l’Unione africana e la Lega araba.

Petrolio, gas e ricostruzione: il bottino vero, lo scopo autentico per cui s’è fatta questa guerra a chi andrà?

Quella libica è stata una guerra tipicamente imperialista ossia una guerra per il saccheggio delle risorse mondiali. Ed è una guerra tipicamente imperialista anche perché è una guerra per la spartizione delle ricchezze mondiali, con relativo scontro interimperialistico, tra le varie potenze.

E’ appena toccato alla Libia. Venti di guerra, tuttavia, già sembrano approssimarsi su un quadrante geo-strategico di rilevantissima importanza come quello iraniano. Israele, infatti, sarebbe già pronto ad attaccare le postazioni nucleari dell’Iran ma, com’è consequenziale, non si limiterà solo a quelle. Di certo se non si sentisse le spalle coperte dagli americani, Tel Haviv avrebbe più di una remora ad imbarcarsi, da sola, in una simile avventura. D’altro canto questa nuova iniziativa bellica andrebbe ad incastrarsi con un altro “casus belli” che vede contrapposti, nel Mediterraneo orientale, la Repubblica di Cipro e la Turchia. Materia del contendere sarebbe un giacimento di 450 trilioni di metri cubi di gas naturale presente in quel tratto di mare. Israele avrebbe offerto la propria collaborazione per le prospezioni di idrocarburi col benestare di Stati Uniti, Russia ed UE, cosa che andrebbe a configgere con gli interessi della Turchia. In entrambi i casi assistiamo oramai al tentativo più che palese di ridisegnare un nuovo Medio Oriente in cui le alleanze come gli stessi conflitti assumono sempre più nitidamente i tratti di una geometria ad assetto assai variabile in cui l’unica costante, il denominatore comune che offre lo sfondo a tutto è la guerra.

Guerra per il controllo economico, per l’influenza diplomatica, per l’egemonia politica, per la supremazia militare.

Da “Per una messa a punto del concetto di decadenza”[9] citiamo, per sintesi:” L’avanzare della decadenza del capitalismo ha determinato che le guerre non siano solo una parentesi nella vita del capitale ma siano diventate un modo permanente di vivere della società borghese. Una società come quella capitalistica per continuare a riprodursi è portata quotidianamente a distruggere uomini e mezzi per cui la guerra permanente è funzionale agli interessi delle grandi oligarchie economiche e finanziarie al potere. La guerra imperialistica permanente di questi ultimi decenni ha avuto come unica conseguenza l’arricchimento esclusivo di alcune frange della borghesia internazionale e la distruzione di interi paesi e, a differenza dei conflitti bellici del passato, non crea le premesse di una nuova fase di sviluppo dell’economia attraverso la ricostruzione dei sistemi produttivi distrutti ma unicamente il massacro di milioni di proletari e la distruzione generalizzata”.

Sembra proprio sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda il movimento americano “Occupy Wall Street” secondo il quale:” A questo punto non basta piangere sul pacifismo versato che non c’è più. La questione vera è interrogarsi subito sul nesso indissolubile tra crisi globale del capitalismo e guerra”.[10]

I movimenti nordafricani oggi

Quest’ultimo riferimento offre la stura per ritornare sui movimenti di protesta del Nord Africa a cui, successivamente, si sono riferiti tutti quanti gli altri.

Volendoci soffermare sulla situazione che stanno vivendo oggi - anche se sarebbe più calzante riferirsi alla situazione che stanno subendo – per tracciarne un bilancio seppur breve, non si può sottacere il fatto che, vuoi per cause esogene dovute alla reazione dei gruppi di potere, orientati, come è ovvio, alla preservazione dello “status quo”,vuoi per cause endogene riferibili ai limiti propri di un  movimentismo tout court che, anche tenendo conto delle dovute differenziazioni,  evidenzia nelle sue richieste la totale assenza di qualsiasi contenuto di classe.

Il movimento, sia esso tunisino o egiziano, non si è mai proposto di operare al di fuori degli ambiti della democrazia borghese esigendo però – è ciò che si evince dagli slogans - che vengano fatti dei passi, vengano varati dei provvedimenti che rendano più accettabile “il meno peggio dei sistemi economico/politici.

I limiti e le contraddizioni di tali richieste sono più che palesi in quanto prescindono da un’attenta analisi di ciò che rappresenta la borghesia, di ciò che sono i rapporti di produzione capitalistici, di ciò che sono i limiti in cui si dibatte il processo di accumulazione capitalistica.

Tutto questo discende anche dalla composizione di tali movimenti in cui sono andati a confluire i settori sociali più sfavoriti: i giovani, la classe operaia oltre ad ampi settori di piccola borghesia.

E sono stati proprio quest’ultimi a dare l’impronta alle manifestazioni, a caratterizzarle con slogans con cui si chiedeva maggiore libertà, maggiore democrazia, rivendicazioni che venivano sostenute, abilmente,  dalle stesse potenze imperialistiche che avevano insediato e sostenuto quei gruppi di potere contro cui si volgeva la rabbia dei manifestanti. Il gioco era molto chiaro: le stesse potenze, preoccupate per un possibile sfaldamento degli equilibri geo-politici della regione avevano tutta la convenienza a fare proprie rivendicazioni che, in quanto sostanzialmente piccolo-borghesi, non minavano di certo le fondamenta di tali sistemi.

E’ tanto vero tutto ciò che in Egitto, ad esempio “ con gli occhi puntati solo su piazza Tahrir, i giornali nazionali e internazionali hanno dimenticato che la rivoluzione ha delle radici operaie.

Operai denunciano apertamente che è stata loro rubata la data del 6 aprile in quanto il movimento che ha invitato a manifestare ha preso il nome “6 aprile” cancellandone completamente il suo significato originario”.[11]

Eppure per gli eventi nordafricani si è addirittura scomodato il termine “rivoluzione” cosa che dovrebbe indurre a qualche riflessione sul grado di manipolazione, disinformazione, strumentalizzazione, toccato  dai mezzi di comunicazione di massa. E non solo. E’ come se si volesse dare rappresentazione a questo disagio sociale crescente, a questa rabbia montante, a tutta questa lacerante insoddisfazione in termini, però, attenuativi operando, quindi, una sorta di “reductio ad unum” attraverso cui si dare maggior risalto alla componente moderata, generalizzandola ed eliminandone qualsiasi aspetto anti-sistema.

In Egitto – tanto per restare in tema – la protesta era simboleggiata dal pugno chiuso di “6 aprile”: lo stesso simbolo del movimento serbo “Otpor” che, a suo tempo, aveva trovato modo di esportare le sue strategie in Ucraina e Georgia. Ma chi c’è dietro Otpor? Alcuni suoi membri, già nel 2009, si dichiaravano orgogliosi- in interviste rilasciate al “Manifesto” e al “Diario”- di essere aiutati da un servizio di intelligence come la CIA. Ma gli aiuti finanziari provenivano dal National Endowment for Democracy (Ned), che ha vasta esperienza nel finanziamento di gruppi di opposizione, unitamente ad altre organizzazioni come la Freedom House o la Usaid.

Sono poi le fondazioni private, come l’Albert Einstein Institute, i canali attraverso cui gli USA veicolano fondi nonché supporto strategico e politico a gruppi e partiti politici in tutto il mondo.

Tutto ciò ha niente di esoterico in quanto questi fondi vengono – testualmente – usati per la “democratizzazione” e per formare giovani, provenienti da settori privilegiati della società, con tutto il loro retroterra elitario, al fine di creare una rete di movimenti democratici interconnessi a livello mondiale.

E’ ragionevolmente plausibile chiedersi se in Egitto non sia avvenuto qualcosa di assai simile a quanto avvenuto in Ucraina, in Serbia, in Georgia?

Domanda tutt’altro che priva di senso ma che, anzi, concorre, insieme ad altre considerazioni, a fornire una chiave di lettura più articolata delle dinamiche che hanno permeato l’operare dei movimenti sia nella fase ascendente che nell’attuale fase di stallo.

Non fossero bastante le più che prevedibili reazioni di un potere, che mira, come è ovvio, alla propria autoconservazione, si è aggiunta l’inevitabile frantumazione, l’immancabile dispersione che fa da corollario alla progressiva percezione che le manifestazioni, gli scioperi continui, le stesse lotte operaie, in Tunisia come in Egitto, non ha scalfito il potere: la rivolta ha eliminato dalla scena politica i vari Ben Alì o Mubarak. Ma nulla di più.

Ha finito per restare impaniata nei percorsi, nelle logiche scelte da altri. E’ stata irretita da strumentalizzazioni, da manipolazioni che ne hanno diluito lo stesso originario spirito di lotta.

Si sono palesati, nella propria crudezza, tutti i limiti che sono propri di un movimentismo, di uno spontaneismo autoreferenziali del tutto inadeguati a far percepire ai vari settori del proletariato la coscienza di appartenere ad unica classe.

Il succo di tutto il discorso alla fine si riduce a questo: di fronte ad un erompere di moti di classe sempre più ravvicinati, sempre più pervasivi si deve “favorire la spontaneità delle lotte” o, piuttosto, adoperarsi per la costruzione di una organizzazione politica – il partito – che sappia dare, allorquando il proletariato produce le sue lotte, le sue rivolte, le giuste indicazioni alla lotta?

“Un proletariato frantumato sul territorio, incapace di riconoscersi come tale, sarà anche in grado di esprimere straordinari episodi di lotta, ma, in assenza di un’organizzazione rivoluzionaria con una piattaforma politica capace di costituire un chiaro punto di riferimento all’interno della classe, sarà inevitabilmente sconfitto dalla reazione borghese”.[12]

Gianfranco Greco

Note



[1] Jacques Charmelot: Dal re saudita parte la controrivoluzione a suon di dollari. Limes n.3/2011

[2] Franco Rizzi – Mediterraneo in rivolta – Alberto Castelvecchi  Editore

[3] Renzo Guolo: Se la religione diventa l’unica fonte del diritto – La Repubblica 25.10.11

[4] Lucio Caracciolo: La primavera finita – La Repubblica 07.07.11

[5] Lorenzo Declich: Tunisia, prove tecniche di futuro – Limes n.3/2011

[6] Alain Gresh: Egitto, la rivolta ai cancelli delle fabbriche – Le Monde diplomatique – Luglio 2011

[7] idem

[8] ibidem

[9] Per una messa a punto del concetto di decadenza……….?

[10] Tommaso Di Francesco: Venti di guerra. Rischio atomica. Tutti contro l’Iran – Il Manifesto 10 novembre 2011

[11] Alain Gresh: Egitto, la rivolta ai cancelli delle fabbriche – Le Monde diplomatique – Luglio 2011

[12] Lorenzo Procopio: La rivolta della periferia parigina – Prometeo – dicembre 2005