La nuova frontiera del capitalismo è la depressione economica

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Creato: 21 Ottobre 2013 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 3662

Dalla  rivista  D-M-D' n °7

Da quando è scoppiata la crisi finanziaria nel 2008 il capitalismo è piombato nella più grave crisi della sua storia moderna. I crolli degli indici di borsa, le tensioni all’interno dell’area dell’euro e il rallentamento della stessa economia cinese, possono far precipitale l’intera economia mondiale nell’incubo della depressione economica con conseguenze sociali drammatiche.

Quando nell’estate del 2007 si sono manifestate le prime crepe nel sistema finanziario mondiale erano in pochi ad immaginare le dimensioni e la gravità della crisi economica che stava per colpire l’intero sistema capitalistico  su scala internazionale.  Lo scoppio della bolla speculativa, innescato dal mancato rimborso dei mutui subprime statunitensi, ha determinato a livello planetario la più grave crisi economica che abbia mai colpito il moderno capitalismo, una crisi che per dimensioni e riflessi sul piano sociale ha assunto internazionalmente contorni ben più gravi di quella del 1929. Avviatasi nel mercato finanziario statunitense, nel volgere di pochissimo tempo lo scoppio della bolla speculativa ha fatto sentire i propri effetti in ogni angolo del globo con crolli degli indici borsistici e pesantissime ricadute sull’economia reale.

Essendo partita dalla sfera finanziaria la crisi è stata spiegata dagli economisti borghesi, e anche da molti che si richiamano alla critica dell’economia politica di Marx, come un fenomeno le cui origini andavano ricercate nell’eccessiva produzione di capitale fittizio. Per costoro la crisi poteva e può ancora oggi essere affrontata attraverso la riconduzione del capitalismo nel giusto alveo delle attività produttive, ridimensionando, anche attraverso una tassazione delle transazioni finanziarie, la sfera delle attività speculative; in buona sostanza diffondono la tesi che ad essere in crisi è il neo-liberismo e gli eccessi della finanza creativa, assolvendo in tal modo il capitalismo nel suo complesso. Sono sempre questi signori che sostengono che si può pertanto venire fuori dalla crisi attraverso il rilancio di politiche economiche incentrate sugli investimenti produttivi in vecchio stile keynesiano, ma facendo attenzione in ogni caso a mantenere in equilibrio i conti pubblici.

Abbiamo già fatto, anche su questa rivista, una serrata critica a questa lettura superficiale della crisi, sostenendo e dimostrando la tesi che le cause prime siano da ricercarsi nella legge della caduta del saggio medio di profitto che colpisce periodicamente il modo di produzione capitalistico. A causa del continuo aumento della composizione organica, capitali sempre più grandi producono profitti decrescenti, con la conseguenza che tali capitali non riescono più a sostenere adeguatamente i processi di autovalorizzazione. La finanziarizzazione dell’economia è stata una delle principali risposte date dalla borghesia a livello internazionale alla caduta del saggio medio di profitto, con una smisurata crescita delle attività finanziarie senza precedenti nella storia del capitalismo. La crisi attuale investe il sistema capitalistico dopo che questi ha sviluppato le forme più avanzate di gestione delle proprie intrinseche contraddizioni strutturali, giungendo alla fine di un lungo processo che si è aperto con il crollo del sistema monetario creato a Bretton Woods nel corso della seconda guerra mondiale e il regime dei cambi fissi e l’avvio, agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, della deregolamentazione dei sistemi monetari e finanziari internazionali[1].

Chi sperava che la crisi finanziaria potesse determinare un’inversione di tendenza rispetto all’attuale trend, in quanto considerava la finanziarizzazione solo una delle tante opzioni del sistema e non un percorso obbligato per il capitalismo, è rimasto inevitabilmente deluso in quanto i guasti determinati da una eccessiva produzione di capitale fittizio sono stati affrontati incrementando ulteriormente la produzione di capitale fittizio. Le difficoltà del sistema finanziario e bancario sono state affrontate iniettando nel sistema una massa enorme di liquidità alimentando in tal modo ulteriormente la produzione di nuovi e sempre più complessi strumenti finanziari. Le tappe della crisi sono state tutte segnate da un repentino peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro per miliardi di proletari in ogni angolo del pianeta. L’imperialismo statunitense, pur non risolvendo i propri problemi, in questi ultimi anni è riuscito a scaricare sul resto del mondo parte delle proprie contraddizioni mettendo in serie difficoltà i principali concorrenti, in primo luogo i paesi dell’Unione Europea incapaci di sostenere la crescita esponenziale del proprio debito pubblico e alimentando in tal modo elementi disgregatrici della stessa moneta unica.

In poco tempo, proprio grazie alla forza dell’imperialismo statunitense, il grande malato dell’economia mondiale è diventata l’Europa e la propria moneta unica, una moneta che nella sua breve vita si è posta su un piano concorrenziale al dollaro, ma che l’attuale crisi rischia di far esplodere sotto il peso dei deficit e dei debiti pubblici di paesi economicamente importanti come l’Italia e Spagna.

La crisi dell’euro: il caso Grecia

Il primo campanello d’allarme per la solidità monetaria e finanziaria dell’Europa è suonato in Grecia, un paese che nonostante l’arretratezza della propria economia è riuscito ad agganciarsi al progetto della moneta unica europea. Descritto dagli stessi commissari dell’Unione Europea europei come il paese simbolo del nuovo miracolo dell’euro, la Grecia nel volgere di pochissimo tempo è collassata sotto il peso del proprio deficit e debito pubblico. Cosa ha determinato il fallimento della Grecia? E’ facile rispondere tecnicamente a tale domanda: la ricomparsa della forbice nei tassi d’interesse nei paesi aderenti all’Unione Europea che ha accentuato in maniera insostenibile i differenziali nelle capacità produttive dei singoli paesi del vecchio continente. Nel volgere di pochissimo tempo, in concomitanza con lo scoppio della crisi finanziaria globale, i tassi di interesse nei paesi dell’Europa hanno cominciato velocemente a divergere uno dall’altro, e in questo nuovo contesto economico per paesi come la Grecia il dover rispettare i parametri economici e finanziari imposti dai trattati comunitari ha significato strangolare la propria economia ed affamare l’intera classe lavoratrice e anche ampi strati del ceto medio.

Gli aumenti dei tassi d’interessi in Grecia hanno alimentato il deficit pubblico ellenico e un piccolo paese, che vale poco meno del 2% del Pil europeo, ha fatto tremare l’intera comunità finanziaria internazionale facendo intravedere nell’architettura della moneta unica europea alcune crepe strutturali che rischiano di far saltare completamente l’Unione Europea. Una massa enorme di capitali si sosta sui mercati europei per ottenere dei lauti profitti dai differenziali che si creano nelle curve dei tassi d’interessi tra i singoli paesi della moneta comune. In seguito a tale movimento speculativo i titoli del debito pubblico greco perdono immediatamente valore sul mercato e così per finanziare il proprio deficit, il governo ellenico è costretto ad aumentare i tassi d’interessi alimentando una spirale che strangola ancor di più la piccola economia greca. Nel giro di un solo anno il deficit pubblico greco è schizzato alle stelle e nonostante gli alti tassi d’interessi dei titoli greci gli investitori abbandonano le sottoscrizioni dei titoli del debito pubblico, considerati alla stregua di pura carta igienica usata. Per evitare il fallimento ed ottenere i finanziamenti necessari da parte della Banca centrale europea, al governo greco viene imposto di eliminare qualsiasi forma di stato-sociale, dimezzare gli stipendi pubblici affamando di fatto milioni di proletari greci.

Abbiamo ripercorso a grandi linee lo sviluppo della crisi greca, non tanto per riproporre delle analisi già pubblicate[2], ma per sottolineare come la crisi della Grecia sia stata utilizzata dalla grande borghesia europea per creare un  vero laboratorio nel quale sperimentare la sostenibilità sociale di certe scelte di politica economica che hanno letteralmente affamato milioni di lavoratori. Quello greco rappresenta una piccola goccia nel mare del debito pubblico europeo, e l’accanimento dei tedeschi e del grande capitale europeo nell’opporsi a qualsiasi forma di aiuti finanziari comunitari che non siano controbilanciati da misure di austerità nella spesa pubblica, si spiega solo con la voglia di sperimentare in un paese dell’Europa occidentale politiche economiche draconiane e nello stesso tempo osservare e  gestire la reazione di milioni di lavoratori. La Grecia in soli tre anni ha subito un impoverimento della propria economia che non si discosta molto da quello che in genere si registra dopo un conflitto bellico, ma quello che maggiormente dovrebbe spaventare i milioni di proletari greci e che le prospettive per il futuro sono ancor più nere di quelle del presente. Se in passato la chiusura dei grandi conflitti bellici ha aperto nuovi scenari di crescita economica e quindi miglioramenti anche nelle condizioni di vita dei proletari, in Grecia il laboratorio nel quale sperimentare politiche economiche che affamano milioni di lavoratori è ancora nella sua primissima fase. La Grecia è stata la prima economia europea a subire gli effetti della grande recessione che ha colpito l’intera economia mondiale e le difficoltà incontrate nel gestire un problema finanziario di ridotte dimensioni ha evidenziato come l’intera impalcatura finanziaria e monetaria dell’Unione europea non fosse più adeguata al nuovo quadro economico che si è aperto con lo scoppio della bolla speculativa dell’estate 2008.

L’euro nel vortice della crisi

La moneta unica europea è nata sotto la spinta dei processi d’integrazione delle economie dei maggiori paesi dell’Europa con l’obiettivo di contrastare il dominio del dollaro anche negli interscambi commerciali intracomunitari. Senza voler ritornare sui motivi che hanno determinato la nascita dell'euro[3], ci preme sottolineare come proprio grazie alla moneta unica in Europa si sia assistito ad un lungo processo d’integrazione economica dell’intera area come mai si era registrata nel passato. Giusto per fare degli esempi, nel periodo 1999-2007 i tassi d’inflazione dei paesi aderenti all’unione monetaria non si sono allontanati di molto dalla media continentale, così come le curve dei tassi d’interesse nei singoli paesi potevano quasi sovrapporsi, essendo veramente minimi gli scostamenti da paese a paese. Un ulteriore elemento che deve essere valutano per comprendere più nel dettaglio l’importanza dell’euro è quello relativo alla correlazione dei cicli economici dei paesi dell’eurozona rispetto alla Germania, considerata da tutti e a giusta ragione la vera promotrice dell’euro. Dall’analisi dei cicli economici emerge che tranne l’economia greca, irlandese, portoghese ed in parte quella spagnola, tutto il resto dei paesi dell’unione monetaria presentano un ciclo economico fortemente correlato a quello tedesco[4]. L’economia maggiormente integrata è proprio quella italiana il cui ciclo economico è perfettamente allineato rispetto a quello tedesco, con fortissimi legami commerciali e finanziari tra le due economie. Se in Germania va male l’occupazione, i consumatori tedeschi compreranno meno merci italiane, con una contrazione nel livello delle esportazioni italiane e di conseguenza con una ripercussione anche sul livello delle esportazioni tedesche. Questa forte correlazione dei cicli economici ha rappresentato un forte elemento che ha favorito l’affermarsi dell’unione monetaria, permettendo ai singoli paesi aderenti all’euro di eliminare un elemento d’incertezza, rappresentato dalle variazioni nel valore del dollaro sui mercati monetari, negli scambi intracomunitari.

Il processo d’integrazione economica delle economie dei paesi del vecchio continente ha avuto come conseguenze anche quello di abbassare mediamente il costo della forza lavoro. Scomparse le barriere doganali, la libera circolazione dei capitali e dei lavoratori all’interno dei paesi dell’Unione Europea ha alimentato la spinta verso il basso dei salari su tutto il territorio continentale. Le dinamiche economiche europee, integrandosi con quelle legate alla globalizzazione dell’economia mondiale, hanno rappresentato una straordinaria variabile che ha ridotto come mai nel passato il costo del lavoro. Grazie alla moneta unica si è creato un unico mercato continentale nel quale il costo della forza lavoro è stato spinto verso i livelli più bassi e nello stesso tempo i prezzi delle merci sono stati allineati verso il valore più alto. Per la borghesia europea i vantaggi in termini di classe ottenuti da questa operazione sono stati straordinari, scaricando sulla classe lavoratrice dell’intero continente tutto il peso dei processi d’integrazione economica.

L’affermarsi dell’euro ha avuto una ricaduta positiva sull’integrazione economica del vecchio continente, tanto da trasformarla complessivamente nell’area in cui la somma tra esportazione e importazioni in rapporto al Pil  presenta una percentuale più bassa sia rispetto agli Stati Uniti che al Giappone[5]. Per l’Unione Europea la percentuale tra export/import e Pil è di poco superiore al 25%, mentre il Giappone fa registrare un valore superiore al 30% e gli Stati Uniti si collocano in una posizione mediana, con un valore intorno al 28%. Questi dati dimostrano come l’economia europea sia fortemente aperta ai mercati internazionali, ma il vero mercato di riferimento è quello intracomunitario, cosa questa che pone il vecchio continente in una posizione di forza in quanto risente molto meno delle altre aree delle variabili esterne al proprio ciclo.

Gli elementi che hanno favorito l’integrazione economica del vecchio continente e l’affermarsi della moneta unica, però,  non hanno eliminato alcune criticità nell’architettura dell’euro e con l’esplodere della crisi economica nell’estate del 2008 rischiano di far esplodere la stessa moneta unica.

Il primo elemento che ha determinato l’insorgere di tensioni all’interno dell’area dell’euro è stato il divaricarsi delle curve dei tassi d’interessi nei singoli paesi. Se nella prima fase dell’euro, che possiamo schematicamente considerare dal 1999 al 2007, le curve dei tassi d’interessi risultano allineate sugli stessi livelli, dal 2008 le curve dei tassi d’interessi hanno  iniziato a divergere. Abbiamo schematicamente già esaminato in precedenza il caso greco,  che poteva essere anche previsto data la totale asimmetria rispetto al ciclo economico tedesco e alla scarsa produttività della propria struttura produttiva, ma a crescere sono stati anche i differenziali nei tassi d’interessi di paesi economicamente rilevanti nel contesto europeo come la Spagna e l’Italia. In presenza di una moneta unica che determina la parità monetaria all’interno dei paesi che la utilizzano, i paesi che presentano tassi d’interessi più elevati sono destinati a perdere competitività rispetto a quelli che con tassi più bassi. Giusto per fare un esempio e comprendere meglio il durissimo scontro che si è giocato in questi ultimi anni nel vecchio continente, consideriamo un imprenditore  tedesco ed uno italiano. Prima del 2008 l’imprenditore tedesco poteva chiedere un finanziamento al proprio sistema bancario ad un tasso d’interesse nominale del 4%; la stessa identica cosa accadeva per l’imprenditore italiano. Ciò avveniva per la perfetta convergenza delle due curve dei tassi d’interessi. In seguito alla scoppio della più grave crisi economica che abbia colpito il capitalismo, la situazione è completamente cambiata: l’imprenditore tedesco ha potuto chiedere prestiti al proprio sistema bancario a tassi d’interesse non superiori al 2%, mentre l’imprenditore italiano ha pagato tassi d’interesse nominali del 7%, perdendo così nettamente competitività rispetto al concorrente tedesco. E’ evidente che una situazione di questo tipo, in cui due economie così importanti per l’intero continente presentano differenziali nei tassi d’interessi così alti e quindi costi così diversi, non possono convivere a lungo sotto lo stesso tetto monetario, senza un radicale e urgente ripensamento dei meccanismi correttivi previsti dai trattati istitutivi nel gestire situazioni di crisi come quella attuale.

Per comprendere le dinamiche che hanno facilitato il riemergere di differenziali nelle curve dei tassi d’interessi, e di conseguenza nei tassi d’inflazione, è opportuno fare alcune considerazioni sull’architettura dell’euro e su quella del sistema americano. Questo ci aiuterà a capire come gli Stati Uniti abbiano avuto relativamente vita facile nello scaricare sul vecchio continente parte della propria crisi e, nello stesso tempo, evidenziare i limiti strutturali dell’euro che se non corretti possono portare al fallimento della moneta unica europea.

Un solo esempio ci potrà aiutare a comprendere le nette differenze che finora esistono tra il sistema monetario statunitense e quello europeo, differenze che sono dettate dal diverso grado d’integrazione politica e quindi dal diverso livello di centralizzazione della gestione della massa monetaria. Se la Federal Reserve ha affrontato la crisi del 2008, così come le precedenti, in piena autonomia e assecondando le scelte del governo inondando di dollari i mercati con lo scopo di ridurre al minimo il rischio di un crollo dell’intera impalcatura finanziaria, la Banca centrale europea, non possedendo gli stessi strumenti per affrontare adeguatamente situazioni di crisi come quelle di questi ultimi anni,  gli interventi effettuati dalla Bce per allentare le tensioni sui mercati finanziari, si è dovuta muovere tenendo conto  dagli interessi particolari dei vari governi nazionali nonché degli stringenti limiti statutari imposti dal  trattato di Maastricht che, fra l’altro, le impediscono di acquistare titoli dei paesi della aderenti al trattato sul mercato primario. La centralizzazione della gestione della massa monetaria e la capacità di creare capitale fittizio  rappresenta è lo straordinario punto di forza della Federal Reserve e dell’intero sistema americano, grazie al quale l’imperialismo statunitense riesce a spostare fuori dai propri confini le proprie contraddizioni. La crisi dell’euro è, dunque, anche il frutto della capacità imperialistica degli Stati Uniti di scaricare sul resto del mondo i costi della propria crisi. Nel volgere di poco tempo la crisi finanziaria americana, grazie proprio al pompaggio di miliardi di dollari nel sistema finanziario mondiale, si è scaricata dall’altra parte dell’Atlantico trasformando i debiti sovrani di alcuni paesi europei nel nuovo epicentro della crisi finanziaria globale ed evidenziando tutti i limiti di una gestione finanziaria poco centralizzata  e in cui le scelte politiche erano e sono subordinate ai voleri contrastanti dei singoli governi nazionali.

L’euro ai tempi dello spread e della speculazione finanziaria

A differenza della Federal Reserve la Banca centrale Europea è sottoposta a tutta una serie di limitazioni statutarie che le impediscono di intervenire nel mercato finanziario primario, essendo la sua azione vincolata alla possibilità di determinare direttamente soltanto il livello dei tassi d’interesse e il volume della massa monetaria, potendo intervenire soltanto in seconda battuta sul mercato finanziario, acquistando o vendendo titoli di credito già circolanti sul mercato.  La scelta politica fatta dalla borghesia europea è stata dettata dalla volontà di limitare soltanto ad alcuni parametri monetari i poteri della BCE, lasciando ai vari governi nazionali il potere fiscale e, soprattutto, il potere di emettere titoli del debito pubblico. Mentre negli Stati Uniti la politica fiscale, l’emissione dei titoli del debito pubblico e la determinazione della massa monetaria dipendono da un unico centro di potere politico e dalla Federal Reserve, nel vecchio continente la situazione è tuttora alquanto frastagliata essendo la politica fiscale e l’emissione dei titoli del debito pubblico determinati autonomamente dai vari governi nazionali mentre la politica monetaria è esclusiva prerogativa della banca centrale europea.

Per alcuni anni il sistema monetario europeo ha funzionato ma appena è esplosa la crisi nel 2008 tale suddivisione di potere ha mostrato tutti i suoi limiti alimentando in tal modo quegli elementi disgregatori che abbiamo esaminato prima. Mentre gli Stati Uniti hanno potuto determinare la propria azione coordinando politica fiscale, emissione dei titoli del debito pubblico e livello della massa monetaria, sostenendo un sistema finanziario sull’orlo del fallimento attraverso l’indebitamento pubblico, l’Unione Europea si è mossa in ordine sparso e la crescita dei debiti pubblici ha innescato dei meccanismi contraddittori che hanno trovato nella scarsissima centralizzazione dell’architettura dell’euro ulteriore combustibile.

Molti paesi dell’Europa, per affrontare la crisi economica e grazie a politiche fiscali molto soft, hanno favorito l’espansione del debito pubblico non rispettando i parametri imposti dai trattati istitutivi dell’euro. Il mancato rispetto di tali parametri ha avuto come immediata conseguenza che si creasse una differenza (il famigerato spread) fra i tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico dei paesi europei; in maniera particolare tra i titoli del debito pubblico tedesco e quello degli altri paesi. Lo spread è, quindi, anche il segnale che sono in atto fenomeni fortemente disgregatori dell’intero sistema dell’euro poiché rendono la moneta unica più favorevole ad alcuni paesi e molto meno ad altri. Nel periodo di massima tensione nei differenziali tra i tassi d’interesse, quando i titoli di stato italiani scontavano quasi 6 punti percentuali in più rispetto ai titoli decennali tedeschi, si è registrato il fenomeno, apparentemente inspiegabile, che titoli del debito pubblico tedesco hanno fatto registrare rendimenti negativi. In sostanza gli investitori, pur di possedere nel proprio portafoglio titoli tedeschi, erano disposti a pagare, per esempio, cento euro per avere titoli dal valore nominale di 99. Da un lato i titoli a breve termine del debito pubblico tedeschi scontavano tassi d’interesse addirittura negativi, dall’altro i titoli spagnoli ed italiani, per non parlare di quelli grechi e portoghesi, per essere sottoscritti scontavano rendimenti rispetto a pochi mesi prima. Tutto questo ha avuto delle ripercussioni pesantissime sia sui conti pubblici dei paesi in difficoltà, in quanto sono stati costretti a pagare molto di più rispetto al passato in termini di interessi,  che nell’economia reale, in quanto, per rientrare nei parametri fissati dai trattati europei, sono stati costretti, e lo sono ancora , a praticare politiche fortemente recessive con riduzioni della spesa pubblica e tagli draconiani allo stato sociale.

Inoltre, i limitati strumenti della BCE hanno spinto i vari sistemi bancari nazionali dei paesi in maggiore difficoltà a sottoscrivere i titoli di stato emessi dai propri governi, appesantendo  i propri bilanci con obbligazioni che tendono a perdere di valore. Giusto per fare un esempio, il sistema bancario italiano ha sottoscritto in questi ultimi anni una fetta molto più grande del passato di titoli di stato italiani, con il vantaggio immediato di poter ottenere tassi d’interesse più alti, ma con l’enorme svantaggio di doverli utilizzare come collaterale[6] per ottenere dalle altre banche o anche dalla stessa BCE la necessaria liquidità monetaria. Facciamo un esempio: consideriamo una banca tedesca che concede liquidità ad un altro istituto di credito italiano; la banca tedesca concede liquidità alla banca italiana e ottiene in cambio, a garanzia di quanto presta, titoli del debito pubblico italiano che vengono valutati non al loro valore nominale ma a quello di mercato. Pertanto la banca italiana è costretta ad impegnare titoli del debito pubblico italiano dal valore nominale di cento per ottenere una liquidità pari a 90. Il contrario succede alle banche che utilizzano come garanzia titoli tedeschi: per ottenere la liquidità che loro necessita; concedono in garanzia titoli dal valore nominale di 100 per ottenere una liquidità pari a 105. Si spiega tecnicamente in questo modo il fenomeno che abbiamo descritto prima, di titoli di stato tedeschi a breve termine che presentano rendimenti addirittura negativi; le banche che acquistano titoli tedeschi in un primo momento perdono qualche centesimo di euro, ma nel mercato secondario ottengono dei vantaggi enormi in termini di liquidità disponibile.

La recente riduzione dello  spread è dovuta al massiccio intervento della BCE che si è impegnata illimitatamente a comprare titoli di stato al loro valore nominale e concedendo in cambio liquidità alle banche ma rimangono tuttora in essere le contraddizioni che l’hanno determinato. A differenza di quanto avviene negli scambi interbancari, la BCE nel momento in cui concede liquidità a un istituto bancario nazionale immobilizza il titolo di stato utilizzato come garanzia del prestito; il sistema bancario italiano, pur non chiedendo il sostegno del fondo anti spread, ha depositato presso la BCE titoli di stato italiani per un ammontare superiore ai 250 miliardi di euro[7] e solo una piccolissima parte di essi sono finora rientrati nelle casse delle banche. Grazie a questi interventi lo spread è calato ma è pronto a ripartire ad ogni accenno d’incertezza nell’azione di sostegno da parte della Banca centrale europea in quanto non son venuti meno i limiti sopra evidenziati nell’architettura del sistema monetario europeo e nella stessa azione della BCE.

Ma, dati questi limiti, se la BCE è stata finora in grado di evitare il fallimento di paesi come la Grecia e Cipro, non potrà certamente fronteggiare l’eventuale default di paesi come la Spagna o l’Italia; questi ultimi i hanno delle dimensioni tali che nessuna manovra delle BCE potrà evitare, in caso di un loro default, la fine della moneta unica e l’avvitarsi su se stessa dell’intera economia continentale e, a cascata, quella mondiale, costituendo, comunque, l’Ue tuttora la prima area economica del mondo.

Dalla recessione alla depressione economica

Per rientrare nei parametri imposti dai trattati istitutivi della moneta unica e allontanare lo spettro del fallimento dell’euro, i governi europei hanno dovuto ridurre drasticamente il deficit pubblico tagliando spesa pubblica e sostegni allo stato sociale. L’immediata conseguenza di tale politica economica è stata una recessione in tutta l’area continentale con pesantissime ripercussioni sull’intera economia mondiale. Paesi come l’Italia e la stessa Spagna, pur di far rientrare i conti pubblici e ricondurre all’interno della fascia del 3% il rapporto tra il deficit pubblico e il Pil, sono entrati in una recessione che non ha precedenti nella moderna storia del capitalismo e che sta creando una massa enorme di disoccupati ed inoccupati permanenti.

L’euro potrà anche superare l’attuale fase di difficoltà, rimodulando anche la propria architettura finanziaria, ma il prezzo che  sarà salatissimo e lo pagheranno i proletari sia in termini di riduzione dello stato sociale siain termini di una ulteriore riduzione del salario diretto e indiretto. Come recuperare la competitività perduta a causa dello spread se non attraverso una costante riduzione dei salari e l’introduzione di contratti di lavoro ancor più flessibili? La corsa al ribasso dei salari non conosce fine e la crisi finanziaria del 2008 e i successivi suoi sviluppi hanno imposto una violenta accelerazione.

Quando un sistema economico è in crisi  da oltre due anni parlare di recessione è quanto meno improprio, se poi la crisi, come quella attuale, si trascina da più  cinque anni, anche il termine depressione non ne  illustra pienamente la sua profondità e vastità. Il che sta a significare che siamo di fronte a qualcosa che non ha precedenti nella storia del capitalismo moderno.

Il rischio che corre l’economia europea nel sostenere la propria moneta è quindi quello di far piombare il continente nella più grave depressione economica di sempre. Né, per gli intrecci fra le diverse economie nazionali che comunque si sono già determinati e consolidati, il rischio sarebbe minore – come sostengono taluni politici ed economisti-  se  l’euro dovesse fallire e risorgessero le vecchie monete nazionali. In questa caso, le conseguenze sul piano economico e sociale sarebbero ancor più devastanti con un arretramento economico, sociale e civile del vecchio  di dimensioni storiche.

La moneta unica europea potrà superare l’attuale grave situazione di crisi soltanto se i vari governi nazionali cederanno ad enti sovranazionali la gestione della politica fiscale e l’emissione dei titoli del debito pubblico. Senza questo passaggio politico, l’esperienza dell’euro è destinata a fare la stessa fine  del Gold Standard o dei trattati di Bretton Woods: i due sistemi monetari internazionali entrambi  miseramente falliti. Senza questi passaggi obbligati, l’euro, per i limiti strutturali che abbiamo cercato di evidenziare fin qui, è destinato a fallire. Ma forse proprio perché il suo fallimento andrebbe a disegnare scenari davvero apocalittici,  è più probabile che alla fine quei passaggi necessari per la sua sopravvivenza ci saranno.  Ma anche in questo caso  la crisi mondiale è destinata comunque a durare ancora a lungo. Perché è strutturale ed è figlia  di un modo di produzione divenuto antistorico come dimostra il fatto che a ogni giorno in più della  sua permanenza  corrisponde un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche, sociali e civili della stragrande maggioranza della società.



[1] Per un’analisi più approfondita sulla crisi apertasi nel 2008 rinviamo all’articolo “Sulle cause della crisi e delle sue prospettive” apparso sul n. 2 di DMD’ dicembre 2010.

[2] Vedi l’articolo “Grecia docet” pubblicato sul nostro sito www.istitutoonoratodamen.it

[3] Al riguardo vedi: G. Paolucci – L’euro della discordia – www.istitutoonoratodamen.it

[4] Vedi Marcello Minenna - La moneta incompiuta -tabella  pagina 102 -  Ediesse 2013.

[5] Ib. pag. 104

[6] E’ definita collaterale una posta attiva di bilancio - per esempio un titolo obbligazionario pubblico o privato - che viene prestata in garanzia di un’esecuzione finanziaria quale la concessione di un debito da parte della Bce.

[7] Vedi  Federico Fubini – La Repubblica del 7 luglio 2013.