La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto

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Creato: 08 Settembre 2011 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 5349
La legge in quanto tale
 

Presupposta la teoria del valore-lavoro secondo la quale la produzione del plusvalore deriva unicamente dallo sfruttamento della forza-lavoro che viene impiegata per un tempo di lavoro superiore a quello necessario a riprodurre le merci corrispondenti al valore del salario  (v) che l’operaio che la eroga percepisce, la legge della caduta del saggio del profitto è alquanto semplice da descrivere e dimostrare. Marx lo fa sviluppando il seguente modello matematico:

Dato un capitale complessivo C (c + v) = 150 dove c, supposto = a 50, rappresenta il capitale costante cioè non produttivo di plusvalore (macchinari, materie prime ecc.) e v, supposto = 100, il capitale variabile corrispondente cioè al totale dei salari che il capitalista anticipa per impiegare e sfruttare una determinata quantità di forza-lavoro, dato un determinato grado di sfruttamento della forza-lavoro per cui il saggio del plusvalore (pv/v) risulti pari al 100%, abbiamo un saggio del profitto pv/C = 100/150 = 66 (2/3)%. Ora se supponiamo un incremento del capitale costante c del 100% abbiamo che  c diventa pari a 100. Fermo restando il grado di sfruttamento del lavoro e  dunque il saggio del plusvalore, il saggio del profitto risulterà pari a:   100 /200 = 50%

 

Per il fatto cioè che il capitale costante cresce del 100% il saggio del profitto diminuisce di oltre il 16 per cento, per l’esattezza del 16/2/3% ( 662/3% - 50% ).  Tralasciando di riportare gli altri passaggi numerici che Marx fa per descrivere e dimostrare la legge in quanto tale, qui occorre precisare che egli nel Primo libro del Capitale ha già dimostrato che la spinta a una relativa diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante è intimamente connessa al processo di accumulazione del capitale e allo sviluppo della produzione capitalistica.

 

L’incremento di C in misura relativamente maggiore di quello di V non deriva cioè da una scelta dei singoli capitalisti ma dai meccanismi stessi dell’accumulazione del capitale che, grazie esclusivamente allo sfruttamento della forza-lavoro, fanno sì che ad ogni ciclo D-M-D', supponendo che il capitalista in questione non impieghi l’intero surplus per il soddisfacimento dei propri bisogni (riproduzione semplice), D risulti maggiore di quello impiegato nel ciclo precedente.

 

Qui comunque faremo riferimento solo alla riproduzione allargata o all’accumulazione del capitale che dir si voglia.

 

In poche parole, essendo il profitto, che è il fine del capitale, realizzabile alla sola condizione che venga sfruttata la forza-lavoro, cioè alla sola condizione che mediante la produzione delle merci abbia luogo anche la produzione di un determinata quantità di plusvalore, al compimento dell’intero ciclo D-M-D', il capitale iniziale D del successivo ciclo risulterà normalmente accresciuto della gran parte della quantità di plusvalore estorto nel ciclo precedente.

 

Da ciò emerge con tutta evidenza la necessità che in ogni ciclo, dovendosi remunerare capitali via via più grandi, deve accrescersi anche la massa del profitto. Ogni singolo capitalista è quindi costretto, fra l’altro, a individuare di volta in volta  la migliore  combinazione produttiva che potrà consentire una remunerazione del capitale complessivo investito almeno in misura pari al saggio medio del profitto esistente sul mercato. Così facendo e per il fatto, come abbiamo visto, che ad ogni ciclo sono disponibili capitali sempre più grandi, nel capitalismo moderno – cioè a partire dalla rivoluzione industriale della seconda metà del Settecento e la nascita della grande industria – si è accelerata enormemente la spinta a introdurre nella produzione delle merci mezzi di lavoro sempre più sofisticati e tecnologicamente avanzati in modo che con l’impiego di una medesima quantità di forza-lavoro per uno stesso periodo di tempo, si potesse ottenere un’accresciuta quantità di merci o, che è lo stesso, che si potesse produrre, sempre nello stesso periodo di tempo considerato, una medesima quantità di merci impiegando una ridotta quantità di forza-lavoro.  Più in generale, si è accelerata enormemente la spinta a incrementare la forza produttiva sociale del lavoro mediante la modificazione della composizione tecnica del capitale. Scrive Marx: “… tutti i metodi - per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro… sono insieme metodi per aumentare la produzione del plusvalore ossia del plusprodotto, che a sua volta è elemento costitutivo dell’accumulazione. Sono dunque allo stesso tempo metodi per la produzione di capitale mediante capitale o metodi per l’acceleramento della sua accumulazione. La ininterrotta trasformazione del plusvalore in capitale si rappresenta come grandezza crescente del capitale che entra nel processo di produzione. Questa ( cioè la grandezza crescente del capitale - ndr) diviene a sua volta base di una scala allargata di produzione, dei metodi ad essa concomitanti per l’incremento della forza produttiva del lavoro e per l’acceleramento della produzione del plusvalore…..Insieme con l’accumulazione del capitale si sviluppa quindi il modo di produzione specificamente capitalista, e insieme al modo specificamente capitalista, l’accumulazione del capitale. Questi due fattori economici producono, in ragion composta dell’impulso che si danno a vicenda, il cambiamento della composizione tecnica del capitale in virtù della quale la parte costitutiva variabile diventa sempre più piccola a paragone di quella costante.” ( Il Capitale – Libro primo- cap. 23 – pag 769 – Ed. Einaudi).

 

Dalla lunga citazione si evince dunque che il processo che determina l’impulso  a modificare la composizione tecnica e dunque, considerata sotto l’aspetto del valore, la composizione organica del capitale - è un processo intimamente connesso con il processo di accumulazione del capitale stesso e perciò a questo subordinato.

 

Abbiamo visto, però, che la modificazione della composizione organica del capitale ha come immediata conseguenza la diminuzione relativa di V rispetto al capitale costante e come da ciò ne derivi anche una costante tendenza alla diminuzione del saggio del profitto. Il modo di produzione capitalistico cioè nel mentre crea le condizioni per il suo ulteriore sviluppo,  sviluppa anche  le contraddizioni che possono determinarne il crollo evidenziandone così la sua transitorietà.

 

La crescita del capitale costante, mediamente impiegato nei processi produttivi, registrata negli ultimi due secoli e in particolar modo nel secolo scorso, è stata tanto poderosa che il crollo del sistema si sarebbe verificato già da un bel pezzo se non avessero operato alcune cause antagonistiche che hanno impedito alla legge della caduta del saggio medio del profitto di manifestarsi nella sua purezza cosi come descritto nel modello di Marx .

 

In realtà, come sottolinea lo stesso Marx: “…le medesime cause ( accumulazione del capitale e sviluppo del modo di produzione capitalistico- ndr) che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a cause antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta”. Infatti, se ritorniamo al  modello iniziale e anziché supporre immutato il saggio del plusvalore lo ipotizziamo in crescita,  risulterà evidente che ogni aumento del saggio del plusvalore, e dunque del plusvalore,  contribuisce a ostacolare, rallentare e parzialmente paralizzare la caduta del saggio del profitto e  che, appunto, se non ci fosse  questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio del profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario lo sarebbe la relativa lentezza di questa caduta. In realtà l’azione della cause antagonistiche fa sì che la legge si riduca  a “una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempi” ( Marx – Il Capitale – Libro terzo- cap. 14°  - pag. 336 – Ed. Einaudi).

 

Le cause antagonistiche sono tali, dunque, perché “ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano “ la caduta del saggio del profitto.  Marx indica come “le più generali” cause antagonistiche le seguenti:

 

a)      Aumento del grado di sfruttamento del lavoro;

 

b)      Riduzione del salario al di sotto del suo valore;

 

c)      Diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante;

 

d)     La sovrappopolazione relativa;

 

e)      Il commercio estero;

 

f)       L’accrescimento del capitale azionario.

 

Qui, e non certo perché  le altre siano meno importanti, ci soffermeremo solo sulla prima:  L’aumento del grado di sfruttamento del lavoro per l’ovvia ragione che esso è il presupposto indispensabile perché si possa realizzare quell’incremento della produzione del plusvalore necessario per ostacolare, rallentare e parzialmente paralizzare la caduta del saggio del profitto. Ora -ci dice ancora Marx - l’aumento del “grado di  sfruttamento del lavoro e l’appropriazione del pluslavoro e del plusvalore vengono soprattutto accresciuti mediante il prolungamento della giornata lavorativa e l’intensificazione del lavoro stesso. Ambedue questi punti sono svolti esaurientemente nel Libro I° a proposito della produzione del plusvalore assoluto e relativo.”

 

Esaminiamo ora come questi due modi di produzione del plusvalore, incrementando il saggio del plusvalore, operano quale causa antagonistica della caduta del saggio del profitto astraendo, in un primo momento, l’uno dall’altro, cioè prendendoli in esame separatamente.

 

 

 

 

 

Plusvalore assoluto e plusvalore relativo

 

Come sappiamo, Marx distingue nella giornata lavorativa la parte necessaria  alla riproduzione della forza-lavoro, ossia – come egli scrive- “per riprodurre il valore che egli (l’operaio ndr) ha ottenuto vendendola ( la forza-lavoro ndr)”,  che egli chiama  tempo di lavoro necessario dal resto della giornata lavorativa.  La differenza fra questi due segmenti, durata della giornata lavorativa e durata del tempo di lavoro necessario, commisura il tempo di pluslavoro che, nella sua espressione di valore, commisura la quantità di plusvalore che il capitalista estorce all’operaio; mentre il rapporto fra  PV (plusvalore) e V ( capitale variabile, salari) commisura il saggio del plusvalore. Se ne deduce, quindi, che  il saggio del plusvalore, può essere accresciuto solo incrementando la produzione di plusvalore  o riducendo il valore dei salari. La produzione di plusvalore, a sua volta,  può essere aumentata in solo due modi: o prolungando la giornata lavorativa e/o riducendo il tempo di lavoro necessario. Chiamiamo produzione del plusvalore assoluto il primo metodo  e del plusvalore  relativo il secondo.

 

Ritornando al  modello iniziale, è evidente che ogni aumento del saggio del plusvalore comunque ottenuto, a parità di condizioni,  contribuisce a “ostacolare, rallentare e parzialmente paralizzare la caduta del saggio del profitto”, opera, cioè, come causa antagonistica  e risulterà  tanto più efficace, cioè ostacolerà, rallenterà o parzialmente paralizzerà la diminuzione del saggio del profitto,  quanto maggiore sarà stato il suo incremento.

 

Nondimeno, essendo il modo di produzione del plusvalore assoluto diverso da quello di produzione del plusvalore relativo diversi sono anche  i presupposti necessari a che la loro produzione abbia luogo e diverse le conseguenze che ne derivano in relazione alla legge della caduta del saggio medio del profitto.

 

 

 

La produzione del plusvalore assoluto

 

Il modo di produzione del plusvalore assoluto, derivando unicamente dal prolungamento della giornata lavorativa, non comporta, infatti,  alcuna modificazione della composizione organica del capitale e neppure alcun incremento della produttività sociale del lavoro. Per questa ragione Marx sottolinea in via teorica che:  “.. la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto viene indebolita soprattutto a causa del prolungamento del saggio del plusvalore assoluto risultante dal prolungamento della giornata lavorativa.” ( Il Capitale – libro terzo – cap. 14 pag. 330).

 

Peraltro, per tutta la prima fase della rivoluzione industriale,  si è osservato l’apparente paradosso per il quale, nonostante  la crescita poderosa della produttività sociale del lavoro conseguente all’introduzione nei processi produttivi di macchine sempre più efficaci,  il capitale, contrariamente alle previsioni degli economisti e degli intellettuali borghesi, è stato spinto, ” senza che ne [fosse] cosciente, al più violento prolungamento della giornata lavorativa per compensare la diminuzione del numero relativo degli operai sfruttati mediante l’aumento non soltanto del plusvalore relativo, ma anche di quello assoluto.” ( Il capitale – libro primo – capitolo 13° - pag. 499). Il capitalismo cioè, per compensare la caduta del saggio del profitto derivante dai processi di modificazione della composizione organica del capitale, fin quando ha potuto, anziché ridurre la durata della giornata lavorativa l’ha aumentata.  L’impiego delle macchine, nell’ambito del modo di produzione capitalistico, anziché, come si attendeva già Aristotele,  favorire il processo di liberazione dell’uomo dalla fatica, ha avuto come conseguenza immediata l’ulteriore soggezione dell’uomo alla fatica stessa.

La spinta al prolungamento della giornata lavorativa determinando comunque l’accrescimento della produzione di plusvalore, imprime al processo di accumulazione e di modificazione della composizione organica del capitale un’ulteriore accelerazione e, nella misura in cui ne consegue una diminuzione del saggio del profitto, anche una maggiore spinta all’ulteriore prolungamento della giornata lavorativa. Così, mentre risulta frenata o annullata la diminuzione del saggio del profitto, la tendenza alla riduzione dell’impiego di forza-lavoro, anche solo per il fatto che ogni singolo lavoratore è costretto a lavorare per un maggior numero di ore, risulta in ultima istanza comunque accelerata.

 

Tutto ciò, per tutta la fase iniziale della moderna produzione industriale (macchinismo) si è tradotto in un continuo incremento della giornata lavorativa fino a16 ore giornaliere. A  partire dagli anni quaranta dell’Ottocento, però, ogni ulteriore prolungamento è risultato impossibile.

 

Per fortuna di coloro che aspirano a seppellire il capitalismo, in quanto basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la divisione in classi della società,  anche questa che, in linea teorica risulta essere, e  per un determinato periodo di tempo, è stata la più efficace delle cause antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio del profitto, presenta limiti oggettivi e soggettivi insuperabili. E quelli oggettivi hanno addirittura  valenza assoluta, nel senso che il loro eventuale superamento non è nelle concrete possibilità dell’animale uomo. L’uomo  può sviluppare tecnologie sempre più sofisticate, può scrivere libri, occuparsi della critica dell’economia politica, amare, odiare, lavorare di più o di meno, ma finché vive su questa terra non può prolungare la durata del giorno a suo piacimento e se  si tratta di un lavoratore non potrà prolungare neppure in via del tutto astratta la giornata lavorativa oltre le 24 ore. Limite che si accorcia ulteriormente se si tiene conto che per far funzionare il corpo umano, seppure solo come macchina da lavoro, sono necessarie determinate  attività  fisiologiche e biologiche senza le quali la sua stessa esistenza sarebbe  impossibile. Di più: l’introduzione nei processi produttivi di macchinari sempre più sofisticati, determinando una fortissima intensificazione del lavoro, a un certo punto dello sviluppo del sistema delle macchine e della grande industria,  ha reso praticamente impossibile ogni ulteriore prolungamento della giornata lavorativa proprio perché era impossibile per l’operaio medio sostenere i nuovi ritmi produttivi per un numero di ore molto elevato. A tale proposito Marx scrive: “ E’ ovvio che con il progresso del sistema meccanico e con l’esperienza accumulata da una classe particolare di operai meccanici aumenti spontaneamente la velocità e con essa l’intensità del lavoro. In tal modo durante mezzo secolo il prolungamento della giornata lavorativa procede in Inghilterra di pari passo con la crescente intensità del lavoro di fabbrica. Ma si capisce che in un lavoro in cui non si tratta di parossismi passeggeri, ma di una uniformità regolare, ripetuta giorno per giorno, si deve giungere a un punto cruciale in cui l’estensione della giornata lavorativa e l’intensità del lavoro si escludano a vicenda cosicché il prolungamento della giornata lavorativa resta compatibile con un grado più debole d’intensità del lavoro e, viceversa, un grado accresciuto di intensità  resta compatibile  solo con un accorciamento della giornata lavorativa. Appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe costretto lo stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa  fu precluso una volta per tutte, il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine.” ( Il capitale - Libro primo – capitolo 13-  pag 501). Dunque alla risposta inconsapevole alla conseguenza ( l’incremento del plusvalore assoluto) della riduzione di V, a un certo punto ne è subentrata necessariamente una consapevole

 

(l’incremento del plusvalore relativo). E da allora è stata questa la risposta che più ha segnato e permeato di sé il modo di produzione capitalistico mentre la  tendenza al prolungamento della giornata lavorativa si è sostanzialmente arrestata e, grazie anche alla ribellione della classe operaia, nel volgere degli ultimi 150 anni la giornata lavorativa si è perfino ridotta.

 

In verità, l’intervento dello Stato, che ha limitato per legge la durata della giornata lavorativa, si è reso necessario perchè il prolungamento della giornata lavorativa oltre un certo limite minaccia l’integrità della stessa società borghese.  “ Non v’è il minimo dubbio- scrive Marx- che la tendenza del capitale, appena la legge gli preclude una volta per tutte  il prolungamento della giornata lavorativa, a ripagarsi con un aumento sistematico del grado di intensità del lavoro e a stravolgere ogni perfezionamento del macchinario in un mezzo di succhiare più forza-lavoro, dovrà presto portare di nuovo a una svolta in cui si renderà inevitabile una nuova diminuzione delle ore lavorative. D’altra parte la grande corsa compiuta dall’industria inglese dal 1848 sino ai nostri giorni, ossia durante il periodo della giornata lavorativa di dieci ore, supera di gran lunga l’epoca dal 1833 al 1847, ossia il periodo della giornata lavorativa di dodici ore, più di quanto quest’ultima non superi il mezzo secolo trascorso dopo l’introduzione del sistema di fabbrica ossia il periodo della giornata lavorativa illimitata.” ( Libro primo cap. citato pag. 511-512).

 

Passiamo ora ad esaminare  l’incremento del saggio del plusvalore mediante l’incremento della produzione del plusvalore relativo.

 

 

 

La produzione del Plusvalore  Relativo

 

Come abbiamo visto, l’incremento del plusvalore relativo scaturisce dalla riduzione del tempo di  lavoro necessario cioè dalla riduzione del tempo di lavoro che l’operaio impiega per produrre la quantità di merci corrispondente al valore del suo salario ovvero per riprodurre il valore di V anticipato dal capitalista. In poche parole, l’incremento del saggio del plusvalore mediante l’incremento del plusvalore relativo, presuppone l’incremento del grado di produttività sociale della forza- lavoro che  Marx definisce nel modo seguente:” Prescindendo da condizioni naturali quali la fertilità del suolo ecc. e dall’abilità di produttori indipendenti che lavorano isolati, la quale si fa valere tuttavia più qualitativamente nella bontà che quantitativamente nella massa del manufatto, il grado di produttività del lavoro si esprime nel volume della grandezza relativa dei mezzi di produzione  che un operaio trasforma in prodotto durante un dato tempo, e con la medesima tensione della forza-lavoro.” (Capitolo 23° - libro primo – pag. 764, 765) In seguito all’accorciamento della giornata lavorativa, però, l’incremento della produttività del lavoro ha reso sempre più necessario anche un costante incremento del grado di condensazione del lavoro, un maggiore dispendio di lavoro e una maggiore tensione della forza-lavoro cioè  una costante intensificazione del lavoro. Rinviamo, chi volesse approfondire meglio questo passaggio alla lettura del paragrafo c del capitolo 13° del Primo Libro del Capitale; qui ci sembra più opportuno, al fine di poter  meglio comprendere l’operare contraddittorio dell’incremento della produttività del lavoro rispetto alla produzione del plusvalore relativo e, dunque,  di quest’ultimo rispetto alla caduta del saggio del profitto, procedere a una puntualizzazione.

 

In passato, e ancora oggi, un po’ tutti noi, nel descrivere le cause antagonistiche  che si oppongono alla caduta del saggio del profitto, abbiamo assunto spesso l’incremento della  produttività del lavoro in quanto tale quasi come sinonimo d’incremento  del plusvalore relativo e del saggio del plusvalore; in realtà, le cose non stanno così perché questa corrispondenza è tutt’altro che automatica e scontata. L’incremento della produttività del lavoro è infatti il presupposto, la condizione necessaria  ma non sufficiente perché abbia luogo l’incremento della produzione di plusvalore relativo;  in realtà affinché ciò avvenga è necessario che restino immutati tutti gli altri fattori che concorrono alla sua produzione e in particolare il valore di V (salari) e la durata della giornata lavorativa. Se, infatti, a un determinato incremento della produttività del lavoro dovesse corrispondere, ferme restando tutte le altre condizioni, un aumento dei salari  che assorbisse l’intero valore della riduzione del tempo di lavoro necessario  è evidente che non vi sarebbe nessun incremento del plusvalore relativo.  Altresì, non si verificherà nessun incremento del saggio del plusvalore anche se, a parità di salario, la classe operaia dovesse riuscire a ottenere con la sua lotta una riduzione della durata della giornata lavorativa equivalente, dal punto di vista del valore, alla riduzione del tempo di lavoro necessario. Assumere, dunque, l’incremento della produttività del lavoro come sinonimo di incremento del plusvalore relativo e/o del saggio del plusvalore può  ingenerare equivoci soprattutto quando questa infelice locuzione viene usata anche  al di fuori di quella ristretta cerchia di compagni che, avendo alle spalle un comune percorso di formazione e un lungo e quasi quotidiano scambio di idee su questa questione, la usano consapevoli dei significati e delle relazioni a essa sottointesi.

 

Vediamo ora, nelle loro linee generali i modi che consentono un incremento della produzione del plusvalore relativo mediante l’incremento della produttività del lavoro. Sostanzialmente, visto che essa, in ultima analisi,  si traduce sempre nella riduzione del tempo di lavoro necessario, se ne possono distinguere fondamentalmente due:

 

a)      introducendo macchine tecnologicamente sempre più avanzate nei processi produttivi, cosa che comporta una modificazione della composizione organica del capitale;

 

b)      intensificando il lavoro in modo che diminuisca quella che Marx chiama la porosità del tempo di lavoro senza che ciò presupponga l’introduzione nei processi produttivi di nuove macchine e perciò una modificazione della composizione organica del capitale.

 

Spesso questi due sistemi sono complementari fra loro e l’uno dà impulso all’altro e così via. E’ questo, per esempio,  il caso dell’organizzazione taylorista del lavoro che pur essendo stata concepita sulla base dello studio dei movimenti del lavoratore per ottenerne la massima semplificazione e facilitarne la reiterazione, incrementandone così la produttività oraria, ha trovato il suo completamento e raggiunto la sua massima efficacia  quando nei processi produttivi  è stata introdotta la trasferta rigida (catena di montaggio). Di contro, anche un aumento della produttività del lavoro dovuto a un’accresciuta abilità del lavoratore nell’uso di una determinata macchina,  può essere agevolato dall’introduzione di macchine il cui funzionamento risulti semplificato e di più facile apprendimento. A volte anche piccolissime modifiche tecniche, impercettibili dal punto di vista della modificazione della composizione organica del capitale, sono sufficienti per determinare notevoli incrementi della produttività del lavoro. Per esempio, come ci ricorda Marx  l’introduzione della “self-acting mule” , intorno al 1855, permise un incremento della velocità dei fusi di un quinto. Fra i numerosi metodi con cui è possibile incrementare la produttività del lavoro senza modificare la composizione organica del capitale, vanno ricordati anche quelli basati sui metodi di pagamento del salario direttamente collegati alla produttività del lavoro (cottimo, premi di produzione ecc.ecc.).

 

I limiti impliciti nella produzione del plusvalore relativo mediante l’incremento della produttività del lavoro, quando questa non presuppone la modificazione della composizione organica del capitale, sono sostanzialmente  simili a quelli esaminati per la produzione del plusvalore assoluto. In questo caso, infatti, la spinta alla modificazione della composizione organica del capitale non subisce impulsi maggiori di quanti non ne riceva con  l’incremento della produzione di plusvalore assoluto.

 

E’ del tutto evidente invece che l’incremento  della produttività del lavoro ottenuto intensificando il ricorso alle macchine, nella misura in cui dà luogo all’incremento della produzione del plusvalore relativo, imprime sia al processo di accumulazione che al conseguente processo di modificazione della composizione del capitale un’ulteriore fortissima accelerazione riproponendo così, in ultima analisi, la contraddizione su una base più ampia della tendenza alla  diminuzione  del saggio del profitto.

 

La spinta alla modificazione della composizione organica del capitale riceve, cioè, un impulso permanente dettato dalla necessità di dover accrescere la produttività del lavoro in misura tale che la diminuzione del saggio del profitto derivante dalla diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante, trovi sufficiente compensazione nell’ incremento del plusvalore relativo.

 

Qui il limite, a differenza di quanto accade con la produzione del plusvalore assoluto  non è individuabile in una precisa condizione fisica come sono le 24 ore che compongono un giorno, ma, frutto della combinazione di diversi fattori che ammettono una serie molto vasta di possibili combinazioni quantitative e qualitative, si esprime soprattutto nell’accelera-zione dei meccanismi che determinano l’andamento ciclico dell’economia con il suo corollario di crisi e guerra e nel contempo  nella violenta accelerazione della  tendenza alla concentrazione e centralizzazione dei capitali quale presupposto per lo sviluppo del controllo monopolistico dei mercati e delle forme del dominio imperialistico. (Vedi al riguardo il documento del Bipr “Puntualizzazione sul concetto di decadenza apparso in Prometeo n. 12/2005).

 

In realtà, tutti i metodi per incrementare il saggio del plusvalore hanno dei limiti insuperabili che fanno sì che la legge della caduta ‘tendenziale del saggio del profitto non possa essere in alcun modo soppressa.

 

Prevale ora uno ora l’altro metodo a seconda delle diverse circostanze fra cui importantissimo è il grado di combattività e di resistenza della classe operaia. Così, fino a un certo punto è prevalsa la produzione del plusvalore assoluto; dopo, (e ancora oggi è così, anche se negli ultimi tempi si assiste con sempre maggiore frequenza al tentativo da parte della borghesia  di riproporre, nella forma camuffata  del concetto di periodo di lavoro,  il prolungamento della durata della giornata lavorativa) quella del plusvalore relativo.

 

Insomma, “ L’aumento del saggio del plusvalore,  come scriveva Marx quasi a mo’ di conclusione dell’esame della prima delle cause antagonistiche da lui  presa in considerazione (Aumento del grado di sfruttamento del lavoro), - specialmente quando esso si verifica in circostanze nelle quali, come si è precedentemente accennato, il capitale costante non cresce o almeno non cresce in proporzione al capitale variabile – è un fattore che determina la massa del plusvalore e di conseguenza il saggio del profitto. Esso non annulla la legge generale, ma fa sì che abbia più che altro valore di tendenza ossia: di legge la cui completa attuazione è ostacolata, rallentata, indebolita dai fattori antagonistici. Poiché le stesse cause che fanno aumentare il saggio del plusvalore (anche il prolungamento della giornata lavorativa è un prodotto della grande industria), tendono a ridurre la forza-lavoro impiegata da un dato capitale, esso tendono egualmente a diminuire il saggio del profitto ed a rallentare l’andamento di questa diminuzione.”

 

( Il Capitale – libro terzo- capitolo 14° - pag. 330 )

 

A questo punto, però, per evitare che spiegata la legge e il suo contraddittorio manifestarsi, resti  il mistero del mancato crollo del sistema capitalistico è necessario ritornare dall’astrazione teorica, che pure ci ha consentito, isolandoli  e, astraendo ora dall’uno ora dall’altro, di studiare i diversi  fattori che danno vita al fenomeno, al loro movimento reale. Finora, per esempio, abbiamo  preso in esame la produzione di plusvalore assoluto isolatamente da quella del plusvalore relativo e viceversa, come se uno escludesse l’altro. In realtà sappiamo che entro certi limiti, si integrano concorrendo  entrambi all’incremento del saggio del plusvalore cosicché storicamente questa  causa antagonistica, è risultata di gran lunga più efficace di quanto l’astrazione teorica potrebbe far supporre. E ciò  vale ancor di più  per quel che riguarda più specificatamente la produzione del plusvalore relativo. Per meglio esplicitarne il concetto, in sede di astrazione teorica e dovendone evidenziare la stretta connessione che esiste fra la sua produzione e l’incremento della produttività del lavoro, il movimento  fra il capitale costante e il capitale variabile è stato assunto come se si svolgesse  solo in modo antitetico e senza soluzione di continuità; in realtà non è sempre così, anzi storicamente è stato così solo nei periodi precedenti e durante le grandi crisi strutturali. E poi  a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, quando nei processi produttivi è stato introdotta la microelettronica, cioè quando è nato e si è sviluppato un settore che impiega pochissima manodopera e produce macchine fortemente sostitutive di essa.

 

Per circa due secoli, invece, la quantità di forza-lavoro impiegata nei processi produttivi è cresciuta costantemente, seppure in misura relativamente minore del capitale costante. A ogni grande innovazione tecnologica ha corrisposto, infatti, quasi sempre anche  la nascita di un qualche nuovo settore produttivo capace di accogliere non solo la manodopera espulsa a causa dei processi di ristrutturazione dai settori più maturi, ma di richiederne anche l’impiego di quantità supplementari talché la caduta del saggio del profitto è stata non solo frenata o rallentata, ma per periodi di tempo anche lunghi, perfino annullata. Una delle conseguenze più vistose del manifestarsi contraddittorio di questo fenomeno è stato il gigantesco processo di urbanizzazione che ha avuto luogo negli ultimi due secoli e in particolare a partire dalla seconda metà dell’Ottocento  in tutto il mondo industrializzato.

 

Milioni e milioni di contadini poveri hanno abbandonato la campagna richiamati nelle fabbriche dalla possente voce del capitale che prometteva, e per molto tempo mantenendo la promessa, condizioni di esistenza più dignitose e stabili di quelle che offriva l’agricoltura.

 

Inoltre, le grandi innovazioni tecnologiche non sono cosa di tutti i giorni e spesso ci vogliono decenni prima che determinati sistemi produttivi possano essere sostituiti da altri con effettivo vantaggio dal punto di vista dei singoli capitalisti e del sistema in generale.

 

Se  teniamo conto di tutto ciò, ecco che allora lo sviluppo poderoso del sistema capitalistico appare tutt’altro che misterioso. Cresceva il capitale costante, ma anche quello variabile e cresceva la massa dei profitti. Cresceva la massa dei profitti e capitali sempre più grandi potevano essere immessi nel mondo della produzione consentendo così alla grande industria e alla produzione su vasta scala di svilupparsi enormemente cosicché l’incremento della produttività del lavoro è risultata la  leva più potente dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e la più efficace causa antagonistica alla caduta del saggio del profitto nell’arco di tempo che va dagli anni quaranta del 1800 ai giorni nostri. Tanto potente ed efficace che agli occhi non solo degli economisti e degli intellettuali borghesi, ma anche di molti  di scuola marxista, è sembrato che la teoria del valore-lavoro fosse stata superata non già perché fosse errata nelle sua formulazione generale, ma  proprio perché, grazie allo sviluppo della tecnica, appariva  possibile incrementare contemporaneamente i profitti,  i salari e  nello stesso tempo ridurre anche la durata della giornata lavorativa.

 

Ebbri di tanto successo gli economisti borghesi, ivi compresi anche i più valenti fra cui Keynes, si sono spinti fino a pronosticare l’avvento in questo secolo di un nuovo Eldorado in cui non si sarebbe lavorato più di qualche ora al giorno e sarebbe bastato schiacciare un bottone perché il ben di dio arrivasse nella casa di ognuno senza il minimo sforzo.

 

La realtà si è incaricata di smentirli clamorosamente e ora sono sempre più numerosi coloro che denunciano il continuo degradare del sistema nel suo insieme verso forme di barbarie che sembrava che la storia avesse ormai archiviato per sempre.

 

Basti pensare alla guerra ormai divenuta “permanente”, al ritorno su scala sempre più vasta della figura del mercenario e/o del soldato a cui, come un tempo alle orde dei lanzichenecchi,  è data, in compenso della scarsa paga, libertà di saccheggio della popolazione civile inerme; alla frantumazione degli stati, all’artata riproposizione delle guerre di religione, del razzismo della xenofobia e così via.

 

In verità, il sistema è scosso fin nelle sue fondamenta  proprio dallo sviluppo di quelle contraddizioni così mirabilmente colte dalla critica marxista dell’economia politica che trova pertanto in tutto ciò la sua inoppugnabile conferma e con essa anche quella delle ragioni del comunismo rivoluzionario.