La crisi del debito sovrano è solo la punta dell’iceberg della crisi più generale del capitalismo

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Creato: 08 Settembre 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2775

Da Washington a Berlino, da Parigi a Roma si varano manovre  tutte in linea con gli interessi del grande capitale finanziario e delle grandi imprese monopolistiche. Aggravano la crisi e fanno crescere il debito. Ma non è follia…


“Un miracolo”, così il presidente della repubblica Napolitano ha commentato l’approvazione da parte del parlamento italiano della seconda manovra economica che avrebbe dovuto condurre al pareggio il bilancio pubblico entro il 2014. Un miracolo perché, pur non condividendone l’impostazione, le forze politiche di opposizione ne avevano consentito, per senso di responsabilità, l’approvazione in tempi rapidi.

Ma la speculazione, i famigerati mercati ovvero le agenzie di rating, le assicurazioni, i grandi fondi e le maggiori banche d’investimento non l’hanno ritenuta sufficiente e hanno continuato a scommettere sul default dell’Italia vendendo a tutto spiano i titoli del suo debito pubblico.

La Deutsche Bank, per esempio, se ne è disfatta vendendone in un solo giorno per circa 8 miliardi di euro, quasi fossero cambiali emesse da uno dei tanti furfantelli che vivono di bancarotte fraudolente.

Come per Grecia, Irlanda e Portogallo la speculazione si è acquietata soltanto quando è stato costituito l’European Financial Stability Facility (Efsf),[1] così per l’Italia la pressione speculativa è scemata soltanto quando la Bce ha deciso di acquistare sul mercato secondario titoli del debito italiano in discreta quantità. Lo ha fatto, ma, come per gli altri paesi sotto attacco, ha imposto al governo italiano un supplemento alla manovra di rientro del deficit appena varata  affinché il pareggio di bilancio fosse raggiunto nel 2013 anziché nel 2014; il governo vi ha subito atteso annunciando tagli alla spesa e l’introduzione di nuove imposte, da qui al 2014, per complessivi 55 miliardi di euro.

Ma benché nel frattempo il Congresso Usa avesse autorizzato l’innalzamento del limite di spesa del governo di altri 2500 miliardi di dollari oltre il tetto di 14.290 miliardi fissato dalla precedente legge di bilancio e manovre dello stesso tenore di quella italiana fossero state varate un po’ in tutta Europa, la crisi, che fino a quel momento sembrava circoscritta ai confini italiani e ai cosiddetti Pigs ( Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), ha invece travolto, quale un fiume in piena, ogni argine facendo crollare le quotazioni di tutti i titoli obbligazionari e azionari, pubblici e privati di tutti i comparti, compreso quello industriale, dei listini delle più importanti borse del mondo.

Si è avuta così la conferma che la crisi del debito sovrano era solo la punta dell’iceberg di un qualcosa di molto più profondo e devastante. Che questa crisi avesse altre origini lo dimostrava anche  il fatto che negli ultimi anni il debito pubblico non era cresciuto per colpa della spesa sociale, ma per i finanziamenti concessi al sistema bancario al fine di evitarne il fallimento e quindi che non vi era soluzione di continuità fra questa crisi e quella dei subprime del 2008.

Alle banche miliardi a go- go

Secondo il rapporto dell'audizione della Federal Reserve da parte dal Government Accountability Office (Gao) degli Stati uniti, reso noto lo scorso luglio, “ …La Federal Reserve Bank ha dato in segreto, tra dicembre 2007 e giugno 2010, a banche e imprese americane e non, prestiti per circa 16 mila miliardi di dollari senza interesse e a condizioni di rimborso del tutto fluide. Argomento: per «salvarle»… La lista degli istituti beneficiari figura a pagina 131 del rapporto. Eccone i principali: Citigroup (Usa): 2.500 miliardi di dollari (una volta e un quarto la ricchezza prodotta in un anno dall'Italia e quasi sei volte quella del Belgio), Morgan Stanley (Usa): 2.040 miliardi di dollari, Merrill Lynch (Usa): 1.949 miliardi di dollari, Bank of America (Usa): 1.344 miliardi di dollari, Barclays Plc (Regno unito): 868 miliardi di dollari, Bear Sterns(Usa): 853 miliardi di dollari, Goldman Sachs(Usa) : 814 miliardi di dollari, Royal Bank of Scotland (Uk): 541 miliardi di dollari, JP Morgan Chase(Usa): 391 miliardi di dollari, Deutsche Bank (D): 354 miliardi di dollari,UBS (Svi) 287 miliardi di dollari, Credit Suisse (Svi): 262 miliardi di dollari, Lehman Brothers(Usa): 183 miliardi di dollari, Bank of Scotland (Uk): 181 miliardi di dollari, Bnp Paribas (F): 175 miliardi di dollari. E tanti altri”[2].
En passant, è interessante notare che fra i maggiori beneficiari figurano alcuni Istituti di credito che hanno partecipazioni azionarie in quelle stesse agenzie di rating sempre in prima fila a suggerire ai governi manovre tutte lacrime e sangue.

Salvare le banche per salvare l’economia

Nelle aspettative, una così massiccia immissione di liquidità oltre ad evitare il fallimento delle banche avrebbe dovuto stimolare la ripresa della cosiddetta economica reale. La conseguente crescita del pil e del reddito nazionale avrebbero dovuto poi riportare, nel breve–medio periodo, il rapporto deficit pubblico/reddito nazionale in equilibrio così da non compromettere la sostenibilità del debito pubblico. Insomma: salvare le banche per salvare e rilanciare l’economia questo era il senso di quella politica monetaria.

Ma, a ulteriore riprova che le cause ultime della crisi non risiedono nella sfera finanziaria, le cose sono andate in modo completamente diverso. Le banche, infatti, hanno impiegato Il mare di denaro pubblico ricevuto a titolo pressoché gratuito  solo in minima parte nel finanziamento delle attività più propriamente produttive. La gran parte, invece, l’hanno  impiegata nell’acquisto o dei buoni del tesoro che gli Stati andavano emettendo per reperire i capitali necessari per salvarle.

Un investimento molto redditizio dato che i tassi di emissione dei titoli del debito pubblico erano di gran lunga maggiori di quelli che gravavano sui finanziamenti pubblici da esse ricevuti.  Sicuramente più redditizio di qualunque investimento a sostegno del sistema delle imprese industriali soprattutto piccole e medie.

In sintesi,  tutta l’operazione si è risolta in una sorta di partita di giro mediante la quale il debito privato ormai inesigibile accumulato dal sistema bancario, è stato trasformato in debito pubblico con lauti guadagni per le grandi banche internazionali.

Poiché Il successo della manovra dipendeva dalla intensità della spinta che essa avrebbe dato al rilancio dell’economia reale, venendo meno questa, essa non poteva non fallire. Non poteva essere diversamente perché la crisi dei subprime, come tutte le crisi finanziarie esplose in questi ultimi decenni, non sono il frutto della irresponsabilità dei banchieri, ma affondava le sue radici nelle contraddizioni proprie del processo di accumulazione del capitale che, inducendo una crescita del capitale costante a un tasso maggiore di quella del capitale variabile, determinano, una volta raggiunta una determinata composizione organica del capitale, la caduta del saggio medio del profitto.[3]

La delocalizzazione

Ed è stato proprio per far fronte alla crisi dei profitti esplosa nei primi anni ’70 del secolo scorso che, a cominciare dai primi anni ’80, la gran parte della produzione di merci ad alto contenuto di capitale variabile ( forza-lavoro) è stata trasferita in aree dove i salari reali erano, e sono tuttora, decine di volte inferiori a quelli delle metropoli capitalistiche. Per rendersi conto di quanto grande fosse il divario salariale fra questi due mondi basta pensare che ancora lo scorso mese di giugno i lavoratori cinesi del Guandong- il cosiddetto motore del sud, dove anche la Honda ha delocalizzato buona parte delle sue catene di montaggio- i lavoratori, privi peraltro di qualunque forma di assistenza sanitaria e previdenziale, hanno scioperato “contro turni di 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile” [4].

La stessa deregulation dei mercati finanziari, che gli economisti neokeynesiani e  neoriformisti considerano figlia della scelleratezza dal pensiero economico neoliberista e madre di tutte le crisi, in realtà è stata dettata  dalla necessità di orientare, senza particolari vincoli, i flussi del capitale finanziario in entrata e in uscita da e per queste aree. [5]

E’ quindi del tutto fuorviante la rappresentazione di coloro che descrivono un’economia reale sana ma vittima delle attività parassitarie della sfera finanziaria. Se così fosse, basterebbe ripristinare la precedente legislazione bancaria e reintrodurre i limiti che essa imponeva alla produzione di capitale fittizio perché il sole torni a splendere nel cielo del capitalismo.

In realtà le due sfere, produzione e finanza, non sono mai state interconnesse come ora tanto che l’intreccio fra di esse non alimenta soli i profitti dei grandi gruppi transnazionali ma anche quelli delle piccole e medie imprese (Pmi).

Dall’ultimo rapporto di Mediobanca sulle Pmi italiane, pubblicato lo scorso mese di giugno, risulta che nel 2010 oltre il 50% dei loro profitti  proveniva dalle attività produttive delocalizzate e ben il 26% dalle attività finanziare correlate.

Il nuovo Eldorado…

Tuttavia, il successo ottenuto dalla nuova organizzazione e divisione internazionale del lavoro nonché dalla globalizzazione dei mercati finanziari è stato tale che, anche negli ambienti che si richiamano alla critica marxista dell’economia politica, si è a lungo ritenuto che il capitalismo avesse definitivamente sconfitto le sue stesse contraddizioni e che si fosse dischiusa un’epoca in cui ricchezza e benessere avrebbero ben presto baciato anche le lande più sperdute del pianeta, immaginando come possibile, anche in questi paesi, il medesimo modello di sviluppo che, dopo la seconda guerra mondiale, aveva consentito ai paesi europei usciti distrutti dalla guerra, di ricostruire la loro economia facendo leva sui bassi salari e sulle esportazioni per poi registrare un’espansione anche della domanda e dei consumi interni.

Non si teneva in alcun conto che allora si era all’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione (il secondo) del capitale con un mondo intero da ricostruire. Quando invece iniziano i processi di delocalizzazione industriale si è di fronte  all’erompere della sua crisi.

E così a fronte dello spostamento della produzione industriale nei paesi cosiddetti emergenti, nella metropoli capitalistica non ha fatto riscontro lo sviluppo di nuovi settori produttivi capaci di compensare la distruzione dei posti di lavoro causata dalle delocalizzazioni, ma una costante crescita della disoccupazione e una drastica svalutazione del valore della forza-lavoro fino al punto che oggi anche i salari dei lavoratori delle aree avanzate non sono sufficienti ad assicurare neppure i costi di mantenimento e riproduzione della forza-lavoro e tanto meno per assorbire le merci, seppure poco costose, provenienti dai paesi emergenti.

…Il suo declino

E nei paesi emergenti, non appena i salari, a seguito di scioperi e proteste, hanno accennato a crescere  le fabbriche hanno cominciato a chiudere o a spostarsi in aree con salari ancora più bassi. Nella zona di Zengcheng, in Cina “ Nell’ultimo anno- ci informa ancora F. Rampini nell’articolo già citato- dopo gli aumenti degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818 mila residenti gli immigrati ( verso altre aree del paese ndr) hanno sfondato la soglia dei 502 mila”.

A conferma che in questa fase economica il passaggio da un modello fondato sull’export a uno basato sul consumo interno è cosa tutt’altro che scontata. Insomma, chi ancora vagheggia un’economia mondiale trainata dalla domanda dei paesi che costituiscono il Bric ( Brasile, Russia, Cina e India) o non ha alcuna contezza della realtà o mente.

Dunque, crisi del debito pubblico non per eccesso della spesa sociale ma come conseguenza della crisi dei meccanismi del processo di accumulazione del capitale.

Sottolineiamo questo aspetto perché soltanto ristabilendo l’esatto ordine cause/effetti si comprende a cosa puntano realmente queste manovre lacrime e sangue e soprattutto che tipo di futuro il sistema capitalistico riserva ai lavoratori e alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

Peraltro già la realtà si è incaricata di smentire il mantra, ribadito quotidianamente a ritmi martellanti dalle agenzie di rating, dalla Bce, dalla Federal Reserve e dai governi di mezzo mondo, che  tagliando la spesa sociale si creano le condizioni per una nuova crescita e nuova occupazione.

Il caso greco

“Per tutto il 2010- osserva l’economista J. Halevi- Grecia e Irlanda hanno effettuato tagli mostruosi al bilancio pubblico ritrovandosi con un debito accresciuto. I tagli alla spesa, alle pensioni e i licenziamenti nel pubblico impiego hanno fatto crollare il reddito nazionale. La caduta del pil ha pertanto impedito di ottener un aumento delle entrate fiscali compatibile con la manovra di rientro del debito. Man mano che l’operazione falliva aumentava il saggio di interesse di rischio sui buoni pubblici greci aggravando sia il debito che il bilancio corrente. Ne consegue una verità lapalissiana: ridurre il numeratore (del rapporto debito/reddito nazionale – n.d.r.), il debito, riduce anche e maggiormente il reddito nazionale, cioè il denominatore.”  E, infatti, in Grecia, dopo le numerose e pesanti manovre varate per contenere il deficit, il Pil è letteralmente crollato facendo registrare nel secondo trimestre del 2011 un calo, su base annua, del 6,9 per cento. Pertanto, pur dando per scontata la sottoscrizione da parte dell’Efs delle nuove emissioni a un tasso del 3,5 per cento, Il rientro dal deficit è matematicamente impossibile.

In Italia, secondo le ultime stime della Banca d’Italia, dell’Istat e del Fmi fatte tenuto conto dei recenti tagli al bilancio pubblico, nel 2010 il pil crescerà al massimo di uno 0,8% . Tenuto conto che il tasso d’interesse nell’ultima emissione di titoli del tesoro ha raggiunto mediamente il 6%, non solo la riduzione del deficit è impossibile ma è pressoché inevitabile un’ulteriore contrazione del Pil e un’ulteriore crescita del debito.

Un sistema degno solo di perire

Per questa ragione molti osservatori, analizzando da un punto di vista puramente tecnico queste manovre, sono giunti alla conclusione che a ispirarle è la follia o il cieco egoismo di una classe politica corrotta e incapace. Ma da un punto di vista squisitamente di classe e tenendo in debito conto che la crisi è strutturale e che l’Eldorado promesso dal processo di delocalizzazione industriale è rimasto in dei mente, queste politiche appaiono tutt’altro che folli. Intanto non può sfuggire che da Washington a Berlino, da Parigi a Roma sono sempre tutte in linea con gli interessi del grande capitale finanziario e delle grandi imprese multinazionali nonché che hanno tutte gli stessi obbiettivi:

- cancellazione della contrattazione collettiva a favore di quella aziendale e individuale per  completare il processo di precarizzazione del lavoro e favorire l’ulteriore riduzione dei salari. Come ha osservato il sociologo L. Gallino, l’articolo 8 inserito a bella posta dal governo italiano nella manovra in corso di approvazione da parte del parlamento, avrebbe potuto essere condensato in un solo rigo: “ i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro[6];

- eliminazione di ogni forma di salario indiretto smantellando quel che resta del Welfare e del sistema pensionistico;

- privatizzazione a prezzi stracciati di tutti i servizi pubblici per poter aumentare le tariffe e licenziare in massa i dipendenti;

- aumentare le imposte indirette perché più facilmente traslabili su salari, stipendi pensioni e ridurre quelle dirette a carico dei più ricchi.

Altro che crescita e nuovo sviluppo. E’ un attacco in piena regola alle condizioni di vita di chi vive di lavoro che ormai non risparmia neppure una buona parte del ceto medio impiegatizio. Ma  che, proprio  per l’aver  come unico scopo la conservazione dello status quo, svela che  l’economia mondiale è in un vicolo cieco da cui neppure mille di queste manovre  potranno tirarla fuori.

In passato, in circostanze simili, l’unico rimedio efficace è stata la guerra imperialista ovvero la barbarie. Povertà generalizzata  e barbarie, questo ci riserva uno schifosissimo sistema ormai degno solo di perire.

Giorgio Paolucci



[1]L’European Finacial Stability Facility è una società con sede in Lussemburgo con una dotazione, al momento solo potenziale, di 440 miliardi di euro garantiti dagli Stati membri in ragione direttamente proporzionale al loro pil. L’Efsf può emettere obbligazioni e altri titoli di debito per finanziare gli stati membri ( Per ora solo Grecia, Irlanda e Portogallo) che non riescono a collocare i loro titoli sui mercati e rischiano il default per mancanza di liquidità. Il fondo può, previa autorizzazione della Bce, acquistare titoli del debito pubblico solo sul mercato secondario ma non può sottoscriverli quando vengono emessi. In altre parole, la sua è una funzione esclusivamente calmieratrice dei mercati finanziari, ma non intacca minimamente il meccanismo di autoalimitazione del debito e il potere delle grandi banche d’affari e delle connesse società finanziarie.

[2] La grande abbuffata di dollari della Fed- Università del bene comunewww.megachip.info

[3] Per ulteriori approfondimenti su questa questione vedi, su questo stesso sito, La legge della caduta tendenziale del smp tratto dal volume La crisi del capitalismo. Il crollo di wall Street -

[4] F. Rampini – Tra gli schiavi del Guandon, rivolta nella fabbrica del mondo – La repubblica del 24 giugno 2011

[5] A tale proposito vedi su questo stesso sito anche “ La crisi dei subprime rileggendo Marx”.

[6] L. Gallino – Così si abolisce il diritto del lavoro – La Repubblica del 5 settembre 2011