Punto e a capo

Creato: 20 Settembre 2009 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 11902

Punto e a Capo…

Che necessità c’era di dar vita, nel pieno di una crisi che si annuncia epocale, a un Istituto dedicato a Onorato Damen da parte di un gruppo di compagni con alle spalle una lunga militanza nel Partito Comunista Internazionalista - Battaglia Comunista?

Qualche tempo fa, convinti come siamo che non potrà esserci superamento rivoluzionario del capitalismo senza la ricostruzione di un autentico partito comunista internazionalista, avremmo risposto: nessuna. Poi, l’erompere della crisi ha brutalmente messo in evidenza che le divergenze interne emerse nel corso degli ultimi anni su alcune importanti questioni metodologiche e politiche erano ben più profonde di quanto ci era apparso in un primo momento.

Le prime avvisaglie che qualcosa stava mutando le avevamo avute qualche anno addietro quando, a cura della federazione di Milano, fu pubblicato l’opuscolo: “Lotta di Classe, Stato Politico, Partito del Proletariato e comunismo”. In esso si affermava che: “Sotto la spinta dei presupposti esterni oggettivi (primo fra tutti la contraddizione tra le forze produttive in gigantesco sviluppo e gli statici rapporti di produzione ), sorge una prassi rivoluzionaria” per giungere alla conclusione che quando: “il contrasto tra proletariato e borghesia […] si estende in un’aperta lotta di classe contro classe, assume un preciso aspetto politico: l’organizzazione di classe del proletariato si trasforma in partito politico. Portato alla sua più alta espressione, il conflitto sociale si risolve nella rivoluzione totale “.

Questo approccio, così profondamente divergente dal marxismo rivoluzionario e dalla concezione leninista del partito, all’epoca ci apparve il frutto più di una frettolosa e sciatta stesura del testo (citazioni inesatte e spesso in contraddizione fra loro nonché un linguaggio molto approssimativo ecc.) che non l’incipit di una devastante deriva metodologica e politica anche perché, su nostra esplicita e motivata istanza, l’opuscolo fu ritirato dalla circolazione. Di lì a qualche tempo, però, la questione venne ripresa in un nuovo documento interno elaborato sempre dai compagni della federazione milanese con l’intento di precisare meglio il rapporto Partito/Classe. Ma anche qui, seppure in maniera molto confusa, veniva di fatto riproposta la stessa impostazione meccanicistica dell’Opuscolo prima citato. Vi si affermava infatti che: “Ciò che distingue tutte le posizioni idealistiche, meccanicistiche, consigliaristiche ed economicistiche da una corretta interpretazione dialettica è proprio la questione della coscienza e il rapporto tra il partito e la classe. La questione fondamentale è se la coscienza provenga dall’interno della classe stessa, autonomamente, attraverso il progredire delle lotte rivendicative che, ad un certo punto, diventano politiche portando con sé l’inevitabile maturazione della coscienza. Oppure che arrivi dall’esterno, da un partito che nasce al di fuori della classe che ad essa si rivolge per far calare dall’alto, come un demiurgo, la coscienza politica”.

Come si può constatare, anche qui, se da un lato si respinge la tesi secondo cui la coscienza di classe (per essere più precisi si dovrebbe dire: la coscienza di classe per sé) scaturirebbe per partenogenesi dalla lotta economica, dall’altro, respingendo come egualmente idealistica l’ipotesi che il partito possa nascere all’esterno della classe e perciò privo di qualunque relazione con essa e con la lotta di classe, si approda alla conclusione, questa sì meccanicistica, che: “La coscienza […] non è portata dall’esterno, il partito non è un corpo estraneo alla classe, ma l’uno e l’altro sono il frutto storico della lotta di classe”.

Per allontanare anche il più piccolo sospetto di esser posseduti dal demone della polemica per la polemica, preferiamo lasciare il compito di precisare la questione a Onorato Damen che invece, rileggendo Lenin, nell’articolo Spontaneismo e ruolo della personalità, apparso per la prima volta nel n. 11/59 di Prometeo, scrive: “Sotto questo profilo, e il problema non sopporta una ipotesi diversa, Marx, Engels e più tardi Lenin e con loro un esercito di pensatori, di politici, di intellettuali legati al marxismo, hanno tutti avuto come compito di <<introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione>>, ma gli elementi formativi di tale coscienza hanno la loro matrice storica nella classe lavoratrice, si riflettono volta a volta nel cervello di alcuni uomini, come in un laboratorio di sistemazione scientifica, per ritornare quindi alla classe per aiutarla a far sua questa <<coscienza del fine>> in modo sempre più chiaro e distinto”.

Il partito attinge dalla classe gli elementi formativi della coscienza tuttavia esso non è il frutto storico della lotta di classe ma è il prodotto dell’attività di elaborazione di pensatori, di politici, di intellettuali legati al marxismo, e dunque non può che nascere all’esterno della classe. Il partito e la coscienza di classe per sé, che lo presuppone, affondano le loro radici sì nel rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro ma non nascono spontaneamente dalla lotta di classe che il rapporto di sfruttamento genera. In realtà  lotta di classe, partito e coscienza rivoluzionaria stanno ognuno accanto all’altro ma “sorgono da premesse diverse”. ( Lenin – Che fare? – pag. 72)

D’altra parte, se la coscienza e il partito fossero l’uno e l’altra il frutto storico della lotta di classe e se lo sviluppo di quest’ultima fosse a sua volta il prodotto dello sviluppo delle forze produttive, rimarrebbe un mistero inspiegabile la nascita del Partito comunista russo nel 1912 e il fatto che oggi, nell’epoca della più avanzata automazione dei processi produttivi, la nascita di un autentico partito comunista non è neppure in gestazione. Che la storia sia diventata sterile?

Anche in questo caso alle nostre obiezioni critiche si rispose che si trattava di sbavature formali e il documento fu accantonato.

Ma nel corso del tempo, queste sbavature formali non solo sono riemerse ma, congiungendosi con le istanze movimentiste iscritte – come abbiamo più volte denunciato - nel dna degli elementi provenienti dai disciolti Glp, che costituiscono tuttora la maggioranza della sezione di Parma, hanno alimentato un lento e irreversibile processo di orientamento della maggioranza di B.C. verso posizioni movimentiste e spontaneiste con non pochi affascinamenti situazionisti e anarco-sindacalisti, più prossime a quelle dell’economismo russo degli inizi del secolo scorso che alla tradizione leninista del Pcint. E così, a un certo punto, al partito non è stato più assegnato il compito di “introdurre nella classe la coscienza della sua situazione e della sua missione”ma –testualmente- quello: “di favorire la spontaneità delle lotte”. In netta contrapposizione con Lenin per il quale invece: “Il compito della socialdemocrazia[1] consiste nel combattere la spontaneità, nell’allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia[2]

La presenza organizzata del partito nella classe, i gruppi di fabbrica comunisti internazionalisti, ritenuti fino a prima condicio sine qua non perchè una coscienza comunista potesse prodursi, sono stati di fatto archiviati ritenendo più consoni al nuovo compito organismi come “ una rete operaia e territoriale di tutti i lavoratori più coscienti” con lo scopo di rafforzare le lotte e far sì che siano dirette ed organizzate dai lavoratori stessi, dai loro comitati di lotta, dalle loro assemblee”. Oppure come: “ …una lega giovanile della sinistra comunista” avente: “L’obbiettivo [ …]di fondere le forze internazionaliste in una lega studentesca classista in grado di affrontare concretamente la sfida che questa fase capitalista offre” e “la fondazione di una giornale giovanile politico per tutta l’Italia…”

O ancora, come si poteva leggere nel volantino approvato dalla maggioranza del Ce e distribuito a Roma in occasione dello sciopero generale indetto dalla CGIL il 13 febbraio scorso:"…. comitati di lotta e assemblee territoriali, sul tipo dei movimenti No Tav/No Dal Molin".

Nel frattempo, nella federazione milanese si è pensato che bisognasse mettere mano anche alla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto e all’analisi dell’Imperialismo. All’improvviso, in barba a tutta la precedente elaborazione, sarebbero stati: “L’aumento della produttività del lavoro, la creazione del plusvalore relativo [ad aver] messo in atto la più importante delle contraddizioni del capitalismo, la caduta tendenziale del saggio del profitto” e non, come sostiene Marx nel Primo e Terzo libro del Capitale, la modificazione della composizione organica del capitale conseguente allo sviluppo del processo di accumulazione capitalistica.

Ovviamente, siamo ancora in attesa di sapere come diavolo abbia fatto il capitalismo a sopravvivere alla sua più importante contraddizione benché nell’ultimo secolo la produttività del lavoro abbia registrato la più poderosa crescita della storia.

Invece, per quel che riguarda l’analisi dell’Imperialismo, sono state addirittura riscoperte le guerre di liberazione nazionale e la distinzione fra “borghesia aggressiva che dispiega il suo attacco e borghesia nazionale che si difende” avvicinandosi così in modo molto significativo alle posizioni di coloro che, ritenendo ancora oggi possibili guerre di liberazione nazionale, appoggiano qualsiasi frazione della borghesia dei paesi periferici, anche la più reazionaria e più ferocemente anticomunista come per esempio quella araba, ogni qual volta essa entra in conflitto con uno o l’altro dei maggiori fronti imperialistici e in modo particolare con gli Usa.

Nella versione originale dell’articolo Terrorismo e Democrazia, apparso poi su Prometeo n 11 -  Serie VI ^ ampiamente riveduto e corretto, si poteva leggere: "Il terrorismo, nell’accezione corrente di attacco alla popolazione civile, agli inermi e ai più deboli, sia che appartengano ad un campo sociale che all’altro, è prassi tutta interna all’ideologia borghese, qualunque sia lo scenario di riferimento, quello di una borghesia aggressiva che dispiega il suo attacco, o quello di una borghesia nazionale che si difende. Un moto rivoluzionario, qualora tentasse di farsi strada all’interno di una guerra di liberazione nazionale dovrebbe innanzitutto fare i conti con la presenza dell’esercito invasore”. Da qui - forse per favorire l’attività di proselitismo nella variegata area della sinistra extraparlamentare - alla rivalutazione della Resistenza, il passo è stato molto breve: “La maggior parte dei partigiani rossi – si leggeva nella recensione del libro Cuori rossi e Cuori neri, apparsa su Bc n 10/2008- hanno combattuto nella speranza di vedere sorgere, prima o poi e con tutta la confusione ideologica che si vuole, un mondo senza classi e senza frontiere, così come tutti i “cuori rossi” che dal dopoguerra a oggi sono caduti sotto i feroci colpi della violenza anti-operaia e anti-comunista”.

A questo punto, abbiamo compreso che la nostra permanenza in Bc non aveva più senso. Peraltro, ogni nostra riserva veniva ormai letta come un attentato all’integrità della chiesuola e ogni nostra critica come una manifestazione di diabolica arroganza intellettuale e umana: per il sommo sacerdote, per diritto ereditario, e i suoi chierici eravamo divenuti un incubo da cui liberarsi al più presto avvalendosi, come nella migliore tradizione stalinista, della forza dei numeri e della calunnia.

Dobbiamo ammetterlo: dall’interno, forse anche per ovvie ragioni psicologiche, abbiamo fatto molta fatica a riconoscere in quelle sbavature l’insorgere di un processo degenerativo irreversibile quale poi si è dimostrato. Piuttosto pensavamo che si trattasse della defaillance di alcuni compagni. Invece, avremmo dovuto capire che quando un’organizzazione rivoluzionaria non è più in grado di rimediare agli errori dei singoli mediante il dibattito e il confronto critico interno, è segno che essa è profondamente degenerata e/o che la sua esperienza si è storicamente esaurita.

In realtà, il crollo dell’ex Unione Sovietica, se da un lato ha confermato la puntualità e validità della critica della controrivoluzione stalinista e della natura capitalistica del cosiddetto socialismo reale prodotta dal Pcint e più in generale da tutta la sinistra comunista italiana, dall’altro, ha reso palesi anche i numerosi deficit di elaborazione accumulati da questa corrente nel corso del tempo. In altri termini, una volta che l’inganno russo si è disvelato è come se, venendo in qualche modo a mancare il presupposto fondamentale della sua ragion d’essere, sia all’improvviso caduto anche il velo che aveva celato, sino ad allora, le sue non poche rughe.

Per parte nostra, - forse da qui il ritardo nel comprendere la vera natura dello stato delle cose - eravamo convinti che Bc, per la sua storia, per il fatto che i suoi fondatori ci avevano lasciato un patrimonio teorico e politico di tutto rispetto, avesse in sé la capacità di avviare un nuovo processo di elaborazione e sistemazione scientifica dei dati inerenti alla situazione del proletariato così come essa si era andata configurando nel corso di una fase controrivoluzionaria così straordinariamente lunga. Invece, a dispetto della lucida critica del meccanicismo sviluppata da Onorato Damen, l’erompere della crisi ha messo in evidenza che certo scientismo positivista, ereditato dalla Seconda e Terza Internazionale, non solo non era stato digerito, ma era stato assimilato e fatto proprio fino al punto che la crisi rivoluzionaria, l’insorgere della prassi rivoluzionaria, potesse essere concepite come lo sbocco fatale delle contraddizioni insite nello sviluppo capitalistico delle forze produttive.

Un balzo all’indietro di un secolo e forse più che, peraltro fanno ritenere anche l’elaborazione e la formazione teorica un’inutile perdita di tempo a tutto discapito dell’attività di propaganda spicciola e di proselitismo. La qualcosa ha assunto una rilevanza ed un significato tali da indurre la stessa maggioranza dei compagni che compongono l’attuale comitato esecutivo a sottrarsi al confronto politico col dichiarare esplicitamente di non possedere i necessari strumenti teorici per una corretta valutazione delle questioni sul tappeto.

Ma -come avvertiva Lenin: “Senza teoria rivoluzionaria non può esservi movimento rivoluzionario”. A maggior ragione in una realtà come quella attuale in cui il dominio ideologico della classe dominante permea di sé ogni momento della vita quotidiana dei proletari, mai come prima d’ora in perenne concorrenza fra di loro.

E’ nostra convinzione che se non si riparte dall’elaborazione di tutte le cause della sconfitta epocale subita dal proletariato nel corso dell’ultimo secolo e che vanno ben oltre la stessa controrivoluzione russa, i proletari non potranno pervenire neppure alla coscienza di appartenere a una medesima classe di sfruttati, figuriamoci all’autorganizzazione rivoluzionaria.

Eccoci, dunque, non ad alimentare l’ennesima scissione dell’atomo, né tanto meno a costituire  un altro sedicente Partito comunista internazionalista, ma, fortemente impegnati nel tentativo di dar vita a un punto di riferimento aperto al contributo di tutti quelli che hanno a cuore le sorti del proletariato, e che ritengono che  i problemi della  rivoluzione socialista nel XXI° secolo non possano essere affrontati utilizzando gli stessi schemi interpretativi  della Terza Internazionale arretrando sulle sue posizioni quando non di quelle della Seconda o dell’economismo russo dei primi anni del secolo scorso.

Per poter ricominciare a tessere  il filo rosso spezzato da una sconfitta di dimensioni epocali occorre il coraggio di fare  punto e a capo, di – come si sul dire voltare la carta analizzando, a filo del più rigoroso materialismo storico, i profondi mutamenti che si sono prodotti nelle forme del dominio ideologico della borghesia, nell’organizzazione  e divisione internazionale del lavoro, nella composizione di classe nonché nel rapporto fra capitale e lavoro in relazione allo sviluppo delle forme del dominio imperialistico e dei processi di globalizzazione capitalistica nel corso dell’ultimo secolo.

E a chi dedicare questa nuova iniziativa se non a Onorato Damen? Non solo perché egli, avvertendo che l’esperienza del Partito comunista d’Italia, del quale era stato uno dei fondatori, stava esaurendosi, fu il principale animatore del Comitato d’Intesa (il primo tentativo di organizzazione dell’opposizione antistalinista), ma soprattutto perchè, meglio di tutti, all’interno della Sinistra comunista italiana, comprese  quanto, in assenza di una bussola saldamente orientata nel senso del materialismo storico, fosse labile il confine fra meccanicismo e idealismo, fra Marx ed Hegel e fallace l’idea della rivoluzione che si fa da sé.



[1] Lenin scrive il Che Fare?, da cui questa citazione è tratta, prima che l’ala rivoluzionaria del Partito socialdemocratico russo, di cui egli era il maggior esponente, si staccasse dal partito per dar vita, nel 1912, al raggruppamento dei bolscevichi e che, nel 1918, assunse il nome definitivo di Partito comunista russo.

[2] Op. cit. pag. 74