Replica agli otto punti di F.D.

Creato: 08 Ottobre 2013 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 2439
Solo perché risultino più chiare le ragioni per cui l’impostazione data da Fabio nel suo ormai famoso articolo sulla caduta del saggio del profitto è stata ritenuta quanto meno a rischio di ingenerare pericolosi equivoci come peraltro, vista la discussione che ne è scaturita, è accaduto, pensiamo che siano opportune alcune ulteriori precisazioni.

Fabio ha scritto: “ Nella fase iniziale dello sviluppo del capitalismo l’obiettivo lo si è raggiunto prolungando, ai limiti delle possibilità umane, la giornata lavorativa. Il plusvalore assoluto è stato, prevalentemente, alla base della massimizzazione del profitto. La giornata lavorativa ha raggiunto anche le 16 ore in Inghilterra e nei maggiori paesi industrializzati. Nella fase storica successiva, i ritmi e l’intensità della riproduzione allargata e dell’accumulazione, hanno dovuto imboccare la strada del macchinismo e della grande industria. La tecnologia ha svolto appieno il suo compito, ha creato le condizioni per la creazione sempre crescente del plusvalore relativo, andando però a modificare il rapporto organico del capitale. L’aumento della produttività del lavoro, la creazione del plusvalore relativo hanno messo in atto la più importante delle contraddizioni del capitalismo, la caduta tendenziale del saggio del profitto.”

 

Secondo Fabio dunque, ci sarebbe stata una fase iniziale dello sviluppo capitalistico, precedente il sistema delle macchine, in cui i capitalisti, evidentemente allo scopo di massimizzare i profitti, hanno puntato tutto o in modo prevalente sul prolungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto). Questa premessa è inesatta. Infatti, come abbiamo visto rileggendo Marx (1° libro- Capitolo 13° pag. 498 e seguenti - Ed Einaudi), la spinta al prolungamento della giornata lavorativa, all’incremento esasperato del plusvalore assoluto, si è manifestata invece proprio come specifica conseguenza del macchinismo e della diminuzione relativa di V rispetto all’incremento del capitale costante. Infatti, – come ci dice chiaramente Marx sempre nel primo libro del Capitale- è diventata prevalente la spinta a incrementare la produzione del plusvalore relativo soltanto quando è risultato impossibile il prolungamento ulteriore della giornata lavorativa sia per gli ovvi limiti fisici che ciò incontra sia per la resistenza opposta dalla classe operaia sia perché oltre un certo limite il prolungamento della giornata lavorativa entra in conflitto con ulteriori incrementi della produttività del lavoro. Ora, poiché i due fenomeni – come dimostra Marx - hanno una causa comune è del tutto evidente che nessuno dei due può essere, a sua volta, assunto come  il motore primo della caduta tendenziale del saggio del profitto sebbene  interagiscano con essa in modi diversi.

 

In realtà sia la spinta a incrementare la produzione del plusvalore assoluto sia quella a incrementare il plusvalore relativo sono figlie delle contraddizioni insite nel processo di accumulazione del capitale e nell’uso “capitalistico delle macchine”; altrimenti dovremmo ammettere che non è nello sfruttamento della forza-lavoro, cioè nel rapporto fra capitale e lavoro,  che risiede la contraddizione da cui trae origine la spinta  a “ modificare la composizione organica del capitale”, ma, come peraltro è costretto a fare Fabio, nella tecnica, anzi nella tecnologia in quanto tale; ad ammettere cioè che essa opera come una potenza autonoma rispetto ai rapporti di produzione vigenti e che  non sarebbero questi ultimi a orientarla e perfino a determinarne le forme e i contenuti del suo utilizzo, ma il contrario. Approderemmo così al famoso convitato di pietra del filosofo Severino che, appunto, individua nell’incontrollabile, perché autonomo dall’agire degli uomini, sviluppo della Tecnica la causa del declino del capitalismo ( E. Severino – Il declino del Capitalismo – Rizzoli editore 1993). Inoltre, se fosse vero – come afferma Fabio - che l’incremento del saggio del plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto) è stato un fenomeno proprio della manifattura, cioè della fase storica precedente quella del macchinismo e della grande industria e quindi prima  del  manifestarsi della legge della caduta del saggio medio del profitto, come si spiega che ancora oggi l’incremento del plusvalore assoluto sarebbe – come sempre Fabio sostiene- l’unica vera controtendenza che si oppone alla legge? E perché i  capitalisti, invece,  non fanno altro che invocare l’aumento della produttività del lavoro come una conditio sine qua non per uscire dalle crisi? Che la tendenza non sia alla caduta del saggio medio del profitto, ma al suicidio? Vuoi vedere che mentre noi auspichiamo la rivoluzione, loro signori risolvono il problema facendosi tutti fuori con un colpo di rivoltella alla tempia?

 

Qualcosa non quadra, tanto più che lo stesso Fabio, ai sostenitori della teoria della Regolazione secondo i quali “la caduta del saggio del profitto sta[va] nel non adeguato aumento della produttività del lavoro e degli alti salari, a fronte di un rapporto organico del capitale sempre più alto” rispondeva: “ Un non adeguato incremento della produttività, non adeguato rispetto all’aumento percentuale del rapporto organico del capitale, sta semplicemente a indicare che una delle controtendenze, la più importante, alla caduta del saggio del profitto, non è sufficientemente efficace. O se si preferisce, che la controtendenza posta in essere dall’aumento del rapporto organico del capitale è percentualmente inferiore alla causa che lo ha determinato.” (vedi l’articolo “ Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio del profitto apparso in Prometeo n.12/1988) A parte l’inesattezza contenuta nell’affermazione “ aumento percentuale” di cui ci occuperemo in seguito, questa è la lettura che il partito ha sempre dato della legge della caduta del saggio del profitto e che ora, se avallassimo la nuova formulazione senza spiegare cosa nel frattempo sarebbe accaduto a giustificarla, risulterebbe completamente capovolta.

 

Resistendo alla tentazione di fare della facile ironia su quei “  ritmi dell’accumulazione [che] hanno dovuto imboccare la strada del macchinismo e della grande industria”, torniamo ancora sull’affermazione: “La tecnologia ha svolto appieno il suo compito, ha creato le condizioni per la creazione sempre crescente del plusvalore relativo, andando però a modificare il rapporto organico del capitale.” Innanzitutto va rilevato che il plusvalore sia esso relativo sia assoluto non è il frutto di un atto di “creazione”, ma dello sfruttamento della forza-lavoro; se poi l’atto di “creazione” è assunto come frutto della “tecnica”, diventa ineluttabile l’approdo al pensiero economico della scuola neoclassica che utilizza proprio una premessa simile per sostenere la presunta erroneità della teoria del valore–lavoro. Data questa premessa, infatti, il profitto, dalla nascita della grande industria in poi, non sarebbe il prodotto dello sfruttamento della forza-lavoro, ma, appunto, dell’incremento della produttività del lavoro generato dalla introduzione della tecnica nei processi produttivi. Insomma, lungo questo percorso nella migliore delle ipotesi si ritorna a Smith, per poi approdare a Graziadei e, come vedremo meglio in seguito, alla scuola neoclassica di matrice sraffiana; nella peggiore – e purtroppo è il nostro caso- si finisce in un guazzabuglio senza capo né coda come anche nel periodo precedente in cui si afferma: “L’ineguale rapporto tra capitale e lavoro non si limita a dare soltanto un profitto qualsiasi, ma il massimo profitto possibile. In questo rapporto la massimizzazione del profitto è ottenibile soltanto attraverso la riproduzione allargata. Ne discende che il processo di accumulazione, la concentrazione dei mezzi di produzione e la centralizzazione del capitale finanziario ne siano le conseguenze naturali

 

Anche qui pur muovendo dall’implicita e corretta affermazione che il rapporto tra capitale e lavoro è un rapporto basato sullo sfruttamento della forza-lavoro ( non genericamente: ineguale) e che il profitto è esclusivamente figlio di quest’ultimo, si chiude il ragionamento con un capovolgimento della causa e dell’effetto. Infatti si individua nell’accumulazione su base allargata  il mezzo per la realizzazione del  massimo profitto possibile, senza rendersi conto che affermando ciò si colloca la causa che induce alla massimizzazione del profitto necessariamente nella sfera della soggettività umana ovvero dipendente da categorie etiche quali, per esempio, l’avidità del capitalista o l’egoismo dell’uomo e  non nelle contraddizioni strutturali, oggettive proprie del rapporto capitale/lavoro. In realtà, è la riproduzione su base allargata del capitale che determina la spinta alla massimizzazione dei profitti e non il contrario. Vediamo il perché. Se, per esempio, un capitalista  investe un capitale 100 nella produzione di una qualsiasi merce,  grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, se tutto va per il verso giusto, a ciclo concluso, si ritroverà  un capitale accresciuto. Così se quel capitale 100 diventa 150, sottratto diciamo 20 per le proprie spese, ecco che il nostro capitalista ne ha ora in mano 130 da investire di nuovo. Anche supponendo che sia un bravo uomo, uno di quelli che si accontenta di realizzare sempre lo stesso saggio del profitto, deve comunque  realizzare un profitto maggiore di quello realizzato in precedenza  perché ora deve essere remunerato un capitale più grande di 130 e non più di 100. E’, dunque, la riproduzione su base allargata del capitale, resa possibile dallo sfruttamento della forza-lavoro, che impone la massimizzazione del profitto e non il contrario. Detto ciò, con la speranza se non altro di essere riusciti a mettere in evidenza almeno l’elevatissimo grado di approssimazione presente in tutto l’incipit dell’articolo di Fabio e dunque la fondatezza delle ragioni che ne hanno sconsigliato la pubblicazione, passiamo ora alla sua risposta in otto punti.

 

 

 

Al punto due si legge: “Siamo d’accordo che è la modificazione della composizione organica (più capitale costante rispetto al variabile) del capitale che innesca la caduta del saggio.” A questo punto sembrerebbe che non ci sia ragione di disaccordo; ma ecco che nel passaggio successivo, con un giro di parole, ci si ritrova al punto di partenza. Infatti, continua Fabio: “Ma che cos’è la modificazione del rapporto organico del capitale, se non l’aumento della produttività del lavoro sulla base dell’aumento del plusvalore relativo, che a sua volta si basa sull’introduzione di nuove tecnologie, macchinari ovvero capitale costante che va a sostituire quello variabile”. Al di là del giro di parole  per cui sarebbe l’incremento del plusvalore relativo a determinare quello della produttività del lavoro e non viceversa come invece accade, si fa prima un’affermazione secondo la quale “ è la modificazione della composizione organica (più capitale costante rispetto al variabile) del capitale che innesca la caduta del saggio” e poi la si contraddice sostenendo che la modificazione della composizione organica del capitale e l’aumento della produttività del lavoro sono la stessa cosa quando in realtà non lo sono né da un punto di vista concettuale né nella loro successione temporale. La modificazione della composizione organica del capitale, proprio per il fatto ovvio che riguarda il capitale, presuppone un processo di accumulazione precedente ed è attuata di volta in volta con lo scopo di incrementare la produttività del lavoro. E’ quest’ultima, dunque, che discende della modificazione della composizione organica e pertanto non può in alcun modo precederla e, dunque, non può neppure essere un suo sinonimo. Nella concatenazione temporale reale fra la prima e la seconda, la modificazione della composizione organica del capitale deve, nell’ambito di un medesimo ciclo D-M-D’, necessariamente precedere l’eventuale incremento della produttività del lavoro (almeno quando questo presuppone una diversa composizione organica del capitale). Nella concatenazione descritta da Fabio - come abbiamo già rilevato- il processo invece è interamente capovolto: la produzione del plusvalore relativo e la modificazione del composizione organica del capitale appaiano completamente avulse dal tempo come se si svolgessero in un buco nero, dove, appunto, il tempo non scorre. Ma noi dobbiamo tentare di spiegare i fatti, se non vogliamo che essi restino avvolti nel mistero della loro… creazione, tenendo in debito conto che si svolgono su questa terra, dove il tempo purtroppo scorre. E infatti supponendo vere le premesse di Fabio, ma togliendo il freno al tempo, ecco che ci troviamo immersi nell’arcano dato dalla sopravvivenza del capitalismo alle sue stesse contraddizioni visto che da almeno centocinquanta anni la durata della giornata lavorativa non ha conosciuto sostanziali prolungamenti, ma è diminuita di oltre il cinquanta per cento.  Solo ultimamente si è registrata una certa inversione di tendenza, ma in funzione di una maggiore flessibilità dell’uso della forza-lavoro e in un quadro profondamente mutato dell’organizzazione e del mercato del lavoro e comunque rimanendo lontanissimi dalle sedici ore giornaliere della prima fase della rivoluzione industriale.

 

Vi è in realtà un “prima” e un “dopo” che non può essere ignorato, salvo trovarsi in un ginepraio senza vie di uscita. Ciò che stupisce e che fino a qualche tempo fa era lo stesso Fabio a rilevare l’errore madornale che commettevano i suoi critici dei Fogli Rossi ignorando la corretta successione temporale del processo in questione e infatti egli scriveva: ”… L’incremento di p/v rispetto a c/v, non solo non è sempre sinonimo di caduta del saggio del profitto ma non è mai contemporaneo come erroneamente si sostiene in Fogli Rossi. Nell’esprimersi tecnico, temporale fra i due indici di incremento….c’è un prima e un poi e non come si dice in Fogli Rossi un elemento fondante ed un derivato.” (Capitale, Produttività e saggio del profitto – art. cit.). Ma evidentemente dal 1991 ad oggi deve essere accaduto qualcosa che a noi sfugge e che deve avergli fatto cambiare idea. Scrive, infatti, al punto uno della sua risposta a Lorenzo: “ Questi due movimenti (incremento del plusvalore e diminuzione della quantità della forza-lavoro) non solo agiscono simultaneamente, ma si determinano reciprocamente, sono manifestazioni della stessa legge.”. Modificazione della composizione organica del capitale (diminuzione della quantità della forza-lavoro) e incremento del plusvalore, dunque, ora sono la stessa cosa e simultanei. Anche se poi, solo due righe più sotto, si afferma che: “ …E’ la modificazione del rapporto organico del capitale che innesca la caduta del saggio”. Qui non possiamo fare altro che invitare Fabio a una amletica pausa di riflessione: simultanee o non simultanee, questo è il dilemma! In realtà, si tratta di un processo per certi versi autocatalitico nel senso che, data la causa che lo genera ( la modificazione della composizione organica del capitale), la controtendenza che si attiva (l’incremento del saggio di sfruttamento e quindi del plusvalore) può rallentare la caduta e perfino annullarla, ma, non rimuovendo la contraddizione da cui si origina, la caduta  è destinata a riproporsi su una scala sempre più ampia. Nella fattispecie alimentando, da un lato, i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali e,dall’altro, dando luogo  all’andamento ciclico dell’economia capitalistica e a periodiche, devastanti e sempre più estese crisi strutturali.

 

E ora passiamo a esaminare il punto quattro. Qui si legge: “Quindi è vero esattamente il contrario, l’aumento della produttività è solo a volte e per periodi brevi controtendenza, mentre nel lungo periodo è alla base della modificazione del rapporto organico del capitale, e quindi, della caduta del saggio. La storia del capitalismo è storia di processi di accumulazione basata sulla riproduzione allargata. La riproduzione allargata, di solito, è sinonimo di modificazione della composizione organica del capitale che a sua volta determina la legge della caduta del saggio, che è frenata, e in alcuni casi rovesciata come tendenza, non tanto dall’aumento della produttività del lavoro (plusvalore relativo), ma dall’aumento della produttività del lavoro basato sul plusvalore assoluto, sul contenimento dei costi della forza-lavoro (diminuzione dei salari, maggiore intensità del lavoro ecc. ecc.) senza incidere sul rapporto organico del capitale o incidendo poco. Questa (la diminuzione dei salari reali) è individuata da Marx come la più importante delle controtendenze.” Tralasciando per il momento la prima parte del periodo, soffermiamoci sulla seconda parte, quella evidenziata in grassetto. Qui si sostiene che l’accumulazione del capitale si basa sulla riproduzione allargata, ma in realtà

 

l’accumulazione del capitale e la riproduzione allargata sono la stessa cosa per cui affermare che  “ la riproduzione allargata” e la “modificazione della composizione organica del capitale” sono di solito sinonimi, cioè la stessa cosa, è come affermare che di solito sono la stessa cosa anche  l’accumulazione del capitale  e l’introduzione di più tecnica nei processi produttivi. Ciò è esattamente quanto sostiene la scuola neoclassica. Leggiamo quanto scrive C. Napoleoni che di questa scuola è stato uno degli esponenti più rappresentativi: “ Rimarrebbe da chiedersi da che cosa dipende che il sistema economico abbia o non abbia sovrappiù, e quindi da che cosa dipende che le sue industrie conseguano o non conseguano un profitto. In via immediata, la risposta è che ciò dipende dal tipo di tecnica produttiva che il sistema adopera. I metodi di produzione in uso nel sistema economico possono essere tali che ciò che con essi si produce serve solo a rimpiazzare i mezzi di produzione che si consumano nello stesso processo produttivo, e allora non c’è formazione di sovrappiù; oppure i metodi produttivi possono essere tali che, una volta sostituiti i mezzi di produzione consumatisi, il sistema viene a disporre ancora di certe quantità di merci, ossia di sovrappiù, il cui valore costituisce il profitto del sistema stesso.” (C. Napoleoni – Elementi di Economia Politica – Ed. La Nuova Italia -  1968-  pag. 129).

 

Torniamo ora alla prima parte del periodo. Qui si afferma che: “ … l’aumento della produttività è solo a volte e per periodi brevi controtendenza, mentre nel lungo periodo è alla base della modificazione del rapporto organico del capitale, e quindi, della caduta del saggio.” Ma che vuol dire: “solo a volte” e “per periodi brevi”?  Che lo è solo a determinate condizioni e limitata nel tempo? E quando è controtendenza e quando causa?

 

Per nostra fortuna tutte le controtendenze hanno carattere di temporaneità e limiti invalicabili. Anche  l’incremento del plusvalore assoluto ha limiti temporali molto rigidi sia per quanto riguarda la sua estensione sia per la sua efficacia nel corso del tempo. Per esempio, la giornata lavorativa non può superare la 24 ore neppure se gli operai fossero robot e poi, come è stato dimostrato già ai tempi di Marx, oltre un certo numero di ore, il calo di produttività che deriva dal prolungamento della giornata lavorativa non viene compensato dal prolungamento stesso. Per non dire che anche per questa via il numero di lavoratori impiegati tende inevitabilmente a ridursi. Inoltre, non va dimenticata la resistenza operaia che scatta quando la durata della giornata lavorativa è tale da mettere in discussione le basi stesse della vita degli operai e perfino della stessa società borghese. In realtà, la compensazione della riduzione di V mediante il prolungamento della giornata lavorativa ha raggiunto il suo apice nella seconda metà degli anni quaranta del diciannovesimo secolo, quando con un’apposita legge in Gran Bretagna furono posti limiti invalicabili alla sua durata. Ma, al di là di tutto ciò, se le controtendenze non avessero limiti spazio-temporali non sarebbero tali, ma costituirebbero il superamento delle contraddizioni che determinano la caduta del saggio del profitto e quindi anche della legge stessa. Gli incrementi della produttività del lavoro, ricercati proprio per ridurre il tempo di lavoro necessario e in tal modo incrementare il plusvalore relativo e il saggio del plusvalore, esauriscono la loro efficacia soltanto quando quella determinata composizione organica media del capitale si estende dal primo capitalista che l’adotta all’intero settore e via via all’intero sistema. La durata di questo processo dipende da numerosi fattori, non ultimo dalle nuove scoperte scientifiche e/o dal grado di difficoltà che tecnicamente si incontra nell’applicarle nel processo di produzione delle merci e dall’intensità della lotta di classe. Essa può essere di breve, ma anche di lungo termine. A misurare quindi l’efficacia degli incrementi del saggio del plusvalore mediante l’incremento del plusvalore relativo non può essere il generico scorrere del tempo, ma l’intensità della controtendenza cioè la sua capacità di “ostacolare, rallentare, indebolire” la legge della caduta del saggio medio del profitto. Quando ciò viene meno -e prima o poi viene sempre meno, tant’è che il marxismo ha sempre negato la possibilità per il capitalismo di superare l’andamento ciclico dell’economia capitalistica - il processo di accumulazione del capitale va in crisi, entra cioè in quella che noi chiamiamo, appunto, crisi del ciclo di accumulazione.

 

Ma riprendiamo la lettura del punto quattro, esattamente da laddove è scritto: “…ma dall’aumento della produttività del lavoro basato sul plusvalore assoluto.”

 

Qui è difficile nascondere lo stupore; infatti che c’entra l’aumento della produttività del lavoro con quello del plusvalore assoluto? Ora, mettendo da parte  l’evidente inversione della successione temporale fra incremento del plusvalore e della produttività del lavoro, l’aumento della produttività del lavoro determina un incremento del saggio del plusvalore soltanto, e nella misura in cui, determina una riduzione del tempo di lavoro necessario e poiché  è proprio quella parte del plusvalore che deriva dalla riduzione del tempo di lavoro necessario che Marx definisce “plusvalore relativo”, la relazione è solo fra questo e la produttività del lavoro e non anche fra questa e la produzione di plusvalore assoluto.  Ma qui crediamo davvero che sia stata la tastiera a tradire il pensiero, infatti basta ritornare al Primo libro del Capitale e riguardarsi la definizione di produttività del lavoro, di plusvalore relativo e plusvalore assoluto per accertare l’evidente errore presente in questa formulazione.

 

Infine la questione delle variazioni percentuali.

 

Scrive Davide nel documento presentato all’ultima riunione dell’Ea“: “ Non fa però da controtendenza (l’aumento della produttività del lavoro n.d.r.) alla caduta del saggio del profitto fintanto che l’aumento del rapporto organico del capitale risulta percentualmente superiore all’incremento stesso del saggio del plusvalore.” E Fabio al primo punto, sempre della risposta a Lorenzo, scrive: “ Al riguardo aggiungevo, nella mia risposta, che non si può considerare tout court controtendenza l’aumento della produttività del lavoro sulla base dell’aumento del plusvalore relativo. Ciò avviene, entro certi limiti, soltanto quando l’aumento del saggio del plusvalore è superiore all’aumento del rapporto organico del capitale”. In poche parole entrambi sostengono che per compensare la diminuzione del saggio del profitto conseguente all’incremento di C rispetto a V è necessario che l'incremento del saggio del plusvalore sia superiore all'aumento percentuale del capitale costante rispetto a quello variabile. Ora ciò è semplicemente impossibile nel senso che un qualsiasi incremento del capitale costante non potrà mai generare un corrispondente aumento percentuale del saggio del plusvalore. Il saggio del plusvalore è dato dal rapporto tra il plusvalore totale (assoluto e relativo) estorto alla forza-lavoro e V. L’incremento di C invece, se tutto va bene, dando luogo a un incremento della produttività del lavoro marxisticamente intesa, consente la riduzione del solo tempo di lavoro necessario ovvero determina un incremento del saggio del plusvalore equivalente al corrispondente incremento del plusvalore relativo. Determina cioè l’incremento di uno solo degli elementi costitutivi del plusvalore totale e del saggio del plusvalore per cui è matematicamente impossibile che il saggio del plusvalore cresca di più o nella stessa misura con cui cresce il capitale costante. Purtroppo per noi e per fortuna del capitalismo le cose non stanno come suppongono Davide e Fabio e un incremento anche minimo della produttività del lavoro e del plusvalore relativo può operare da controtendenza anche in presenza di un consistente incremento del capitale costante. Per averne conferma basta tornare alle formule di Marx e in particolare alla seconda del Capitolo 13° del terzo Libro del Capitale.  Mantenendo fermi tutti gli altri fattori, supponendo un incremento del capitale costante rispetto a V del 100% (da 50 a 100)  si ha, infatti, una riduzione del saggio del profitto del 16, 666% (66,2/3% - 50%). Stando all'affermazione di Davide e Fabio, per compensare questa diminuzione del 16,666%  si dovrebbe verificare un incremento del saggio del plusvalore almeno pari o superiore al 100% poiché a tanto ammonta l'incremento del capitale costante rispetto a quello variabile. Accade però che se, sempre  nella seconda formula p = pv/200 aumentiamo il plusvalore del 100% avremo che p sarà uguale a: 200/200 e il saggio del profitto risulterà pari al 100% (200/200x100) e quindi accresciuto di circa il 40 per cento rispetto al 66,2/3% della prima formula, cresce cioè in una misura di gran lunga superiore all’incremento necessario per compensare la riduzione del 16,666%. Peraltro dati questi rapporti, esso risulterebbe accresciuto anche con un incremento del plusvalore del 90 e anche dell’80 e del 70% e anche solo del 16,999%. In poche parole, se fosse in qualche modo possibile la relazione tra capitale costante e saggio del plusvalore descritta da Davide e Fabio, cioè se a un incremento del capitale costante del 100% potesse corrispondere un equivalente incremento del saggio del plusvalore non si verificherebbe solo la compensazione della riduzione del saggio del profitto, ma un suo notevole incremento, nella fattispecie, dal 66,666% al 100%.  In realtà, è del tutto evidente che dovendosi la causa antagonistica, cioè l’incremento del saggio del plusvalore, opporsi direttamente alla caduta del saggio del profitto e non all’incremento del capitale costante, per risultare efficace, la misura dell’incremento del saggio del plusvalore basterà che sia pari anche solo al 16,666 per cento.

 

Per un ulteriore approfondimento di quest’ultima questione, vedi il quaderno III dei Gundrisse di Marx – pag 337 e seguenti – Vol. I°- La nuova Italia - edizioni.

 

Infine alcune domande

 

-        Perché nel sostenere la tesi che la causa della legge della caduta del saggio medio del profitto risiede nella “creazione di plusvalore relativo” non si fa riferimento al fatto che Marx nel terzo libro del capitale dimostra la legge partendo dalla modificazione della composizione organica del Capitale ?

 

-        Perché si ignora il fatto che Marx- sempre nel terzo libro del Capitale- indichi al primo posto fra le cause antagonistiche l’incremento del saggio del plusvalore mediante quello del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo e rinvii per un approfondimento della questione al libro Primo del capitale dove esplicitamente si afferma che a un certo punto i capitalisti per compensare le conseguenze della diminuzione di V consapevolmente si buttarono a capofitto sull’incremento del plusvalore relativo?

 

-        Perché sia Fabio sia Davide non fanno alcun riferimento all’articolo dello stesso Fabio prima citato in cui egli afferma che la produttività del lavoro è la più importante delle controtendenze?

 

Catanzaro 3 marzo 2006