Introduzione

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Creato: 20 Febbraio 2016 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 1666
Il marxismo prima di divenire quella incontenibile forza politica operante sul piano di classe del proletariato mondiale contro l’imperante sistema capitalistico, era stato in origine geniale elaborazione dottrinaria scaturita impetuosa da quella ricca vena dell’idealismo della sinistra hegeliana che aveva trovato in Feuerbach il rovesciatore inesorabile dei termini del processo dialettico, così com’era stato concepito dal Maestro e che fu poi definito e approfondito e condotto sul piano della storia da Marx ed Engels in una nuova e originale visione del mondo col nome di «materialismo storico».

Presso Hegel la dialettica coincide con la metafisica, e il cammino delle cose si determina da quello delle idee; Marx invece pone la dialettica non più nella testa, cioè nelle idee, ma su «i propri piedi», cioè nelle cose: in ciò consiste il suo carattere rivoluzionario.

Ma il materialismo storico, nato dalla filosofia, si era risolto come tale, era cioè andato annullandosi come sistema filosofico a se stante, facendo corpo con gli stessi motivi d’operante concretezza che l’avevano determinato.

Questo era avvenuto, e aveva l’accadimento sapore e robustezza di vera scoperta scientifica, che Marx, educato alla scuola dell’idealismo e tuffatosi poi nello studio dell’economia classica inglese e nell’indagine diretta del sistema capitalistico nella sua struttura, nel suo macchinismo, nelle leggi che lo presiedevano e nei rapporti esistenti tra i detentori dei mezzi di produzione e i possessori della forza-lavoro, aveva osservato che a fondamento di tutto il pensare e operare degli uomini, delle loro contraddizioni e lotte, delle loro stesse esigenze morali e religiose erano le condizioni mutevoli d’un complesso di «cose» economiche, il loro grado di sviluppo strutturale e tecnico, e i rapporti sociali a cui davano origine.

Dunque sono le leggi che regolano l’economia capitalistica che operano nel contempo nelle relazioni sociali e politiche della sovrastruttura: sono i contrasti d’interessi economici  che indicano la potenza d’urto dei contrasti tra capitale e lavoro; è l’insanabile tra chi dà lavoro e chi lavora che postula il mortale antagonismo tra le due classi storiche della vita moderna.

La delimitazione fisica tra queste due realtà di uno stesso processo economico in cui l’una si pone nello sviluppo come forza di superamento e di eversione nei confronti dell’altra, traccia un solco profondo nel sovrastante piano delle relazioni politiche per cui la storia della generica lotta tra gli uomini, come tra le nazioni, diviene storia della lotta tra le classi.

Bisogna perciò affondare l’analisi critica in questo complesso di «cose» che è l’economia capitalistica per trarre dalle sue stesse viscere i segreti della sua vita e del suo sviluppo, le sue contraddizioni profonde e insanabili, i motivi del suo stesso decadere, condizione questa prima ed essenziale al sorgere di una vita nuova e di una nuova e superiore esperienza economica, quella del lavoro. In questo senso il capitalismo è la matrice storica del comunismo; una esperienza chiama l’altra, come l’eco la sua voce.

E questa analisi del capitalismo spetta a Marx che nel Capitale non soltanto opera il più completo e inesorabile scandaglio di critica economica, ma si serve dei risultati dell’analisi per la elaborazione di quella teoria rivoluzionaria di cui armerà il moderno proletariato per la sua lotta di emancipazione.

Vediamone i tratti salienti.

Marx fa sua la formula ricardiana che origina il valore dal lavoro, che fa cioè del lavoro un’entità concreta, quasi plastica del valore.

Che cosa vuol dire ciò? Questo vuol dire che se una merce si scambia con un’altra, ciò non esprime un semplice rapporto di cose, ma precisa reali rapporti tra uomini, di cui lo scambio non è che una espressione esteriore; il criterio del baratto si basa esclusivamente su quell’elemento di misura, su quel «quid» praticamente individuale e facilmente valutabile che è il lavoro umano che la merce contiene. E i limiti di tale valutazione del lavoro umano sono rappresentati dal tempo reso necessario per la sua produzione. Il valore si è così immedesimato col lavoro, vi si è, in una parola, cristallizzato: ecco tutto.

Deriva, o almeno dovrebbe derivare, da tale immedesimazione del valore-lavoro una coincidenza perfetta tra i valori dei prodotti e la somma della forza-lavoro erogata a tal fine dall’operaio. Ma in pratica avviene che il capitalista che sul mercato acquista dall’operaio la sua forza-lavoro, come se si trattasse di una merce qualsiasi, retribuisce il suo lavoro non per quel che vale, ma al di sotto del suo valore effettivo, appropriandosi così della differenza, che costituisce il cosiddetto «plusvalore». Difatti l’operaio impiega una parte della sua giornata lavorativa per assicurarsi il salario, quanto serve cioè al suo sostentamento e a quello della sua famiglia, però egli è impegnato a continuare il lavoro oltre tale limite di tempo e per questa sua erogazione marginale di forza-lavoro nulla percepisce, poiché il valore corrispondente va ad irrobustire le tasche del capitalista che lo ha ingaggiato.

Il «plusvalore» così individuato rappresenta il fulcro ideale del pensiero scientifico di Marx, il cardine della sua critica economica e il fondamento della sua teoria politica.

Il capitalismo ha trovato nel «plusvalore»la fonte inesauribile del capitale e della sua progressiva accumulazione; ne ha fatto la base del suo predominio di classe e si è servito dell’enorme forza espressa da quella formidabile macchina repressiva che è lo stato moderno per imporre la legittimazione storica alla più evidente e mostruosa spoliazione della storia moderna.

Dal primo volume del Capitale germinano i motivi conduttori per una più approfondita analisi di alcuni fenomeni più caratteristici del moderno capitalismo, quali l’accumulazione del capitale e la sovrapproduzione cronica, analisi che sarà alla base d’una definizione dell’epoca dei monopoli e dell’imperialismo.

Marx stesso, con intuizione precorritrice, intravide questa caratteristica fase dello sviluppo capitalistico, che alla sua epoca non era che allo stato di incipienza; eppure egli ne delinea il sicuro svolgimento, ne valuta l’importanza politica e adombra quella teoria dell’imperialismo nei cui limiti Rosa Luxemburg e Lenin apporteranno poi ricchezza di materiale probativo e una più vissuta e sperimentata sensibilità politica.

Sulla linea di questo processo dialettico la dottrina marxistica riempirà di sé il nostro secolo e apparirà allo spirito umano come la ragione inconfutata e inconfutabile di un ordine nuovo e rivoluzionario, di questo strappo violento dal capitalismo da cui avrà inizio la civiltà del lavoro.

Il marxismo tuttavia cesserebbe d’essere vivo e attuale come dottrina politica se l’analisi degli avvenimenti più recenti prodotti dal capitalismo non fosse in grado di confermare la giustezza della sua analisi critica portata al sistema, e non sapesse spiegare il perché, ad esempio, di una inevitabile fase di sviluppo nella sua struttura, fase così detta di monopolio, di predominio del capitale finanziario e di conflitti sociali a cui si rapporta la crisi che sconvolge la società odierna nei suoi istituti e soprattutto nella sua coscienza che conosce oggi le ore cupe dello smarrimento.

Questa fase detta dell’«imperialismo» non è certo una scoperta del marxismo, ma si deve unicamente ad esso l’individuazione scientifica delle sue cause prime e determinanti ed i suoi sviluppi insiti nella inevitabilità spaziale del suo macchinismo che non sopporta soste o arretramenti cui è legata questa nostra epoca, epoca della tecnica con l’assurdo d’una sovrapproduzione cronica che non elimina la miseria e la fame, epoca della spinta all’espansionismo economico e politico caratterizzato dalla contraddizione sempre crescente tra lo sviluppo delle forze produttive e l’insufficienza degli sbocchi, epoca della dominazione dell’alta finanza e del militarismo, epoca, in una parola, delle dittature più mostruose e della guerra permanente.

Ma è questa soprattutto l’epoca della rivoluzione proletaria; questo il marxismo afferma e non come visione avveniristica della storia, né come perenne aspirazione umana all’uguaglianza e alla libertà delle forze soggette, ma come esigenza sociale vera innanzitutto e soltanto in questo dato momento dello sviluppo del capitalismo, vera quindi sul piano del conflitto sociale che di esso è la più chiara manifestazione politica, il momento culmine della storia dell’umanità che finalmente esce dal regno buio della necessità per passare a quello luminoso della libertà.

E la conferma storica della teoria marxista possiamo tutti trovarla vivente nello stato di acuto contrasto, di lotte e di guerre che avvelena e incupisce le relazioni tra gli stati e le classi.

E’ in atto nel capitalismo la tragica ma vitale vicenda del suo superamento dialettico, ed il marxismo, come dottrina del proletariato, viviseziona i motivi operanti di questa crisi di civiltà, ed elabora e definisce e rende invincibile la sua teoria della rivoluzione.

Nessun’altra dottrina del resto, nessun’altra scuola avrebbe potuto osare altrettanto, in questo, germinata dal seno stesso della grande esperienza borghese capitalistica si sarebbe necessariamente espressa come teorizzazione di questa esigenza di classe e non della sua antitesi e sarebbe apparsa giustificazione ideale del privilegio acquisito, ragione storica della propria esistenza.

Osserviamo il fenomeno nel piano più specifico della lotta politica.

La seconda guerra mondiale ha da poco chiuso il ciclo sanguinoso delle sue rovine e delle sue stragi ed ha aperto il periodo d’una pace senza gioia, senza pane, senza avvenire. Tutto sembra instabile, tutto sembra precipitare, e lo spirito degli uomini, preso in questo vortice di rovina dubita, non sa sperare. C’è tutto un mondo da ricostruire e difettano i mezzi materiali e morali della ricostruzione.

Ma il problema maggiore non consiste tanto nella ricerca di questi mezzi, quanto nel sapere come e per chi si dovrà ricostruire. Le forze sociali e i loro partiti politici sono scissi perché gli interessi loro divergono: gli uni, i borghesi, difendono le ragioni fondamentali del capitalismo e cercano di ricostruire il loro mondo, colpito a morte da una guerra da essi voluta, utilizzando le sue stesse rovine, e i suoi stessi delitti; gli altri, i proletari, che continuando a lavorare e a produrre, sanno di creare ad altri ricchezza e benessere e per sé solo quel tanto che è necessario per vivere, ma vivere, si capisce, per lavorare ancora e ancora produrre, vogliono che da questa crisi del capitalismo sorga finalmente il loro ordine, l’ordine del lavoro.

Tra gli uni e gli altri si muovono le forze delle classi medie i cui partiti, dopo una politica di asservimento alla guerra credono di risolvere la crisi e il mortale conflitto di classe facendosi assertori d’una lotta spietata contro l’economia monopolistica, fonte per essi di tutti i mali, salvando nel contempo il capitalismo causa del monopolio e con esso i profittatori di questa politica. Così le classi medie, per la loro stessa natura incapaci d’una politica a forte fisionomia di classe, si cullano nella grande illusione di poter vincere il dolore fingendo di ignorare il male che ne è la causa.

La lotta contro il monopolio o è lotta a fondo contro il sistema capitalistico che del monopolio è il centro motore e la giustificazione organica e storica, oppure è un modo come un altro d’ingannare se stessi e operare così a beneficio di chi tende a perpetuare un regime già condannato dalla storia.

Contro chi vuole ad ogni costo sopravvivere, contro ogni tentativo di far girare in senso contrario le ruote della storia, il marxismo, conseguente alla sua spietata analisi critica, addita al proletariato di tutti i paesi la strada della rivoluzione: soltanto con questo supremo atto di violenza di classe sarà possibile creare le condizioni obiettive della rinascita umana.