Il disfattimo rivoluzionario nel XXI secolo

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Creato: 03 Febbraio 2017 Ultima modifica: 03 Febbraio 2017
Scritto da Carmelo GERMANA' Visite: 2300

disftattism

Dalla  rivista  D-M-D' n °10

Malgrado la crisi capitalistica sia devastante quanto le crisi economiche che in passato hanno condotto ai precedenti macelli mondiali, ad oggi, la risposta del proletariato internazionale sul piano teorico-organizzativo ristagna e non esprime una adeguata opposizione di classe alla gravità della situazione. A questo hanno concorso molteplici motivi, tra cui: le ristrutturazioni dell'apparato produttivo, la frammentazione dei lavoratori, il crollo del falso socialismo reale e, non per ultimo, il ruolo reazionario del riformismo a sostegno del capitale, sempre presente e attivo nelle sue continue metamorfosi.

Parlare di disfattismo rivoluzionario in questa epoca potrebbe sembrare riesumare idee obsolete appartenenti all'archeologia politica. La propaganda borghese ci dice che il mondo in cui viviamo viaggia alla velocità della luce: la globalizzazione, Internet, la tecnologia, i mille congegni elettronici che “allietano” la nostra vita e quant'altro, tutto ciò parrebbe averci trasportato in una dimensione senza tempo, nell'inarrestabile e infinito progresso. Questa concezione è funzionale al potere: è cosa immensamente conveniente inculcare nella testa delle persone l'idea che questo sia l'unico mondo possibile e creare una barriera ideologica e psicologica invalicabile, dove la realtà presente appaia un dato di fatto imperituro, magari perfezionabile nel corso del tempo, ma impossibile da trasformare radicalmente.

Eppure ci risiamo, i fatti hanno la testa dura, il capitalismo si trasforma ma allo stesso tempo resta sempre uguale a se stesso. Attraverso l'enorme produzione di ogni genere di merci esso genera l'illusione di poter risolvere i problemi dell'umanità, mentre, al contrario, finisce con il moltiplicare povertà e miseria. La crisi che puntualmente arriva, carica di pesantissime conseguenze sulla società, è la testimonianza della caducità e storicità del capitalismo, il quale, come tutte le cose, di eterno non ha proprio niente. Le contraddizioni ineliminabili dei suoi meccanismi economici e sociali sono sempre lì presenti, antichi, e non esiste nessun trucco che possa mascherare la senilità di questo barbaro sistema di sfruttamento.

Nelle circostanze storiche attuali riemergono i limiti del capitalismo e la necessità del suo superamento. Da una parte osserviamo un sistema in dissesto fonte del degrado crescente della condizione umana, senza considerare le tematiche riguardanti il progressivo deterioramento dell'ambiente che aprirebbero un capitolo a parte di gigantesca rilevanza; dall'altra si ripropone la questione del disfattismo rivoluzionario, cioè il voltare pagina urgentemente affinché l'umanità si sbarazzi al più presto di un sistema basato sul profitto, dove l'individuo non conta niente e il denaro è tutto. Naturalmente siamo consapevoli della spaventosa arretratezza in cui ci troviamo come classe, visto che a porre il problema dell'indispensabilità del superamento del modo di produzione capitalista è una parte estremamente esigua di società. Eppure la protesta cresce e si fa sentire in tante parti del mondo, anche se fino a che rimane relegata negli alvei del capitalismo perde di qualsiasi consistenza o al massimo si presta strumentalmente a divenire serbatoio elettoralistico nella competizione per il potere tra i partiti borghesi.

Oggi alle tradizionali forze della sinistra istituzionale si aggiungono raggruppamenti della cosiddetta sinistra radicale e movimenti spontanei di ribellione posti in essere dalla crisi. Certamente non possiamo mettere tutti sullo stesso piano. I movimenti sono il termometro del malcontento diffuso anche se il comune denominatore dei soggetti in campo è la totale mancanza di una prospettiva politica o, molto più semplicemente, di una visione delle cose che non rientri integralmente all'interno della cornice del capitalismo. La sinistra storica è stata uno dei baluardi della conservazione capitalistica negli ultimi decenni, in primo luogo nel continente europeo. Essa e i sindacati hanno assecondato e fatto digerire al mondo del lavoro le ristrutturazioni e i sacrifici necessari alla competitività economica delle rispettive borghesie nazionali. Tutto questo ha concorso di volta in volta alla ripresa momentanea del capitale, pur non potendo impedire, tuttavia, il declino del ciclo economico nel più ampio arco di tempo.

La sinistra tradizionale si è logorata nel corso del tempo nella competizione per il potere e nella sua gestione. Inoltre, oggi, a causa della persistenza della crisi, si sono molto ristretti gli spazi rivendicativi del mondo del lavoro, come pure si è ridimensionata l'idea di una crescita ininterrotta dello stato sociale. Venuto meno il terreno che ha dato linfa allo sviluppo del riformismo è seguita la disillusione, accompagnata dal sorgere di nuovi raggruppamenti di sinistra e movimenti spontanei più determinati nella protesta contro i poteri forti della globalizzazione. Poteri sovranazionali, visti distanti e impersonali, al servizio delle multinazionali e della finanza, i quali avrebbero imposto al mondo il loro dittatoriale credo neoliberista. Per i contestatori del nuovo ordine si dovrebbe invertire la rotta, quindi dire basta alle politiche di austerità, spingere gli stati a favorire gli investimenti, l'occupazione, i consumi. Per costoro, in una parola, la ripresa economica sarebbe a portata di mano se tutti i paesi avanzati lo volessero e si coordinassero tra loro. Questa visione, fatta propria soprattutto dai movimenti spontanei trasformatisi nel frattempo in soggetti politici a tutti gli effetti, come Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia, trascende l'oggettività dei fatti e trasmette l'idea che la crisi del capitalismo sia frutto della cattiveria e della corruzione dei potenti, della loro malsana ideologia. Di conseguenza basterebbe liberarsi dalla loro tirannia e ripristinare la democrazia sottratta al popolo per risolvere ogni problema. Nella loro visione politica, le classi sociali non esistono e non vengono minimamente prese in considerazione, dunque, dal nostro punto di vista, siamo nel regno del puro interclassismo.

Un caso esemplare: Inglesias e il movimento Podemos

Pablo Inglesias, leader del movimento Podemos, è l'espressione moderna del riformismo a-classista. Egli ha attraversato le varie gradazioni di colore che contraddistinguono una certa tipologia di personaggi della sinistra una volta raggiunto il successo: dal rosso sbiadito quando era comunista in gioventù, passando successivamente al rosa del movimento degli Indignados, per finire all'incolore linguaggio del suo pensiero riguardante la definizione delle classi sociali. Per il capo di Podemos è superato il concetto di “destra e sinistra” e su questo potremmo essere d'accordo anche noi visto che la sinistra e la destra istituzionali si assomigliano sempre di più sino a confondersi come due facce della stessa medaglia. Secondo Inglesias la società non sarebbe composta da borghesi e proletari, ma da “quelli che stanno in alto” e “quelli che stanno in basso”. Tale visione altimetrica è opportunisticamente usata per allargare il bacino elettorale alla piccola borghesia impoverita, dato che alle prossime elezioni politiche Podemos potrebbe diventare il primo partito di Spagna.

Inglesias è un professore universitario di Madrid e con lui collaborano vari colleghi per approntare un piano contro l'austerità, la corruzione, far pagare le tasse ai ricchi, ecc., un ricettario che ben conosciamo anche noi in Italia. La sua esperienza deriva dal movimento no-global e dal cosiddetto socialismo del XXI secolo, una socialismo democratico di stampo patriottardo e populistico a cui Inglesias stesso ha contribuito alla formulazione, un socialismo affermatosi in America Latina sotto la guida di personaggi come Chàves, Correa, Lula e altri, ovvero un socialismo all'acqua di rosa lontano anni luce da una prospettiva realmente anticapitalista. Nel frattempo le concezioni di Inglesias si sono ulteriormente “affinate” tanto da fargli dire che in politica non conta avere ragione, ma avere successo. Egli ha fatto del concretismo un dogma: essere realisti politicamente per lui vuol dire infischiarsene della correttezza delle analisi se queste non vengono comprese dalle persone e non portano voti. E' vero, dice Inglesias, il materialismo storico è la chiave di lettura per comprendere i processi storici e la formazione di specifiche categorie sociali chiamate “classi”, ma tutto questo non serve a niente se la gente non capisce; per giungere al potere, prosegue, bisogna trovare argomentazioni unificanti in grado di raccogliere voti anche dai nemici per diventare maggioranza.

Il suo concretismo lo porta ad affermazioni ridicole quando, in qualche misura, vorrebbe che l'intervento politico di Podemos prendesse come riferimento l'azione di Lenin durante la rivoluzione d'Ottobre: “Ve lo ricordate quel compagno calvo e col pizzetto che nel 1905 parlava di Soviet? Era un genio. Aveva intuito l'importanza di un'analisi concreta della situazione concreta. In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull'orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori. Disse: 'pane e pace'. E quando disse 'Pane e pace', che era ciò che tutti volevano – che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare – molti russi che non sapevano neppure se fossero di 'destra' o di 'sinistra', ma sapevano di essere affamati, dissero: 'il tizio calvo ha ragione'. E il tizio calvo fece molto bene. Non parlò ai russi di 'materialismo dialettico', gli parlò di 'pane e pace'. E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo.”1

Ci sarebbe da chiedergli che nesso hanno le due cose: gli eventi straordinari nella Russia di quel tempo, insieme alla grande opera di Lenin nel far crescere la coscienza rivoluzionaria, la conseguente presa del potere da parte del proletariato attraverso i soviet con l'obiettivo della costruzione del comunismo, e le bazzecole parlamentari/elettoralistiche della Spagna odierna.

Un approccio “realistico” simile a quello di Inglesias non è nuovo nella storia del movimento proletario, anzi, tanti suoi predecessori molto tempo fa hanno provato a conciliare la scalata al potere dei multiformi riformismi con la promessa di superamento del capitalismo per via pacifica, oppure, come nel caso di Podemos, molto più modestamente, di riformare lo stesso capitalismo per renderlo più umano. A tutti i pragmatici innovatori, contrari alle utopistiche “dottrine” di trasformazione rivoluzionaria del mondo, rispose magnificamente, oltre un secolo fa, una giovane rivoluzionaria in polemica con Eduard Bernstein, uno dei capi della socialdemocrazia tedesca, personaggio di ben altro spessore rispetto agli odierni “progressisti”. La giovane rivoluzionaria era Rosa Luxemburg, la quale così si espresse riguardo ciò che caratterizza la prassi opportunista: “L'avversione per la 'teoria'. E questo è assolutamente chiaro, perché la nostra 'teoria', ossia i principi fondamentali del socialismo scientifico, pongono limiti assai precisi all'attività pratica, tanto in rapporto agli obiettivi cui mirare quanto ai mezzi di lotta da impiegare, come, infine, anche la forma di lotta. Ne deriva quindi, per coloro che vogliono andare a caccia solo di successi pratici, la naturale aspirazione ad avere le mani libere, ossia a separare la nostra pratica dalla 'teoria', a renderla indipendente da essa.”2

 

L'ortodosso Varoufakis

Mentre un ex comunista come Inglesias è oggi a capo di un movimento che ha messo nel cassetto qualsiasi riferimento al marxismo e fa del nazionalismo un suo cavallo di battaglia, in Grecia Tsipras alla testa di Syriza, acronimo di coalizione della sinistra radicale, pur dicendo sostanzialmente le stesse cose mantiene ancora un generico riferimento al socialismo. Al di là dei formalismi, entrambi non vanno oltre l'orizzonte borghese e la loro visione delle cose è tutta interna al sistema. Per essi il principale obiettivo sarebbe riaffermare una presunta democrazia sottratta al popolo dalle oligarchie, propugnando un capitalismo senza corruzione dove i ricchi paghino le tasse e i poveri siano meno poveri. Abbiamo visto come si sono sviluppate le vicende in Grecia. Tsipras, sebbene confermato a capo del governo dopo nuove elezioni, ha dovuto abbassare la testa e accettare le feroci misure economiche imposte dai potentati europei, il suo partito si è spaccato e le condizioni di vita del proletariato greco sono rimaste drammatiche se non peggiorate.

Prendiamo come esempio la Grecia per rimarcare la parabola che qualsiasi riformismo percorre una volta giunto al potere, pur trattandosi di organizzazioni non tradizionali ma della sinistra radicale. In particolare è interessante soffermarci su una figura simbolo di Syriza, successivamente fuoriuscito dal partito di Tsipras per disaccordi: l'ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis. Additato come un vetero comunista dalla stampa internazionale, un ostacolo ai progetti della Troika, a ben vedere l'ortodossia comunista di Varoufakis è più una leggenda che una verità. Egli stesso, in una intervista del 2013, esprime chiaramente il suo pensiero. Dopo aver elogiato Marx, che Varoufakis dice di avere cominciato a leggere a 12 anni, e dopo avere affermato che il rivoluzionario di Treviri ha apportato il maggiore contributo alla scienza economica, in particolare con l'analisi della mercificazione e alienazione del lavoro umano, Varoufakis conclude sostenendo la necessità di superare la disumanizzazione della società attraverso la ripresa del controllo dei rapporti sociali da parte dell'umanità. Da tutto ciò, sarebbe logico pensare che Varoufakis veda nel superamento del capitalismo e nel nuovo ordinamento socialista lo sbocco alle sue asserzioni.

Niente di più sbagliato. Prima il contentino e poi la censura, ecco cosa Varoufakis dice di Marx: “Penso tuttavia che Marx abbia commesso anche degli errori, relativamente alla teoria deterministica del 'crollo' (figlia del positivismo ottocentesco), che sottovaluta la capacità di adattamento del sistema e cerca la verità 'scientifica' del socialismo in formule e schemi economici, equazioni matematiche che invece non possono contenere alcuna verità assoluta… Ad esempio lui era convinto che un aumento dei salari, facendo diminuire i profitti, accelerasse la crisi; che viceversa lo sviluppo esigesse bassi salari e che dunque il capitalismo fosse irriformabile dallo Stato, esattamente come pensava tutta l’economia borghese fino a Keynes. Fu John Maynard Keynes a smentire i classici (sia Smith che Marx), mostrando come il crollo dei salari non incrementasse affatto né i profitti né l’occupazione…  la grandezza di Keynes sta in questa sola intuizione rivoluzionaria: che il capitalismo è un sistema ben poco 'deterministico', capace di collassare ma incapace di riprendersi con le sole forze del mercato. Per capire questo, Keynes si è dovuto staccare dai modelli matematici dell’economia borghese, e questo avrebbe dovuto fare anche Marx qualche decennio prima.”3

Dunque, Marx avrebbe sbagliato perché per rappresentare la verità del socialismo si sarebbe servito impropriamente della matematica e avrebbe adottato un determinismo schematico: inoltre non avrebbe compreso correttamente la relazione tra salari e profitti perché, sempre secondo Varoufakis, per Marx salari alti avrebbero affrettato la crisi del capitalismo mentre salari bassi sarebbero stati la condizione favorevole al suo sviluppo. Viceversa Keynes avrebbe compreso tutto affidando allo Stato il ruolo di salvatore del capitalismo. Quest'ultimo, infatti, si trascinerebbe passivamente nella crisi chissà per quanto tempo se facesse affidamento alle sole forze del mercato, mentre il ruolo regolatore e propulsivo dello Stato ne garantirebbe il funzionamento e la conservazione. In conclusione tanto di cappello al genio di Keynes! Andando oltre le falsificazioni di Varoufakis vediamo cosa ha realmente detto su questo punto Marx: “Se il capitale aumenta rapidamente, per quanto il salario possa aumentare, il profitto del capitale aumenta in modo sproporzionatamente più rapido. La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L'abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito.”4 Molto semplicemente Marx facendo riferimento ai periodi di prosperità del capitalismo mette in rilievo come gli aumenti salariali, pur migliorando la condizione del lavoratore, non spostano di un millimetro il suo assoggettamento al capitale, anzi, tale dipendenza si intensifica. Egli aggiunge che solamente durante le crisi economiche, come quella che stanno pesantemente vivendo oggi i proletari, può determinarsi il punto d'incontro tra la lotta di classe e il programma del partito rivoluzionario per il superamento del capitalismo e la costruzione del comunismo. Nessun crollo automatico del capitalismo è nel pensiero di Marx: gli uomini fanno la storia, è la loro prassi trasformatrice nelle circostanze date ad imporsi.

Come si può capire Varoufakis è un keynesiano e non un pericoloso marxista come la borghesia vorrebbe far credere. Oggi, qualsiasi considerazione socio-economica non completamente in linea con la vulgata borghese neoliberista viene respinta, soprattutto nel mondo cosiddetto sviluppato, come qualche cosa di indesiderabile se non addirittura di sovversivo. Varoufakis è tra coloro che ripropongono la classica minestra riscaldata, il cavallo di battaglia della socialdemocrazia di qualche tempo fa, ovverosia la presenza consistente e direttiva dello Stato nell'economia. Viene accusato di ispirarsi al comunismo dalla interessata fazione borghese liberista. In realtà siamo di fronte al perenne tentativo del riformismo di mettere le pezze al capitalismo nel corso delle sue crisi cicliche, tentativo che l'ex ministro greco rivendica dichiaratamente smentendo i suoi delatori, ripudiando il comunismo e facendo professione di fede nel capitalismo: “alcuni militanti della sinistra radicale mi rimproverano su internet di suggerire i modi per salvarlo, il capitalismo, invece di distruggerlo come un marxista dovrebbe auspicare. Ammetto che quest’accusa mi fa male, ma vi devo confessare che è un rimprovero fondato. Sì, è vero: voglio salvare la società dagli effetti devastanti di questa crisi. La mia è una strategia, che si inquadra in un progetto politico radicalmente umanista… Perciò vorrei evitare di commettere di nuovo l’errore che feci da studente 30 anni fa, e invece di invocare l’abbattimento del capitalismo, oggi mi sento in dovere di indicargli la maniera per salvarsi da se stesso.”5

I presunti correttori di Marx procedono tutti allo stesso modo: da una parte ne esaltano il grande contributo che egli ha dato allo svelamento dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, spiegando l'inevitabilità delle crisi e le insufficienze del sistema stesso a soddisfare i bisogni sociali; dall'altra parte ne epurano la sostanza rivoluzionaria giustificando la permanenza degli attuali rapporti di produzione, riconoscendo i loro limiti ma non indicando la necessità di superarli, pensando di poter riformare qualcosa che nella sostanza non è riformabile. Un atteggiamento più che accettabile per la borghesia, la quale riconosce a questo genere di intellettuali i meriti e li ricompensa con laute prebende

Decrescere per sopravvivere

Un altro approccio di successo sprigionante un certo fascino tra i giovani, scevro dalle pastoie della politica e apparentemente più concreto, è quello della “decrescita serena” dell'economista francese Serge Latouche. Siamo su tutt'altro terreno rispetto a quanto abbiamo detto sino a questo momento ma vale la pena fare riferimento anche alle risposte che questo tipo di impostazione vuole dare alla disastrosa situazione sociale e ambientale del pianeta. Latouche critica l'economicismo sviluppista dell'occidente avanzato, affermando che è contraddittorio e profondamente sbagliato pretendere una crescita costante e illimitata della produzione a fronte di una finitezza della condizione umana e del pianeta. Tutto questo sarebbe causa del dissesto ambientale e dell'infelicità delle persone e alla fine porterebbe alla distruzione del pianeta. Le sue tesi si fondano sulla diffusione della piccola produzione locale e sulla frugalità dei consumi in contrasto al modello economico della globalizzazione, il quale come un rullo compressore tutto appiattirebbe e standardizzerebbe, sia le cose che gli individui. Sostanzialmente Latouche rifiuta di leggere il mondo con gli occhiali dell'economia e si pone su di un terreno più pratico e in un certo senso filosofico, esortando alla ragionevolezza e alla consapevolezza per intraprendere una nuova strada dove al centro dell'attenzione venga posto l'essere umano.

Tanti buoni sentimenti possono essere riassunti dallo stesso protagonista come segue: Come ho spiegato nei miei libri, occorre rifondare l’economia secondo il circolo virtuoso delle 8 R (cioè Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) . Il primo passo è rivedere i valori in cui crediamo. Per esempio bisognerebbe mutare questa idea che vede gli esseri umani come i padroni della natura, perché non possiamo continuare a distruggerla fino in fondo. Dobbiamo imparare a vivere in armonia con essa, non trattandola più come predatori, ma come dei buoni giardinieri. Le persone dovrebbero anche cambiare il modo di comportarsi non solo nei confronti dell’ambiente, ma anche nei confronti dei loro simili, introducendo più cooperazione e altruismo nei rapporti.”6 Queste affermazioni astraggono dal presente contesto storico. Invocare la decrescita e l'inosservanza dei parametri di sviluppo economico a favore della riscoperta dei rapporti umani e della ricerca della felicità, significa non considerare che viviamo in un contesto capitalista, ovvero chiedere alla borghesia e al suo sistema di suicidarsi. La condizione di sopravvivenza del capitale è la produzione su scala allargata, cioè il processo di accumulazione costantemente in essere, e la produzione fine a se stessa per la valorizzazione del capitale. Affermare che tutto ciò possa essere annullato con il puro atto della volontà significa ingannare gli altri e se stessi. E' impressionante constatare la pochezza di tanti intellettuali del nostro tempo nel dare risposte e indicare soluzioni alla crisi del capitalismo. L'intellettuale francese è il classico esempio dell'uomo che in gioventù ha militato nella sinistra radicale. Ripudiato il sinistrismo del passato, oggi pensa, da ex marxista quale egli crede di essere stato, che Marx sia da riporre in soffitta. Latouche trasferisce i propri errati convincimenti fuori da se stesso, imputando le cause del proprio fallimento al marxismo. Le sue convinzioni sul passato sono eloquenti: considerare il defunto “socialismo reale” dei paesi dell'est europeo come vero socialismo, oppure qualificare come comunista uno squallido personaggio come Pol Pot. Questo significa fuorviare i suoi giovani simpatizzanti facendo valutazioni frutto della totale incomprensione del materialismo storico quale strumento di interpretazione della realtà. Proprio per questo suo anticomunismo, il personaggio è molto gettonato dai media borghesi, poco accreditato per le sue teorie ma ben tollerato in quanto somministratore di aria fritta. In un video in rete riguardante un incontro pubblico per discutere il tema della decrescita in cui Latouche compare insieme a Diego Fusaro, egli esordisce a proposito di Marx affermando sprezzantemente che “nella mia giovinezza sono stato comunista e marxista per molti anni, ma come diceva un certo personaggio inglese, colui che non è comunista a vent'anni non ha cuore, colui che è ancora comunista a quaranta non ha testa”.

Indipendentemente da Latouche, si presenterebbero alla nuova società socialista, una volta superato il capitalismo, dei problemi importantissimi da risolvere riguardanti il cosiddetto sviluppo delle forze produttive. Si tratterebbe di produrre a livello planetario solo ciò che sarebbe necessario alla produzione sociale, eliminando il superfluo e incentivando la ricerca scientifica per la riduzione della fatica umana e per la salvaguardia dell'ambiente, individuando quantità e numero di unità produttive adatte alla realizzazione del piano per la produzione di beni e servizi utili al soddisfacimento dei bisogni sociali, distribuite sul territorio e non concentrate in giganteschi ammassi. Dato il grande sviluppo delle forze produttive raggiunto oggi dal capitalismo, compito del socialismo sarebbe andare oltre, puntare sulla qualità a discapito della quantità. In questo senso va inteso oggi in ambito marxista lo sviluppo delle forze produttive tenendo presente che il miglioramento qualitativo della produzione potenzialmente non ha limite. Attribuire a Marx, come fanno Latouche e tanti altri riformatori di sinistra, di avere pensato all'infinita crescita della produzione per la realizzazione del socialismo è una sciocchezza. Marx nell'ottocento vedeva nelle conquiste scientifiche e tecnologiche del capitalismo le basi per la futura società senza classi. Ciò avrebbe permesso all'umanità di avere gli strumenti per uscire dallo stato di necessità e allo stesso tempo di abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. In diverse circostanze Marx ed Engels denunciarono i disastri prodotti all'ambiente dal capitalismo, un motivo, anche questo, per andare oltre il sistema borghese. Invece i vari Latouche di turno propongono cure inattuabili dall'attuale sistema economico e mai indicano la necessità di abbattere il capitalismo, facendosene coscientemente o involontariamente difensori.

Il bivio di sempre: guerra o rivoluzione

Dal breve resoconto che abbiamo fatto su alcune idee e movimenti oggi in auge, ne deriva un quadro poco confortante. Non va meglio sul fronte del lavoro e più in generale sulla situazione del proletariato internazionale. Il capitale in crisi ha pesantemente attaccato le condizioni di vita dei proletari senza che questi, a parte qualche sporadico episodio di conflittualità, abbiano risposto con sufficiente ampiezza e determinazione. Per un trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale il capitalismo dell'occidente avanzato ha potuto garantire ai lavoratori livelli di vita più alti rispetto alle altre parti del mondo. Le lotte di quegli anni permisero ai lavoratori di vendere la propria forza lavoro a un prezzo sufficientemente adeguato per accedere ai consumi, garantendo al capitale, malgrado ciò e con qualche eccezione temporanea, pace sociale e alti profitti. Successivamente, l'inversione di tendenza del ciclo economico e i primi segnali di difficoltà del processo di accumulazione del Capitale, involuzione innescata dalla caduta tendenziale del saggio medio del profitto, ha significato per i lavoratori il continuo peggioramento delle proprie condizioni di vita: ristrutturazioni, licenziamenti, precarizzazione, sino alla disastrosa situazione dei nostri giorni, in particolare modo per le nuove generazioni di proletari.

Con la crisi economica si sono accentuate le spinte alla guerra, per quanto lo scontro interimperialistico non si sia mai spento nemmeno nei “pacifici” tempi delle vacche grasse, tanto che oggi viviamo in una sorta di guerra permanente con numerosi conflitti sparsi per il globo. In questo marasma, i rapporti di forza tra borghesia e proletariato sono nettamente a svantaggio di quest'ultimo. Per il proletariato si prospetta un futuro di crescente miseria se non saprà costruire un'alternativa al capitalismo e instaurare un ordine sociale superiore, un nuovo modo di produzione senza profitto e sfruttamento. Il bivio è quello di sempre: guerra imperialista o rivoluzione proletaria. Le ragioni dell'allargamento dei conflitti di oggi sono gli stessi che portarono ai precedenti macelli mondiali: corsa all'accaparramento delle materie prime e ai mercati di investimento, con l'aggiunta delle peculiarità che contraddistingue il capitalismo moderno ovvero la gestione dei meccanismi di appropriazione della rendita finanziaria, cosa che comporta in primo luogo, ancora di più rispetto ai precedenti conflitti, mettere gli artigli sulle principali materie prime a cominciare dal petrolio, e il controllo del mercato della forza lavoro a basso costo messo già in essere dalla cosiddetta globalizzazione.

La guerra è connaturata al capitalismo perché nel corso del tempo il processo di valorizzazione del capitale si inceppa innescando tensioni molto gravi tra i vari contendenti. L'enorme quantità di capitale in eccesso deve essere distrutto, quindi si apre un'epoca di fallimenti e chiusure di imprese industriali e commerciali, di rialzi borsistici inarrestabili per una speculazione che la fa da padrona, di crolli azionari che concorrono violentemente alla svalorizzazione del capitale. Questi sconvolgimenti che scuotono il sistema non sono altro che tentativi del capitale di trovare un nuovo equilibrio, un potente processo di autoconservazione. Ma tutto ciò non basta e la guerra generalizzata è l'ultima ancora di salvezza. Così è stato soprattutto con l'ultimo conflitto mondiale e nulla di rassicurante si prospetta per il futuro. Quello che possiamo dire con certezza è che fermo restando la situazione attuale, nei paesi avanzati a capitalismo maturo i margini di profitto del dopoguerra sono un sogno irrealizzabile per la borghesia. Solamente un nuovo ciclo distruzione/ricostruzione può ridare la giovinezza al vecchio mostro malandato. In questo contesto le tensioni interimperialistiche non potranno che acuirsi.

La tendenza alla guerra può essere contrastata solamente dalla lotta di classe del proletariato nel momento in cui la lotta stessa si trasforma in coscienza rivoluzionaria in sintonia con la tattica e strategia del proprio partito comunista. Non è dato sapere se questo potrà accadere prima, durante o dopo l'eventuale scontro generalizzato interimperialista. Tuttavia la parola d'ordine non potrà che essere quella del disfattismo rivoluzionario contro la propria o qualunque altra borghesia belligerante. In nessun caso le guerre della borghesia, di qualunque tipo esse siano, locali o generalizzate, devono essere appoggiate o produrre una qualche simpatia con la motivazione che un determinato vincitore potrebbero favorire circostanze più favorevoli alla lotta antimperialista, finendo così per sostenere o per tifare per l'imperialismo più debole. Tutte le guerre sono guerre del Capitale, qualsiasi antimperialismo che faccia distinzioni tra Stati capitalisti numero uno, due, o quant'altro, si pone su un terreno controrivoluzionario. I rivoluzionari devono agire concretamente nella direzione del disfattismo rivoluzionario favorendo l'iniziativa di classe del proletariato contro qualsiasi borghesia nazionale e internazionale. Finché ci sarà il capitalismo le guerre saranno inevitabili: “La guerra non è nata dalla cattiva volontà dei predoni capitalisti, benché si faccia senza dubbio soltanto nel loro interesse e arricchisca soltanto loro. La guerra è nata dallo sviluppo semi secolare del capitale mondiale, dall'infinita molteplicità dei suoi addentellati e legami. Non si può uscire dalla guerra imperialistica, non si può ottenere una pace democratica, che non sia una pace di sopraffazione, senza rovesciare il potere del capitale, senza far passare il potere statale nelle mani di un'altra classe, nelle mani del proletariato. La rivoluzione russa del febbraio-marzo 1917 è stata l'inizio della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. E' stata il primo passo verso la cessazione della guerra. Soltanto il secondo passo, cioè il passaggio del potere statale al proletariato, può garantirne la cessazione.”7 La rivoluzione d'Ottobre ci ha lasciato degli insegnamenti straordinari da questo punto di vista, pur nella diversità del periodo storico e delle condizioni sociali della Russia di allora, dimostrando che l'unica strada percorribile contro la barbarie capitalista è la rivoluzione proletaria. Un altro tema fondamentale che si è evidenziato da quella esperienza è il rapporto tra partito, coscienza e classe. Senza la profonda comprensione di Lenin della situazione e della tattica da adottare per raggiungere lo scopo che si era prefisso, ricordiamoci che in un primo momento Lenin si trovò praticamente solo nel partito bolscevico nell'indicare la rottura rivoluzionaria come mezzo per fermare la guerra, le cose molto probabilmente sarebbero andate diversamente. La disponibilità dei proletari alla lotta contro lo zarismo e contro la borghesia russa a un certo punto si coniugò al programma anticapitalista di Lenin, il quale nel frattempo aveva spostato anche il partito bolscevico sulle sue posizioni. Lenin fu il più lucido attore di quegli eventi e rappresentò la coscienza più avanzata della rivoluzione e della prospettiva comunista.

A conferma dell'intensificazione dello scenario di guerra basti considerare gli ultimi eventi: le stragi di Parigi, l'abbattimento dell'aereo russo, gli attentati nel Mali, che si aggiungono alla lunga catena di sangue di questi ultimi anni. Il luogo in cui si concentrano le maggiori tensioni mondiali è il Medio Oriente, naturalmente il petrolio ne è la causa. Se da una parte l'oro nero è la fortuna delle reazionarie borghesie locali, al contrario esso ne costituisce la tragedia per la popolazione costantemente alla mercé di un'infinità di intrighi tra i vari imperialismi globali e regionali. Il fenomeno jihadista, coltivato e alimentato da taluni stati occidentali, si iscrive a tutti gli effetti nella strategia di spartizione delle risorse e del potere tra i numerosi briganti imperialisti grandi e piccoli. Allo stesso tempo il terrorismo islamista è un potente strumento di oppressione e conservazione del sistema capitalista. Nei paesi arabi svolge direttamente un ruolo repressivo nei confronti dei proletari, mentre in occidente serve a incutere terrore e indirettamente a sviare l'attenzione dallo sconquasso sociale, a giustificare le misure repressive e la militarizzazione del territorio, utili anche contro chiunque si oppone allo stato di cose presente.

E' interessante constatare, ancora una volta, la scomparsa dei movimenti pacifisti quando il rumore delle armi cresce. L'impantanamento dell'economia borghese, le tensioni tra gli stati, la concorrenza per spartirsi risorse e mercati, sono questioni che alla fine costringono ad una scelta di campo: o si sta dalla parte di questo sistema o viceversa si sente la necessità di guardare oltre, di liberare la mente dal ciarpame che la incrosta e di prefigurare un mondo senza profitto e sfruttamento. Il pacifismo piccolo borghese non guarda avanti, al contrario vuole tornare indietro, essendo sostanzialmente composto dalle mezze classi rovinate dalla dinamica di crisi del capitale, nella speranza di recuperare, illusoriamente, il terreno perduto. La piccola borghesia finisce così per aggrapparsi alla propria borghesia nazionale, schierandosi nel più ampio fronte bellicista quando i venti di guerra si fanno più forti, insieme a tutti i movimenti e partiti di destra e di sinistra. Tutto questo conferma quanto il marxismo sostiene da sempre: solamente i lavoratori, i proletari, possono fermare la guerra e abbattere il capitalismo. L'emancipazione sociale passa attraverso l'abolizione del lavoro salariato e la realizzazione del comunismo, condizione per l'affermazione di libere relazioni umane, non fondate sull'interesse predatorio personale e della lotta di tutti contro tutti, ma sul superamento delle classi e la solidarietà tra gli individui.

 


1             http://contropiano.org/documenti/item/31189/-podemos-e-la-politica-spiegati-da-inglesias%29.

2             Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Newton Compton Editori, Roma 1978, pag. 74

3             http://radicalsocialismo.it/2015/02/11/varoufakis-il-mio-marxismo-riformista/

4             Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, in Karl Marx Opere – lotta politica e conquista del potere, Newton Comptom Editori, Roma 1975, pag. 335

5             http://radicalsocialismo.it/2015/02/11/varoufakis-il-mio-marxismo-riformista/

6             http://magazine.expo2015.org/cs/Exponet/it/cultura/serge-latouche.-non-basta-tutelare-l-ambiente.-le-persone-devono-imparare-a-rispettarsi-

7             V. Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, in Opere Scelte – IV volume, Editori Riuniti, Roma ed Edizioni Progress, Mosca, 1975, pag. 67