Sulla crisi dei subprime, rileggendo Marx

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Creato: 08 Settembre 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 5774
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La crisi finanziaria esplosa lo scorso agosto, nonostante le maggiori banche centrali si siano letteralmente dissanguate per soddisfare le richieste di liquidità dei mercati finanziari, ha ormai pervaso il sistema economico mondiale e l’ottimismo ha lasciato il posto a previsioni alquanto pessimistiche sul futuro dell’economia mondiale. Nel prossimo anno è data per scontata una contrazione della crescita del Pil mondiale di almeno un punto e mezzo e di un punto nell’anno successivo. Ma alla luce dei pochi dati disponibili anche questa previsione appare viziata per difetto; infatti, all’inizio della crisi, il presidente della Federal Reserve, Bernake, ipotizzava perdite nel mercato dei subprime per circa 100 miliardi di dollari.Oggi pare che il buco abbia già superato i 400 miliardi di dollari, ma anche questa cifra non è definitiva perché è stata calcolata sulla base di una  proiezione delle perdite subite e iscritte in bilancio  soltanto da alcune grandi banche quali la Bank of America ( 4 miliardi di dollari), la Citygroup (2,2miliradi di dollari), la Morgan Stanley (750 milioni di dollari), la Countrywide (1,2 miliardi di dollari), la Merryl Linch ((2,24 miliardi) ecc. In realtà non c’è nessuno sulla faccia della terra, neppure i banchieri e i gestori dei fondi immobiliari, che sia in grado di dire a quanto realmente ammonteranno le perdite. Il meccanismo di emissione delle cosiddette CD0 (collateralized debt obligation) infatti, funziona come una catena di S, Antonio. Queste, una volta  emesse derivandole dai mutui concessi dalle banche, a tassi molto più alti di quelli di mercato, a proprietari di case anche se indebitati fino al collo e con reddito incerto, danno vita a un circuito che si autoalimenta e si propaga da una banca all’altra e da queste ai Fondi di investimento ad alto rischio per finire nel portafoglio-titoli dei Fondo Pensioni e dei risparmiatori, soprattutto se piccoli, ingrossandosi come una valanga ad ogni passaggio. Si tratta, pertanto, di veri e propri pezzi di carta il più delle volte neppure commerciabili prima della loro scadenza e perciò dal valore non verificabile sul mercato  se non in modo molto approssimativo  per cui è pressoché impossibile quantificare il loro ammontare complessivo e di conseguenza anche quello delle eventuali perdite connesse.[1]

Data la natura quasi truffaldina e ambigua dei derivati finanziari, quali sono appunto i Cod, la maggior parte degli economisti ritiene che la loro produzione costituisca  un’anomalia del sistema piuttosto che la caratteristica peculiare del moderno capitalismo monopolistico; pertanto considera le crisi che ne derivano, in quanto frutto solo degli eccessi di produzione di questa particolare forma di capitale finanziario, un fatto a sé circoscrivibile e riassorbibile nel breve-medio periodo con opportune manovre al rialzo o al ribasso  dei tassi di interesse.

Questa volta, però, la sovrapproduzione di questi derivati ha raggiunto dimensioni tali da far ritenere che il sistema economico mondiale, per metabolizzarla, dovrà necessariamente passare sotto le forche caudine almeno di una riduzione significativa della crescita economica poiché si teme che la crisi dei subprime possa avere ripercussioni anche sui consumi interni e sulla domanda aggregata statunitensi per estendersi poi all’intera domanda aggregata mondiale. Una parte considerevole di questi mutui, infatti, è stata concessa anche per finanziare i consumi delle famiglie indotte, dal crescente valore delle loro abitazioni, a contrarre mutui su di esse e a rinnovarli, una volta giunti a scadenza, con uno nuovo di importo accresciuto in ragione direttamente proporzionale al valore accresciuto delle loro case. Le famiglie americane, storicamente fra le più propense a contrarre debiti, non hanno esitato quindi a indebitarsi fino al collo nell’illusione che il debito si sarebbe pagato da sé. Ora, nella graduatoria delle famiglie più indebitate del mondo, con un rapporto debito/reddito disponibile pari al 128 per cento, occupano il secondo posto dopo quelle famiglie britanniche (148 per cento), contro, per esempio, il 50 per cento delle famiglie italiane.[2] L’illusione che i mutui  si potessero pagare da sé all’infinito è svanita non appena la Federal Reserve è stata costretta, per non imbarcare inflazione a seguito della svalutazione del dollaro, a rialzare i tassi di interesse. A questo punto, molti mutuatari, non potendo più onorare i loro debiti, o sono falliti (negli Usa anche i privati possono dichiarare fallimento) e le loro case vendute all’asta o, per evitare il fallimento,  le hanno vendute a prezzi stracciati e così  è crollato non solo  il mercato immobiliare ma anche il sistema di finanziamento del credito al consumo basato sulla rivalutazione speculativa dei valori immobiliari. Nonostante ciò la maggior parte degli economisti, pur riconoscendo che la situazione che si è creata  è molto pericolosa, movendo dall’assunto che i fondamenti della cosiddetta economia reale siano sani, ritengono che anche questa crisi del sistema finanziario internazionale sia destinata a essere riassorbita senza grandi cataclismi. Per esempio, Allen Sinai, esponente di spicco della scuola monetarista di Milton Friedman che negli anni ’80 è stato consulente della Federal Reserve e poi anche di Bush padre e di Clinton, pur essendo fra i più allarmati sulle possibili evoluzioni della crisi dei subprime, in una intervista concessa a La Repubblica del 29/10/2007, alla domanda: “Quindi recessione?” ha risposto:”Non necessariamente. In un periodo che potremmo individuare dai 6 ai 9 mesi a questa parte ci troveremo in semi-recessione: l’economia potrebbe non finire in rosso,  o  tutt’al più per un trimestre, ma procederà al rallentatore ad un tasso annualizzato dell’1% o appena di più.” E alla domanda: “ Ma tutto deriva dalla crisi immobiliare?”,  ha risposto: ”Si, per quanto difficile da credere. L’importanza di questo settore in America è senza uguali. Si può finire in semi-recessione anche senza che alcun settore manifatturiero vada in crisi.”

Vale qui la pena di rilevare la gigantesca contraddizione dell’economia politica neoliberista o, che è la stessa cosa, dell’economia politica del grande capitale finanziario e delle banche. Da un lato essa sostiene che il capitale, che Marx definisce “monnayed capital nel senso di capitale produttivo di interesse[3] è capitale – sempre per dirla con Marx- par excelence[4] e ne rivendica la libera produzione e circolazione in quanto fonte produttiva inesauribile di ricchezza; dall’altro, quando la crisi svela l’arcano, ammette che si tratta di una forma di capitale nettamente distinta, sempre per dirla con Marx: “dal capitale produttivo (di plusvalore ndr) e dal capitale-merce[5] tanto da ritenere possibile una profonda crisi del sistema finanziario senza che si estenda al settore manifatturiero. Ora, delle due l’una: o l’economia politica delle banche mente spudoratamente quando rivendica la libera produzione del capitale produttivo di interessi in quanto fonte di nuova ricchezza, oppure mente quando sostiene che è ininfluente rispetto all’economia reale anche nell’attuale fase dell’imperialismo. A questo punto, però, vale la pena di soffermarsi un po’ su questa particolare forma di capitale finanziario.

La produzione di capitale fittizio in generale

La produzione di capitale fittizio non è un’invenzione del sistema capitalistico moderno. Già Marx, nell’esaminare gli elementi costitutivi del capitale bancario distingue questa particolare forma di capitale finanziario da tutte le altre: “Il Capitale bancario - egli scrive nel Terzo libro del Capitale- consiste: 1) di denaro contante, oro o banconote 2) di titoli. Possiamo ancora suddividere questi ultimi in due parti: effetti commerciali, cambiali che vengono di quando in quando in scadenza, e il cui sconto costituisce la peculiare attività del banchiere; e titoli pubblici, come titoli di Stato, buoni del tesoro, azioni di qualsiasi tipo, in breve titoli fruttiferi ma sostanzialmente distinti dalle cambiali.[6] E a proposito dei titoli di stato subito dopo precisa: “Prendiamo come esempio il debito pubblico…Lo Stato deve pagare annualmente ai suoi creditori una certa somma di interessi per il capitale preso in prestito. Il creditore non può in questo caso richiedere al suo debitore il capitale, ma può soltanto vendere il suo credito, il suo titolo di proprietà. Il capitale stesso è stato consumato, speso dallo stato. Non esiste più.”[7]

Il titolo che questo credito rappresenta è dunque capitale solo in apparenza nel senso che la sua autovalorizzazione non avviene in quanto capitale investito nella produzione delle merci. Nondimeno questi titoli  avendo, in quanto produttori di interesse, un loro mercato autonomo  possono essere rivenduti per cui, agli occhi di chi investe i propri capitali nel loro acquisto, la valorizzazione di quei capitali appare sganciata dal reale processo di produzione del plusvalore e così “… Si consolida l’idea che rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per se stesso”  ma in realtà: “Quale che sia il numero delle transazioni successive, il capitale del debito pubblico rimane capitale puramente fittizio, ed il giorno in cui questi titoli di credito diventassero invendibili svanirebbe anche l’apparenza di questo capitale[8]. Ciò vale anche, sebbene con significative differenze, per i titoli azionari perché anche essi sono titoli rappresentativi di un capitale già speso o che sta per essere speso. “Anche in quei casi –scrive ancora Marx- in cui l’obbligazione - il titolo di credito- non rappresenta, come si verifica per il debito pubblico, un capitale puramente illusorio, il valore-capitale di questo titolo è puramente illusorio… Le azioni delle società ferroviarie, minerarie, e di navigazione ecc. rappresentano capitale effettivo, precisamente il capitale investito e operante in queste imprese, oppure la somma monetaria che è stata anticipata dagli azionisti al fine di essere spesa come capitale in queste imprese…. Ma questo capitale non ha una duplice esistenza, una volta di valore-capitale effettivamente investito o da investire in queste imprese. Esso esiste unicamente sotto questa ultima forma e l’azione non è altro che un titolo di proprietà pro rata, sul plusvalore che verrà realizzato da questo capitale.  A può vendere questo titolo a B e B cederlo a C. Queste transazioni non mutano per nulla la sostanza della cosa. A oppure B ha in tal caso convertito il suo titolo in capitale, ma C ha convertito il suo capitale in un semplice titolo di proprietà sul plusvalore che ci si attende dal capitale azionario[9].

In apparenza sembra che il capitale si sia triplicato, ma in realtà il capitale è sempre lo stesso, quello iniziale  già speso e quel che appare come un’accumulazione di capitale reale ex nihilo è in realtà accumulazione di titoli giuridici che danno diritto a un reddito futuro.

Ora proprio perché il valore di questi titoli non è calcolato sulla base di un reddito reale, ma di un reddito futuro, nella sua determinazione vi è sempre implicita una certa alea e quindi anche una componente speculativa, al ribasso nei periodi sfavorevoli e al rialzo in quelli favorevoli. Così, per esempio, basterà, per quel che riguarda i titoli del debito pubblico e più in generale  i titoli obbligazionari, che si determini sul mercato monetario una qualche difficoltà che spinge al rialzo i tassi di interesse, perché essi subiscano una svalutazione. Altresì per le azioni, nel caso che, per una qualsiasi ragione anche di natura extraeconomica, mutino le aspettative sulla futura realizzazione di plusvalore che quei titoli rappresentano. Trattandosi quindi  di oscillazioni di valore, conclude anche Marx: “indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano…la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento… In quanto la loro svalorizzazione  non esprimeva un effettivo arresto della produzione e del traffico delle ferrovie e sui canali, né l’interruzione di imprese in corso, o lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risultava impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone[10].

Ma ciò valeva nel diciannovesimo secolo e per buona parte del ventesimo quando cioè la produzione di capitale fittizio era fortemente limitata nel tempo e nello spazio.

I limiti della trasformazione del capitale fittizio in capitale reale

Ieri

Abbiamo visto che in quanto rappresentativi del diritto a un reddito futuro, i titoli rappresentativi di capitale fittizio danno luogo a un proprio mercato e sono trasformabili in ogni momento in denaro ovvero -per usare un’espressione comune- in bigliettoni e per rimanere ai nostri giorni: in dollari, oppure in euro, in yen ecc. che a loro volta possono essere trasformati sia in capitale- merce sia in capitale produttivo di plusvalore. E’ possibile, cioè, mediante la semplice metamorfosi di una forma di capitale monetario in un’altra, rendere attuale una produzione di valore che in realtà non ha avuto ancora luogo. La divaricazione temporale che intercorre fra i due momenti può esser colmata in due soli modi: o sostituendo l’anticipazione con una posticipazione equivalente di valore o attualizzando una produzione passata accumulata sotto forma di moneta merce. Nelle fasi di espansione del ciclo di accumulazione del capitale e nell’ambito di un sistema monetario in cui la circolazione del capitale monetario è regolamentata e/o limitata nei confini nazionali e in cui le transazioni internazionali vengono regolate mediante una moneta-merce (in genere l’oro o l’argento) ciò avviene quotidianamente.

Quando il ciclo della riproduzione reale del capitale, che si svolge su base allargata,  è in espansione, infatti, a ogni ciclo produttivo si rende disponibile una quantità di merci accresciuta per cui le eventuali discrasie fra anticipazioni e posticipazioni risultano facilmente compensabili e comunque circoscrivibili nell’ambito dei mercati finanziari. Inoltre, poiché la regolamentazione del processo di produzione di capitale fittizio da parte delle banche e delle diverse istituzioni a ciò preposte impone l’obbligo di costituire riserve di vario tipo, essa risulta fortemente limitata per cui, anche nei periodi di difficoltà dei mercati  monetari, le brusche oscillazioni al rialzo e al ribasso tendono a compensarsi fra loro senza interferire con il processo di accumulazione del capitale reale. In un sistema siffatto anche la compensazione mediante l’importazione di merci dall’estero incontra limiti ben definiti. In un sistema di pagamenti internazionali basato su una moneta merce, infatti, le importazioni non possono superare, salvo aperture di credito da parte dei paesi esportatori, le riserve di moneta merce che il paese considerato ha accumulato e che in ultima istanza altro non rappresentano che una passata produzione di valore trasferita nel presente mediante la sua trasformazione nella moneta merce in uso nel sistema dei pagamenti internazionali, in genere l’oro e/o l’argento.

In un sistema in cui la produzione di capitale monetario in tutte le sue forme è regolamentata e i pagamenti internazionali sono regolati con moneta merce, dunque, la produzione di capitale fittizio risulta a sua volta fortemente limitata per cui le crisi che  gli eccessi speculativi possono generare sono destinate a essere riassorbite con la svalutazione del capitale fittizio prodotto in eccesso nell’ambito dello stesso mercato monetario.

Ma oggi non è più così e il confine fra il processo di accumulazione del capitale reale e quello fittizio si è molto assottigliato fino a formare una miscela ad alto potenziale esplosivo.

Oggi

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale ed esattamente dal luglio 1944, sono intervenuti nei sistemi dei pagamenti internazionali e di conseguenza anche nei sistemi monetari interni, alcuni mutamenti che, nel corso del tempo, hanno modificato radicalmente le relazioni macroeconomiche che intercorrono fra la produzione di capitale fittizio e il processo di accumulazione del capitale reale.

Come è noto, in quei giorni, a Bretton Wood, una piccola cittadina degli Usa, si riunirono i delegati dei paesi  vincitori della seconda guerra mondiale e facenti parte del cosiddetto blocco Occidentale. All’ordine del giorno di quell’incontro, vi era la ricostruzione del sistema monetario internazionale, fino ad allora basato sull’oro e perciò denominato goldstandard, che già nella crisi del 1929 aveva manifestato non poche falle e non ritenuto dagli Usa più corrispondente ai loro interessi.

Si diede così vita a un sistema monetario internazionale, denominato dollar exchange standard, incentrato sulla carta-moneta anziché su una moneta-merce la cui emissione era comunque garantita dalla convertibilità del dollaro con l’oro e dall’obbligo per la Federal Reserve di accumulare riserve auree in ragione di un rapporto di cambio, variabile nell’ambito di una fascia di oscillazioni prestabilita, di 35 dollari per oncia. Per queste sue caratteristiche il sistema fu spacciato come una semplice variante più flessibile del vecchio goldstandard sicuramente imperfetto ma molto più sicuro. Infatti, benché gli accordi mirassero a impedirlo, ponendo al centro del sistema della carta-moneta il dollaro al posto di una moneta-merce, di fatto si gettarono le premesse perché potesse aver luogo una produzione di credito e di capitale fittizio su scala internazionale controllata esclusivamente dalla banca centrale del paese che a quella produzione poteva dar vita, cioè gli Usa.[11]

Per circa venticinque anni – scrivono Paolo G. Conti ed E. Fazi nel loro ultimo libro dal titolo Euroil- finche gli States mantennero il loro ruolo di leadership indiscussa, il dollar exachange standard funzionò egregiamente. L’economia e il commercio internazionale attraversarono una lunga fase di crescita.  E quasi tutti i paesi –soprattutto quelli usciti con l’economia devastata dalla guerra - come la Germania. L’Italia e il Giappone- beneficiarono della stabilità del sistema”[12]

Ma, a seguito dell’esplodere della crisi del saggio medio del profitto industriale, che colpì, partendo dagli Usa, tutta l’economia mondiale e che rimane tuttora irrisolta, la convertibilità del dollaro in oro risultò insostenibile perché gli Usa in realtà, pur continuando a stampare dollari a dismisura, avevano smesso da tempo di accumulare  le riserve auree nella quantità prescritta dagli accordi di Bretton Woods e così, nell’estate del 1971, denunciarono quegli accordi e dichiararono l’inconvertibilità del dollaro imponendo così di fatto un sistema di pagamenti internazionali incentrato  sulla produzione di capitale fittizio. Cosa rappresentavano, infatti, quei dollari emessi senza copertura se non un debito degli Usa con il resto del mondo sotto forma camuffata? La conseguenza più immediata e pesante della denuncia degli accordi di Bretton Woods, che in realtà era l’equivalente del rifiuto da parte degli Usa di onorare il loro debito, fu una feroce svalutazione del dollaro e l’esplodere  di un violento processo inflazionistico attraverso il quale essi riuscirono a scaricare  i costi della crisi sul resto del mondo. Da un punto di vista più generale, la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro costituì di fatto per gli Usa una nuova  Bretton Woods nel senso che, così facendo, sancirono la nascita di un sistema di pagamenti internazionali, totalmente basato sull’emissione di un biglietto inconvertibile e di fatto,a circolazione forzosa su scala internazionale, basato sulla produzione di capitale fittizio. Nonostante la dichiarazione di inconvertibilità, infatti, il dollaro rimase il mezzo di pagamento internazionale per eccellenza sia sul mercato delle materie prime e del petrolio in particolare sia come moneta di riserva delle diverse banche centrali. In conseguenza di ciò si è prodotta una situazione semplicemente inimmaginabile ai tempi di Marx: a  determinare le variazioni di valore del capitale monetario circolante espresso in determinata moneta, in questo caso il dollaro,  non erano più le variazioni di valore del capitale reale dello nazione emittente quella moneta, nella fattispecie la reale capacità di produrre ricchezza da parte degli Usa, ma quelle dei prezzi di una merce o più merci prodotte all’estero quali il petrolio e quasi tutte le materie prime di importanza strategica. “ …Il meccanismo funziona così: una nazione, poniamo il Giappone, ha bisogno di  petrolio e lo compra dall’OPEC. Per farlo, deve acquistare dollari dagli Stati Uniti, cui dà in cambio dei beni. Delle automobili Toyota, per esempio. Gli americani emettono i biglietti verdi e li vendono al Giappone, ottenendo in cambio le macchine. L’Opec invece riceve  quei dollari come pagamento per il petrolio, diventando così petrodollari: un termine che viene usato per identificare le transazioni in valuta americana frutto della vendita di petrolio nel mondo. E si tratta di una enorme quantità di denaro: secondo uno studio realizzato dalla banca Unicredit, nel 2006 l’export di petrolio ha superato gli 840 miliardi di dollari. Una parte di questi dollari viene investita nelle economie degli stessi produttori di petrolio…Ma un’altra parte, la più rilevante,investita all’estero. E trattandosi di dollari, la cosa più naturale è scegliere gi States  come destinazione di tali investimenti. Questa per gli Usa rappresenta la quadratura del cerchio. I petrodollari vengono investiti in beni immobili, azioni, buoni del tesoro, fondi obbligazionari, aumentando a dismisura il debito degli Stati Uniti: in perenne crescita, esso sfiora ormai quota tremila miliardi di dollari, una cifra che equivale al 27 per cento circa dell’intero Prodotto interno lordo americano e che è superiore alla somma dei debiti di tutto il resto del mondo.”[13]

Il trionfo del wildcat banking o del virtuale sul reale

E non è finita qui. Poiché una gran parte di questi dollari è continuata a ritornare negli Usa per essere reinvestita in buoni del tesoro, obbligazioni,  azioni ecc., cioè in titoli rappresentativi di capitale fittizio, con la famosa deregulation, che ha liberalizzato la  produzione del capitale monetario, sono spuntati come funghi nuovi titoli, i cosiddetti derivati finanziari prodotti non già a partire, come succedeva in passato, da un debito pubblico o privato o dalla costituzione di una nuova società per azioni, come per i buoni del tesoro, le obbligazioni e le azioni, ma a partire dalle obbligazioni e dalle azioni stesse o addirittura anche solo dalle semplici aspettative di variazioni dei loro prezzi, dei tassi di interesse e/o di quelli di alcune merci, soprattutto del petrolio. E’ nata cioè una gamma infinita di titoli  rappresentativi  di capitale fittizio, che in quanto comunque trasformabili in denaro, è stato  possibile dare in cambio, non solo della Toyota del nostro esempio, ma di una quantità enorme di merci prodotte all’estero. In tal modo è stato infranto il limite, in passato invalicabile, che aveva impedito che il valore delle importazioni superasse, se non di poco e per poco tempo, il valore delle riserve in moneta–merce del paese importatore. E non solo. Una volta che la produzione di capitale fittizio a partire da altro capitale fittizio è stata completamente deregolamenta e liberalizzata questo, giusto la legge di Gresham secondo la quale la moneta cattiva caccia la buona, ha rapidamente sostituito anche nella circolazione interna il classico biglietto verde.

Così, per molti aspetti, si è tornati a quel periodo, che va dagli anni trenta del 19° secolo fino al 1863, quando fu adottato il National Banking Act, in cui dominava il cosiddetto wildcat banking, un sistema in cui le banche venivano fondate con il solo scopo di emettere biglietti senza alcun valore esattamente come i COD dei nostri giorni o le obbligazioni della Cirio, della Parmalat e della Enron.

Per avere un’idea della dimensione gigantesca del fenomeno basti pensare che dal 1959 al 2003 la produzione di denaro virtuale, che inzialmente cresceva nella stessa misura con cui cresceva la quantità di dollari emessi in ragione dell’effettivo valore delle merci prodotte e scambiate, è poi progressivamente cresciuta in un rapporto di uno a dieci[14]. E dal 2003, la Federal Reserve ha smesso, almeno ufficialmente, di calcolarla sostenendo che uno degli indici utilizzati “non sembrava apportare più informazioni utili sull’attività economica…Conseguentemente il Consiglio[della F. Reserve – ndr] ha giudicato che i costi legati alla raccolta dei dati superassero i benefici”[15]

Con la possibilità di pagare le importazioni con semplici pezzi di carta denominati in dollari o con una carta di credito rilasciata sulla base di un mutuo che, come abbiamo visto con i mutui immobiliari, poteva pagarsi da sé, la sproporzione fra esportazioni e importazioni degli Usa è cresciuta nel corso degli ultimi tre decenni in termini esponenziali e il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ”Nel 2006 ha raggiunto la quota esatta di 862 miliardi di dollari, che è quasi dieci volte il passivo della Spagna, il secondo paese nella classifica del deficit della bilancia dei pagamenti.”[16] Ma forse può rendere l’idea della dimensione del fenomeno ciò che scriveva F. Rampini su La Repubblica del 15 agosto scorso: “Quando una giornalista americana ha tentato di vivere per un anno senza made in China, si è accorta che è impossibile senza regredire all’esistenza arcaica di Robinson Crusoe”.

L’idea che rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per se stesso”  ha assunto così una sua fisicità, una sua concretezza tale per cui  quella che resta pur sempre una semplice astrazione di valore è penetrata nelle vene del sistema fino a ad assumere il comando di tutto il processo di accumulazione capitalistico su scala mondiale e la compenetrazione fra le due sfere, quella dell’astrazione e quella del reale, ha permeato talmente di sé l’intero sistema che è divenuto pressocchè impossibile l’individuazione del confine che le delimita.

In realtà, queste astrazioni di valore non potrebbero sopravvivere oltre lo spazio di un mattino se non ci fosse dietro la più grande armata mai comparsa sulla faccia della terra pronta a correre in suo soccorso ogni qual volta l’inganno rischia di essere svelato.

Dunque, se si vuole comprendere l’effettiva portata della crisi dei subprime e delle sue possibili conseguenze è giocoforza collocarla  all’interno del più ampio processo di accumulazione capitalistica su scala mondiale e relazionarla con le mutate forme del moderno dominio imperialistico.

Quando un paese dotato di un esercito potente e grandi riserve di oro cominciava

-ha dichiarato in un discorso tenuto di fronte al Congresso il 15 febbraio 2006 il senatore repubblicano Ron Paul- a dedicarsi alla costruzione di imperi di facili fortune con cui alimentare il proprio benessere domestico, esso segnava inevitabilmente l’inizio del proprio declino […] Oggi i principi sono gli stessi. Sono i processi a essere diversi. L’oro non è più la valuta corrente del “regno”. Al suo posto c’è la carta. Oggi la regola è << Colui che stampa la moneta detta le leggi>>, almeno per il momento. Benché non si usi più l’oro, il meccanismo è lo stesso: indurre ed obbligare paesi stranieri, mediante la propria superiorità militare e il controllo sulla stampa di moneta, a produrre e quindi a finanziare il proprio paese”.[17]

Ora, poiché la crisi dei subprime è scaturita dal fatto che a traballare è proprio questo controllo della stampa è evidente che non si tratta del semplice scoppio di una bolla di sapone ma che è entrato in crisi  l’intero meccanismo di comando di tutto il processo di accumulazione capitalistica su scala mondiale. Per questa ragione l’idea che tutto possa aggiustarsi con la semplice immissione di altro capitale fittizio nelle vene del sistema appare illusoria almeno quanto quella che “rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per se stesso”.

In realtà, quella che si profila è una crisi dalle dimensioni davvero planetarie al cui confronto anche quella del 1929 potrebbe alla fine apparire come un semplice colpo di tosse.

Giorgio Paolucci

Dicembre 2007




[1] Per un ulteriore approfondimento  degli aspetti tecnici dei muti subprime vedi Gli articoli La crisi dei subprime fa tremare l’economia mondiale e Gli effetti della finanza speculativa apparsi, il primo su BC n. 9/2007, il secondo anche nel volume La crisi del capitalismo, il crollo di Wall Street Ed. Ist. O. Damen - 2009

[2] Dati tratti da: Anatomia di una crisi – E. Della Porta – il Manifesto del 16/11/2007

[3] K. Marx – Il Capitale – Libro terzo – Cap. 29° - pag. 642 – Ed. Einaudi

[4] ib.

[5] ib.

[6] ib. Pag. 642-643

[7] ib.

[8] ib.

[9] Ib. pag. 646

[10] ib. pag. 647-648

[11] Per ulteriori approfondimenti sull’argomento vedi  su questo stesso l’articolo Il dominio della finanza.

[12] Paolo G. Conti e Elido Fazi – Euroil-  Fazi editore – pag. 35

[13] op. cit. Pag. 63-64

[14] op. cit. pag. 58

[15] ib.

[16] op.cit pag. 60

[17] op.cit. pag. 41