Bilancio e Prospettive a dieci anni dalla costituzione dell’Istituto Onorato Damen

Creato: 29 Febbraio 2020 Ultima modifica: 29 Febbraio 2020
Scritto da Giorgio Paolucci Visite: 1079

Dalla rivista D-M-D' N°14

Senza rivoluzione comunista una società finalmente umana che metta fine al dominio e allo sfruttamento, che riconcili umanità e natura grazie a una prassi sociale, trasparente, non mistificata, non finalizzata al profitto, ma che abbia come obiettivo il muoversi in direzione degli interessi e del ben-essere degli uomini, in armonica relazione con il contesto ambientale, non potrà mai vedere la luce.

aionRicorre quest’anno il 10° anniversario della costituzione del nostro Istituto. Consuetudine vuole che in tali ricorrenze si tracci un bilancio dell’esperienza fatta. Nel nostro caso, dati i compiti e le finalità che ci eravamo assegnati, non si tratta, però, di redigere un bilancio puramente contabile delle entrate e delle uscite per valutare su questa base il risultato raggiunto, quanto di verificare se la ragioni poste a fondamento di questa nostra esperienza sussistano ancora o siano venute meno.

 A ispirare la nostra iniziativa, infatti, non fu l’intenzione di dare vita a un nuovo gruppo o peggio a un altro sedicente partito comunista internazionalista per ritagliarsi uno spazio nella già affollatissima e frastagliatissima area della sinistra comunista internazionalista, ma la constatazione che a partire almeno dai primi anni ’70 del secolo scorso, insieme al terzo ciclo di accumulazione del capitale, si era chiusa un’intera fase storica e che perciò fosse necessaria una più puntuale sistematizzazione teorica-politica dei dati relativi al nuovo contesto economico-sociale che la crisi andava determinando.

«Eccoci, dunque - scrivevamo - non ad alimentare l’ennesima scissione dell’atomo, né tanto meno a costituire  un altro sedicente Partito comunista internazionalista, ma fortemente impegnati nel tentativo di dar vita a un punto di riferimento aperto al contributo di tutti quelli che hanno a cuore le sorti del proletariato, e che ritengono che  i problemi della  rivoluzione comunista nel XXI secolo non possano essere affrontati utilizzando gli stessi schemi interpretativi  della Terza Internazionale arretrando sulle sue posizioni quando non su quelle della Seconda»[1] .

È venuta meno questa esigenza? Non ci pare. Solo a un cieco potrebbe sfuggire che sono in atto tali e tanti mutamenti negli assetti economico-sociali che ignorarli equivarrebbe a inibirsi ogni possibilità di comprendere quel che il capitalismo ci riserva.

Crisi del ciclo di accumulazione o crisi storica della formazione sociale borghese?

La stessa crisi, benché le sue cause siano state individuate con precisione chirurgica dalla critica marxista, nel suo evolversi sta delineando prospettive a dir poco inquietanti per le sorti del proletariato mondiale e degli strati sociali a esso assimilabili, nonché per la stragrande maggioranza dell’umanità.

 In particolare sta emergendo che, a causa delle nuove tecnologie che distruggono più lavori e posti di lavoro di quanti contribuiscano a crearne, una fuoriuscita dalla crisi, nell’ambio dell’esperienza storica del capitalismo, appare sempre meno probabile.

Si produce, infatti, sempre di più impiegando sempre meno forza-lavoro. «Tra il 1991 e il 2011, mentre il pil planetario è cresciuto del 66 per cento, il tasso di occupazione globale è diminuito dell’1,1 per cento. In venti anni è stato prodotto un quarto di beni in più con meno lavoro».[2] 

Agli occhi degli economisti borghesi questa è la conferma che il plusvalore - che essi chiamano genericamente surplus – è il frutto non già dello sfruttamento della forza-lavoro ma del progresso tecnico e scientifico applicato alla produzione della ricchezza quando non del tutto del denaro che si valorizza di per sé.  Pertanto sono portati a ritenere, come già Keynes un secolo fa, che grazie all’ulteriore sviluppo delle nuove tecnologie, e in particolare dell’Intelligenza artificiale, il problema che ben presto l’umanità dovrà risolvere non sarà più quello economico, ma come «impiegare il tempo libero… che la scienza gli [avrà n.d.r.] guadagnato per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».[3]  Fino a ora è accaduto esattamente il contrario, ma quel che peggio è che proprio con la diffusione delle nuove tecnologie, il problema economico per una parte crescente della popolazione mondiale è divenuto irrisolvibile. 

L’esperienza cinese e il data tagger

Per esempio, in Cina, il paese che forse più di ogni altro sta premendo sul pedale dell’automazione, in soli tre anni, tra il 2015 e il 2018, nelle aziende in cui è giunta, «l’Intelligenza artificiale ha cancellato fino al 40 per cento dei posti di lavoro e dei lavoratori».[4]

Nel frattempo, è nato un nuovo lavoro e una nuova figura professionale: il data tagger.

Definito così, in inglese e in associazione con l’Intelligenza artificiale, si è portati a pensare che si tratti proprio di un modo per «impiegare il tempo libero… per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».  Invece - tradimento della tecnica! - si tratta di «Etichettare qualsiasi cosa: guardare una foto su uno schermo e apporre manualmente etichette, guardare su un video e apporre etichette, ascoltare un audio e apporre etichette. Su qualsiasi cosa: il volto di una persona, una strada, una lunga fila di macchine, panorami e luoghi geografici, animali, tutto». E questo anche per 12, 13 ore al giorno e per un salario lordo di circa 300 euro al mese.[5]  Altro che vivere piacevolmente e con saggezza! È diecimila volte peggio perfino della catena di montaggio di epoca fordista. E per di più anche il data tagger è destinato a scomparire. Secondo alcune proiezioni, nei prossimi anni, grazie agli ulteriori sviluppi dell’intelligenza artificiale, in tutto il mondo ben l’80 per cento di tutti gli attuali lavori è destinato a essere trasferito al sistema delle macchine.[6] In ogni caso, è certo che i nuovi posti di lavoro saranno di gran lunga inferiori a quelli perduti e, salvo per un numero molto ristretto di tecnici superspecializzati, totalmente dequalificati e scarsamente retribuiti.

Il robot non va al supermercato

Ora, per quanto l’economia borghese ritenga infondata la teoria del valore - lavoro di Marx, resta però che le merci prodotte, affinché il processo di valorizzazione del capitale vada a buon fine, devono essere vendute e i robot tutto possono fare tranne che andare al supermercato. Insomma, anche a voler guardare la questione solo dal punto di vista dell’economia politica borghese, è evidente che con una così massiccia e assoluta sostituzione di forza-lavoro con le macchine, il sistema non può reggere. Sarebbe necessario, come è accaduto in tutte le altre grandi rivoluzioni tecnologiche, che nascessero nuovi settori produttivi e nuovi lavori e posti di lavoro almeno in numero tale da compensare quelli perduti. Che è esattamente il contrario di quel che si annuncia con gli ulteriori sviluppi delle nuove tecnologie.  Insomma: più intelligenza artificiale può aggiungere solo altra crisi a quella in cui si dimena ormai da decenni il modo di produzione capitalistico.[7] 

Il dominio della fabbrica della finanza e la guerra imperialista permanente

D’altra parte, come si potrebbe spiegare il fatto che già da qualche decennio la cosiddetta industria della finanzia ha sopravanzato quella della cosiddetta economia reale se non con il fatto che in quest’ultima una massa crescente di capitali non trova adeguata remunerazione in conseguenza proprio della riduzione crescente dell’impiego di lavoro vivo nella produzione delle merci? Ormai si produce più capitale monetario a partire da altro capitale monetario, e perciò fittizio, che non mediante il suo investimento nel processo di produzione delle merci secondo la formula del Capitale di Marx D-M-D’. Negli ultimi decenni ne è stato creato così tanto che per produrre tutta la ricchezza reale che esso nominalmente rappresenta occorrerebbero ottocento anni senza che nel frattempo l’umanità intera ne consumi una sola briciola. Nondimeno la sua produzione non conosce sosta.

Secondo un dato fornito dall’Istitute of International Finance nel 2018: «Il debito mondiale ha raggiunto l’incredibile cifra di 233.000 miliardi di dollari, pari al 325% del Pil mondiale [mentre] il valore nozionale dei derivati in circolazione ha raggiunto la stratosferica cifra di 2,2 mila miliardi di euro, pari a 33 volte il Pil mondiale».[8] 

A tale bulimica crescita ha contribuito il fallimento delle politiche di allentamento monetario (quantitative easing) praticate negli ultimi anni dalle maggiori banche mondiali con l’intento di immettere liquidità a basso costo nel sistema e rilanciare così l’economia reale. Nel quadriennio 2015-2018, per rimanere alla sola eurozona: «…Non più del 27% … si è tradotta in prestiti all’economia reale”[9].  La gran parte è servita alla fabbrica della finanza per produrre altro capitale monetario. Vale a dire: nuovo debito a partire da altro debito, sia pubblico sia privato che, però, rifuggendo la sua trasformazione in capitale industriale, non genera plusvalore anche se comunque si appropria di una quota parte di esso. Se ne appropria sotto forma di interessi che, se maturati sul debito pubblico, è lo Stato stesso che provvede a prelevare dai salari, stipendi e pensioni tramite il sistema delle imposte. Al prelievo di quelli maturati sui debiti contratti direttamente dai lavoratori   per finanziare i loro consumi o, come ormai è sempre più frequente, per arrivare alla fatidica fine del mese, ci pensano, invece, le banche e le diverse società finanziarie applicando tassi da strozzinaggio. Per non dire di tutte quelle attività speculative, per esempio sui prezzi delle materie prime o delle derrate alimentari, e di cui in altra sede ci siamo occupati più dettagliatamente. [10]

Il fenomeno in sé non è nuovo: si tratta, infatti di appropriazione parassitaria di plusvalore che in una certa misura c’è sempre stata e vi fa riferimento ripetutamente anche Marx. Con la sostanziale differenza che allora il capitale monetario, che per il singolo capitalista era produttore di soli interessi, una volta prestato, veniva in tutto o in gran parte trasformato in capitale industriale e come tale impiegato direttamente nella catena della produzione del plusvalore. L’interesse riscosso dal prestatore si configurava, quindi, come una quota parte del plusvalore che il suo capitale, comunque, aveva contribuito a produrre. In ultima istanza, cioè, era la fabbrica dell’industria a prevalere su quella della finanza. Oggi non è più così: le parti si sono completamente invertite ed è la fabbrica della finanza che comanda l’intera catena della produzione del plusvalore e si appropria di una parte molto consistente di esso pur non contribuendo, se non in minima parte, alla sua produzione. Non è per puro caso che fino a tutti gli anni ‘80 del secolo scorso, nei primi posti delle classifiche per ordine di fatturato figuravano sempre le maggiori imprese industriali -automobilistiche, siderurgiche, meccaniche - mentre oggi vi figurano le grandi banche internazionali, i grandi Fondi comuni di investimento e le imprese   che gestiscono, tramite apposite piattaforme, il commercio e i servizi on line (Amazon, Google, Face book). Prima di trovare un’impresa industriale in senso stretto, bisogna scorrere la classifica di almeno una decina di posti [11].

Se poi si considera che gran parte di questo capitale monetario, pur essendo una moneta locale costituita da biglietti inconvertibili (vedi il dollaro e in misura minore l’euro), funge anche da mezzo di mezzo di pagamento e riserva internazionale, cioè da denaro mondiale, appare ancora più evidente quanto il fenomeno condizioni, ogni momento della vita economica, politica e sociale fino a impregnare di sé tutto il processo di accumulazione del capitale.

In quanto denaro mondiale esso, infatti, entra nel meccanismo degli scambi internazionali come se fosse capitale reale così come un tempo vi entrava l’oro. Cosi per esempio con il dollaro, benché si tratti di un biglietto cartaceo inconvertibile, si può acquistare il petrolio mediorientale, il grano canadese e quasi tutte le materie prime di importanza strategica prodotte all’estero, al pari delle merci prodotte negli Stati Uniti. Il dollaro, quindi, diversamente dai migranti - bloccati al confine con il Messico o lasciati affogare nel Mediterraneo, espatria senza problemi di sorta. Si intrufola nella catena della produzione del plusvalore su scala mondiale e si appropria, in ragione diretta del volume degli scambi internazionali, di una parte più o meno grande benché non una sola briciola di esso sia made in Usa.

Per gli Usa, da un punto di vista teorico, questo falso denaro mondiale si configura come un debito teoricamente destinato ad estinguersi non appena avrà fatto ritorno in patria e speso per acquistare merci qui prodotte.  Ma in realtà, per la sua gran parte, in quanto denaro mondiale, rimarrà per un tempo indefinito all’estero per regolare le transazioni fra paesi terzi o nei forzieri delle diverse banche centrali  come valuta di riserva internazionale. Dunque, un debito senza scadenza.  Con l’ulteriore vantaggio per gli Usa di poterne – seppure entro certi limiti- determinare importanti variazioni di valore indipendentemente dalle variazioni della quantità di ricchezza reale da essi prodotta. Basterà, per esempio, che la Casa Bianca ordini o rimuova l’embargo verso uno o più paesi produttori di petrolio o lo attacchi militarmente, perché il prezzo di quest’ultimo muti e con esso automaticamente muti anche il valore  di tutta la massa monetaria denominata in dollari e dei titoli da essa derivati, con conseguente spostamento di ingenti quantità di plusvalore da una parte all’altra del pianeta e, quel che più conta, per seguire il filo del nostro ragionamento, dalla fabbrica dell’industria a quella della finanza.[12] Disporre o meno di una moneta locale che funga anche da denaro mondiale è questione di tale importanza da costituire ormai il principale fattore scatenante dello scontro interimperialistico. Lo testimoniano, fra l’altro, gli attacchi sempre più insistenti di Trump contro l’eurozona e l’euro e - come ha dichiarato Putin dopo l’incontro avuto al Cremlino lo scorso 5 giugno con il presidente cinese Xi Jinping - la volontà dei due   paesi (il cui interscambio è regolato ancora per il 75,8 per cento in dollari) «di sviluppare le loro relazioni sulla base delle loro valute nazionali»[13].

Si comprende bene, quindi, anche il motivo per cui non c’è area del pianeta, nel cui sottosuolo scorra petrolio o giaccia una qualche materia prima strategica oggetto di interscambio internazionale, che non sia teatro di guerra e che la guerra da evento episodico, funzionale al superamento delle crisi del ciclo di accumulazione del capitale, sia divenuta permanente. Senza l’esercizio sistematico e permanente della violenza sarebbe, infatti, impossibile imporre un biglietto inconvertibile, ossia un pezzo di carta, come se fosse autentico denaro mondiale e per suo mezzo appropriarsi di ingenti quote del plusvalore prodotto su scala mondiale.

Si tratta di una gigantesca rapina. Ma poiché essa avviene mediante infiltrazione sotto mentite spoglie del capitale fittizio nella catena di estorsione del plusvalore su scala mondiale, per l’economista borghese è il capitale monetario stesso che, una volta prodotto e messo in circolazione, si valorizza di per sé e genera nuova ricchezza. Ma mente pur sapendo di mentire. Non è nuova ricchezza, è ricchezza che si sposta dagli sfruttati agli sfruttatori, dai più poveri ai più ricchi. Lo conferma, peraltro, l’incredibile crescita delle disuguaglianze sociali negli ultimi decenni. Otto individui – ci informa l’Oxfa – hanno accumulato fino a tutto il 2018, la stessa quantità di ricchezza posseduta da metà della popolazione mondiale. Ma ancora più significativo è che nel frattempo il salario medio reale, anche nei paesi capitalisticamente più sviluppati è sostanzialmente fermo sui livelli del 1970. E ciò nonostante, nel frattempo, la produttività del lavoro, grazie alle nuove tecnologie, sia cresciuta di parecchie decine di volte.  Negli Stai Uniti, per esempio, ci informa Robert Reich ex sottosegretario al lavoro durante la presidenza Clinton: «Walmart è il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti. Paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part-time, 8,80 dollari l’ora. Adesso confrontate questo dato con quello del 1955, quando il maggior datore di lavoro degli Stati uniti era la General Motors, che pagava, in media, i suoi lavoratori l’equivalente di quelli che sarebbero 37 dollari oggi.»[14] Se ne può trarre una sola conclusione: dato il grado di sviluppo raggiunto dal modo di produzione capitalistico, il progresso tecnico e scientifico e quello economico, sociale, civile e culturale della società non possono che marciare in direzione opposta. Pertanto la sua conservazione, avendo esso incistata in sé questa insanabile contraddizione, non può in alcun modo prescindere dal crescente affamamento e degrado economico sociale e civile della maggioranza della popolazione mondiale e dall’esercizio della più spietata violenza sia di classe, sia nello scontro interimperialistico.

Solo la rivoluzione comunista può salvare il mondo

Si può, dunque, considerare tutto ciò la conseguenza di una crisi solo economica e temporanea o non invece la conferma che siamo in presenza della crisi storica e irreversibile della formazione sociale borghese nella sua totalità?

Come è facile intuire non si tratta di dirimere una questione meramente filologica, ma di capire e individuare, con la migliore approssimazione possibile, il qui e ora in cui ci troviamo e di conseguenza anche il suo eventuale oltre.

Nel primo caso, infatti - più o meno consapevolmente, poco importa - si ammette – prevedendo semmai opportune riforme di struttura – che, fermi restanti gli attuali rapporti di produzione, il pronostico di Keynes sia destinato a inverarsi anche nel qui e ora del capitalismo.

Nel secondo caso, come invece noi pensiamo, questo è semplicemente impossibile.

Il modo di produzione capitalistico minaccia, per i suoi stessi meccanismi e la sua logica più propria, cioè quella del profitto, ormai la stessa sopravvivenza dell’umanità e dell’intero pianeta. C’è dunque un solo oltre possibile: la rivoluzione comunista.

L’abolizione della schiavitù del lavoro salariato, su cui tutto il mondo borghese si fonda, e di qualsiasi altra forma di schiavitù e subordinazione degli individui ad altri individui, non è più solo auspicabile ma un imperativo non più eludibile. Un imperativo che purtroppo non è facile da cogliere, neppure dalla gran massa dei proletari, benché su di essi gravi sempre più pesante il màglio del capitale.

A causa, da un lato, dello strapotere ideologico della borghesia che, anche grazie al fallimento dell’esperienza russa, le consente di avvalorare facilmente la tesi che il modo di produzione capitalistico sia l’unico modo possibile di produrre la ricchezza in quanto tale. Dall’altro, per l’estrema debolezza in cui versa oggi il proletariato a causa della nuova organizzazione e divisione internazionale del lavoro resa possibile dalle nuove tecnologie. La prima ha favorito l’immissione sul mercato del lavoro di una gran quantità di forza lavoro implementando così la concorrenza fra i lavoratori stessi; la seconda perché ha trasformato i luoghi di lavori in altrettanti non luoghi, che i lavoratori frequentano saltuariamente senza di fatto potersi incontrare e socializzare la comune esperienza di sfruttati.

Anche qui, esattamente tutto il contrario di quanto accadeva in passato, quando l’organizzazione del lavoro implicava la concentrazione di un gran numero di operai in una medesima unità produttiva e, costringendoli a lavorare fianco a fianco notte e giorno, ne favoriva il reciproco riconoscimento come individui facenti parte della medesima, sfruttata, classe sociale inducendoli a lottare uniti contro il nemico comune. Non a caso, proprie in quelle fabbriche, sono nati i primi scioperi e le prime forme di organizzazione operaia (società di mutuo soccorso, leghe operaie, sindacati). Nell’odierno isolamento tutto questo non è più possibile e i capitalisti hanno buon gioco nell’imporre al singolo lavoratore, o gruppo di lavoratori, le condizioni di volta in volta a loro più favorevoli, potendo fra l’altro, sempre grazie alle nuove tecnologie, facilmente delocalizzare la produzione nelle zone del pianeta in cui il costo del lavoro è più basso.

In un contesto così mutato si può ritenere ancora valida la relazione fra lotta economica e lotta politica rivoluzionaria e del rapporto partito/classe negli stessi termini con cui è stata pensata e praticata, almeno fino a tutti gli anni ’80 del secolo scorso, quando era determinante il ruolo della classe operaia di fabbrica quale nucleo centrale e maggioritario dell’intero proletariato?  Noi pensiamo di no.

Ci vuole il partito comunista internazionale e internazionalista

 In conclusione, è cambiata la fabbrica e si è ridotto il peso della classe operaia nel ciclo di produzione delle merci. Di più: con la proletarizzazione di ampi strati di piccola e media borghesia, è cambiata anche la composizione di classe dello stesso proletariato e sono cambiate anche le forme del dominio imperialistico.   Di fronte a tanti cambiamenti sarebbe, da parte nostra, davvero da sciocchi e presuntuosi ritenere di aver assolto, anche solo in minima parte, il compito che ci eravamo prefissi dieci anni fa: contribuire alla sistematizzazione teorico-pratica di tutti i dati inerenti alla condizione odierna del proletariato nella prospettiva della costruzione di un autentico partito comunista internazionale e internazionalista. D’altra parte, senza un partito comunista costituito prima della rivoluzione, centralizzato a livello internazionale, con basi organizzative, teoriche e programmatiche chiare e solide non può esservi rivoluzione.

E senza rivoluzione comunista una società finalmente umana che metta fine al dominio e allo sfruttamento, che riconcili umanità e natura grazie a una prassi sociale, trasparente, non mistificata, non finalizzata al profitto, ma che abbia come obiettivo il muoversi in direzione degli interessi e del ben-essere degli uomini, in armonica relazione con il contesto ambientale, non potrà mai vedere la luce.

È questo oggi storicamente il grande vuoto da colmare e a cui- secondo noi- devono tendere tutti coloro che si richiamano al marxismo rivoluzionario.

Fino a quando questo non accadrà, i proletari e tutti coloro che per vivere non possono fare altro che vendere il proprio tempo, la propria vita, rimarranno per sempre condannati a subire il dominio dispotico e barbaro del capitale.

Dunque, dobbiamo andare avanti. Noi come tutti quei compagni che, ritenendo non più rinviabile questa questione, sono disposti, senza pregiudizi e pregiudiziali di sorta, al confronto il più possibile aperto e franco e a spendersi con l’unico intento di raggiungere al più presto questo obbiettivo. 

[1]“Punto e a capo”, http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/chi-siamo/puntoeacapo

[2]Cfr. P. Bevilacqua, “La merce rara dell’abbondanza”, il Manifesto 28.11.2015

[3]J.M. Keynes, “Prospettive economiche per i nostri nipoti” in: La fine del laissez faire e altri scritti, pp. 57 ss., Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[4]S. Pieranni, “Intelligenza artificiale e Robot -le nuove sfide per i lavoratori cinesi”, il Manifesto 01.09.2018

[5]Cfr. S. Pieranni, “Cina: le catene dell’Intelligenza artificiale”, il Manifesto 11.10. 2018

[6]Cfr. Maurizio Blondet, “Il coyote moment del capitalismo terminale”, https://www.maurizioblondet.it/coyote-moment-del-capitalismo-terminale/

[7]Cfr: Carlo Lozito – Intelligenza artificiale: dannazione o liberazione del lavoratore? D-M-D’ n.13/2018 http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/politicasocieta/487-ia-dannazione

[8]Marco Bersani – L’annuncio della Bce, ovvero la crisi dopo la crisiil Manifesto del 9 marzo 2019.

[9]Ib.

[10]Cfr, G. Paolucci – Il dominio della finanza - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/164-dominiofinanza e La crisi dei subprime, rileggendo Marx - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/161-subprimemarx

[11]Cfr: www.verafinanza.com

[12]Sulla relazione fra le variazioni dei prezzi di petrolio e il valore della massa monetaria denominata in dollari vedi: G. Paolucci: Il saliscendi del prezzo del petrolio ovvero il dominio del virtuale sul reale- http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/190-petrolioreale

[13]Cit. tratta da Yuri Colombo - Dall’economia al Venezuela Xi – Putin, posizioni «coincidenti» - il Manifesto del 6/6/ 2019.

[14]Cit. tratta da: Alan Friedman- Questa non è l’America – New Compton Editori – pag. 63.