Vien proprio da ricorrere ad uno degli aforismi di Ennio Flaiano per tratteggiare al meglio una situazione che ha del drammatico ma che, a sua volta, riesce anche a toccare i toni epici del grottesco.
Un sublime concentrato di tutto questo - il riferimento è alla situazione economica in generale - ci viene offerto dalle risultanze dell’ultimo G 20 (il gruppo dei venti paesi dalle economie più forti) tenutosi a Pittsburgh, nell’Ohio, città ex capitale della siderurgia americana, ora ridotta, a causa del declino industriale, al misero rango di “rustbelt” (cintura della ruggine). Il grottesco, a cui pocanzi si faceva riferimento, ha a che vedere col profluvio di sconsideratezze elargite da capi di governo,rappresentanti di organismi internazionali nonché il solito ed eterogeneo codazzo di analisti, centri studi e giornalisti.
La gamma delle dichiarazioni è molto varia per cui si passa da un trionfalistico “la crisi è finita” ad un più sobrio “il peggio è passato” per arrivare a Strauss-Kahn (direttore del FMI) che, con molta circospezione, si attende una “ripresa relativamente lenta”.
Ciò che accomuna queste considerazioni è che contrastano integralmente con quanto prospettato dall’ OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) secondo cui nei trenta paesi membri, alla fine del 2010, si toccherebbe la cifra record di 57 milioni di disoccupati, ossia il 10% della forza-lavoro per cui tutte queste sgangherate declamazioni altro non rappresentano se non una manifesta regressione allo stadio dei rituali propiziatori.
Rituali, liturgie, officianti che soltanto cinque mesi fa si erano riuniti a Londra per vedere di poter tamponare o, ancor di più, ridimensionare lo strapotere della finanza e di far ripartire l’occupazione. Si discuteva su come far ripartire il credito e soprattutto “stabilire un quadro di nuove regole finanziarie per rendere impossibile il reiterarsi di una nuova bolla creditizia” (Marco d’Eramo, Il Manifesto 24.09.09) nonché sottoporre a controllo le agenzie di rating che fin qui hanno brillato per le loro stime sbagliate e congruamente addomesticate.
L’assurdità è che a Pittsburgh l’agenda dei lavori è identica a quella di Londra con l’aggravante, tuttavia, che i governi sono, adesso, in una posizione più debole per poter imporre condizionamenti all’operare degli istituti finanziari e la riprova è data dal fatto che quando si è ipotizzata l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie c’è stata un’autentica sollevazione da parte delle potenti lobbies di Wall Street e della City di Londra.
Un’altra misura che avrebbe dovuto incidere in profondità era quella di porre un limite ai bonus dei banchieri e che dà la stura, invece, della mediocre messinscena giocata al solo scopo di deviare le attenzioni dall’essenza del problema.
Un capovolgimento della realtà: le diseguaglianze, le iniquità che sono proprie di un sistema economico – quello capitalistico – che vengono occultate sotto la retorica dei bonus, degli stipendi, delle diarie. Una crisi di sistema che viene fatta passare per una crisi dovuta alla bolla creditizia.
La verità vera è tutt’altra: “ La finanziarizzazione dell’economia è il prodotto specifico della fase calante del processo di accumulazione capitalistica nell’epoca del capitale monopolistico………Oggi, poiché l’appropriazione di plusvalore avviene (in misura relativamente sempre più consistente) per mezzo della produzione di capitale fittizio, il processo si risolve essenzialmente in un trasferimento di plusvalore verso i centri metropolitani e verso coloro che detengono il controllo di questa particolare forma di capitale senza che la crescita della sfera economica ne riceva un qualche particolare impulso”. (G.Paolucci, “La crisi del capitalismo -Il Crollo di Wall Street – pag. 158 - Ed. Ist. O. Damen -2009) . Pertanto: “Se si vuole comprendere la vera causa della crisi bisogna distogliere lo sguardo da Wall Street – dove è esplosa – e rivolgerlo a quell’insanabile contraddizione interna al processo di accumulazione del capitale per cui, periodicamente, si determina una incapacità del sistema di generare una massa di profitto sufficientemente remunerativa dei capitali investiti.” (G.Paolucci, “Sulla fine dell’economia di carta e le sue possibili conseguenze” (op. cit. pag. 19).
Dato connotante diventa quindi la speculazione e la ricerca parossistica di profitti con cui cercare di tamponare la crisi. Diventa lecito operare in qualsiasi ambito: dai mutui subprime alle carte di credito, dai prestiti commerciali alle polizze vita, al credito al consumo.
Ma se la produzione di capitale attraverso altro capitale diventa il tratto caratteristico del cosiddetto “turbocapitalismo”, se la speculazione si insinua con tutta la sua carica devastante nella “nuda vita di persone che non possono offrire alcuna garanzia, che non offrono nulla se non sé stessi” (C.Marazzi “Liberismo in caduta libera” – Il Manifesto 31.05.09) pur di arraffare profitti, allora diventa più che logico chiedersi se lor signori queste nuove regole, a valere per la finanza, abbiano mai potuto o avuto l’intenzione di scriverle.
Tant’è che stiamo assistendo ad un nuovo exploit della finanza in virtù dell’intervento dei governi nel dare, sebbene sotto forma di prestiti dello Stato, soldi alle banche in crisi.
Tutto questo ha facilitato la concentrazione bancaria laddove colossi bancari ricevono cospicui sostegni dallo Stato che, a sua volta, si accolla le perdite delle società che sono state assorbite dalle nuove concentrazioni bancarie.
Perfino “Der Spiegel”, giornale conservatore tedesco, ha modo di rilevare come “le banche si stanno comportando addirittura peggio, rispetto al periodo precedente la crisi, grazie a garanzie governative ed al denaro a basso costo delle banche centrali. Per le banche non è mai stato così facile fare soldi”.
La scelta è precisa e soggiace alla logica tutta interna al modo di produzione capitalistico e la stessa ripresa occupazionale non può che passare attraverso simili politiche.
Simili politiche – come acutamente osserva Joseph Halevi sul Manifesto del 9 agosto – “sono molto più radicate nel sistema di quanto appaiano. Esse esprimono il mutamento non internamente correggibile della struttura economica capitalistica verso la finanziarizzazione, vale a dire verso un circuito in cui il passaggio dalla moneta alla merce per poi riapparire in un accresciuto ammontare monetario, si sia allentato in maniera irreversibile”.
In sintesi: per una frazione crescente del capitale finanziario il processo di autovalorizzazione non è più dato dal ciclo D – M – D’ ma da D – D’ saltando a piè pari l’intera fase della produzione.
La disgiunzione tra sistema finanziario e produttivo è attuata dallo Stato nella misura in cui i governi attraverso la elargizione di soldi alle banche e l’acquisto di titoli drogati pensano di evitare che la crisi si aggravi.
L’unico effetto che scaturisce da tali strategie è un processo di polarizzazione che vede nuove prospettive di lucro finanziario da una parte e ondate sempre più massicce di disoccupati dall’altra.
In un contesto in cui si cerca di delineare una nuova divisione internazionale del lavoro in grado di far ripartire l’occupazione e che, per sommi capi, vedrebbe
Non si può certamente tacciare di eccessivo pessimismo il direttore del FMI se configura degli scenari così poco rassicuranti. Però alcuni dati dovrebbero far riflettere sulla potenziale esplosività della situazione:
Le prospettive sono quindi seriamente drammatiche e di alternative si può effettivamente parlare solo se, come ordine del giorno, c’è la rottura rivoluzionaria di quest’ordine sociale marcescente
Con tutte le imprescindibili priorità che ne derivano.
Gianfranco Greco