Sulle imminenti elezioni presidenziali statunitensi. Trump presidente?*

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Creato: 15 Ottobre 2016 Ultima modifica: 15 Ottobre 2016
Scritto da Loren Goldner Visite: 1766

 Potrebbe dtrumpClintavvero accadere. Quello che un anno fa sembrava solo un candidato-zimbello, è ora uno dei possibili vincitori, nell’anno politicamente più feroce dal 1968 (e c’è ancora l’imminente ‘sorpresa di ottobre’).
A prescinde
re da ciò che succederà, il vecchio sistema politico statunitense si è frantumato.
Donald Trump è, a memoria d’uomo, diverso da ogni altro candidato alla presidenza. E solo se si tornasse indietro fino a Eugene Debs, si troverebbe un candidato apparentemente tanto radicale quanto Bernie Sanders, ma trovare un reale precursore di Trump è persino più difficile. La tranquilla eclissi di Sanders ad agosto ha avuto come conseguenza certa che milioni dei suoi ex-sostenitori resteranno a casa o voteranno per i Verdi.

La rispettabile società dei funzionari, inclusa una buona fetta della classe dirigente repubblicana e perfino l’esercito solitamente ‘apolitico’, sono per il ritiro di Trump o appoggiano apertamente la Clinton. Generali, diplomatici, specialisti di politica estera e il New York Times, tutti concordano che la presidenza Trump sarebbe un disastro. Il Financial Times teme una possibile caduta dell’ordine mondiale ‘internazionalista’ (leggi: dominato dagli Stati Uniti) immutato dal 1945. Tali dichiarazioni non fanno alcuna differenza; o, al limite, servono solo ad aumentare il fascino e le credenziali “anti-establishment” di Trump.

La situazione mostra importanti parallelismi con il voto per la Brexit tenutosi in Gran Bretagna a giugno; lì, l’intera classe dirigente politica ed accademica, sia di sinistra che di destra, si era schierata per restare nell’Unione Europea, e quello che può essere definito un voto di classe (sebbene mischiato con altri elementi meno gradevoli) ha risposto con un enorme dito medio. Questo è ciò che si sta lentamente preparando negli Stati Uniti.

Quello che sta per accadere non è nulla di meno che un referendum (molto) distorto sugli ultimi quarantacinque anni di politica e società americane, e coloro che pensano che a breve ci sarà la fine del “libero scambio” e della ‘globalizzazione’, credono di aver trovato finalmente una voce che li rappresenti, anche se il programma economico di Trump, così com’è, è una chimera. Proprio come in Francia o in Gran Bretagna, il nuovo populismo di destra non mette radici nei rampanti centri metropolitani super-collegati di Parigi o Londra, ma piuttosto nelle trascurate medie e piccole cittadine, dove l’imborghesimento ha costretto la classe operaia che ci viveva in precedenza a trasferirsi. Così è anche negli Stati Uniti, dove Trump non ha grandi riscontri nella baia di San Francisco o a New York, ma nelle medie e piccole cittadine e nelle zone rurali dei “ superflui”.
(
https://morecrows.wordpress.com/2016/05/10/unnecessariat/)

Possiamo vedere l’ascesa del populismo autoritario stile Trump anche in un contesto globale inquietante, che include le avanzate galoppanti dell’estrema destra nell’Europa occidentale (Francia, Scandinavia, Austria e ora anche Germania), nell’Europa orientale, guidate da Ungheria e Polonia, andando avanti fino alla Russia di Putin, alla Turchia di Erdogan e, più recentemente, a Duterte nelle Filippine. Un’ondata di destra ha anche spazzato via o perlomeno indebolito la maggior parte dei governi ‘progressisti’, con in testa Argentina e Brasile, che hanno dominato l’Americana latina negli ultimi decenni.

E’ forse degno di nota che, all’interno della cosiddetta classe media americana, ci si sta preoccupando e si discute della classe operaia bianca come dell’estremo arbitro di questa elezione. Le elezioni del 2016 sono talmente senza precedenti che l’ideologia dominante improvvisamente sente il bisogno di parlare apertamente della classe operaia, quella stessa classe operaia che precedentemente era stata data per dispersa o considerata scontata. I burocrati dell’UAW (United Automobile Workers: il principale sindacato dei lavoratori del settore automobilistico negli Stati Uniti. N.d.T) e quel pallone gonfiato del presidente dell’AFL-CIO (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations: la principale confederazione sindacale degli Stati Uniti. N.d. T) Richard Trumka si precipitano da un posto all’altro per convincere i semplici iscritti ai sindacati a non votare per Trump.

Trump, da parte sua, quando è riuscito a restare in argomento, ha tenuto dei discorsi di una lucidità disarmante (https://www.Youtube.com/watch?v=JK4WNA1aBUQ) su ciò che è accaduto agli operai della ormai decimata grande industria nel cuore del paese, negli ‘oscillanti stati chiave’ del Midwest. Anche la classe operaia bianca, che tira avanti a fatica, dell’ex grande industria dell’arredamento in Virginia e North Carolina è una facile conquista per Trump, (http://insurgentnotes.com/2016/04/review-beth-macy-factory-man-how-one-furniture-maker-battled-offhoring-stayed-localand-helped-save-an-american-town2014) per non parlare dei minatori e degli ex minatori del West Virginia, cancellati dall’agenda ‘verde’ della Clinton.

E perché dovremmo essere sorpresi, quando la cosa più sorprendente è che per la prima volta un candidato di un partito di maggioranza si è preso il disturbo di parlare direttamente a questi operai su ciò che è loro accaduto negli ultimi decenni, in contrasto con la retorica buonista di Walter Mondales, di Bill Clinton e ora di Hillary Clinton? Dire “l’America non ha mai smesso di essere grande”, come fanno Hillary Clinton e i democratici, è già di per sé una ideologica corsa al massacro, e di certo non è di conforto per gli ex operai industriali nel centro del paese, per una larga fetta di neri del nord e del sud, o peri bianchi poveri dell’Appalachia e di ogni altro posto, attualmente soggetti alle più alte medie di decesso del paese per suicidio, droghe e alcool.

Il ruolo della politica identitaria.

Non dovremmo lasciarci sfuggire, quando identifichiamo le fratture di classe nel mondo del lavoro, il ruolo della politica identitaria, così diffusa nei centri metropolitani, che favorisce l’ascesa di Trump. La politica identitaria ha sempre avuto ed ha tuttora un’esplicita o implicita ‘diffidenza’ degli operai in quanto operai, proprio come essi sono stati estremamente indifferenti allo smantellamento dei vecchi centri industriali del paese, che avevano saccheggiato, in egual misura, comunità di operai bianchi e di colore. L’ascesa di Trump è in parte lo scotto di decenni di condiscendenza e di appena celato disprezzo o nel migliore dei casi di indifferenza per la sorte dei comuni lavoratori, diffusa nell’ambiente elitario accademico, nei mezzi di comunicazione corporativi e nel mondo editoriale di alto livello del New York Times e degli eleganti giornali delle classi più ciarliere.

Dite che Trump è un razzista? Un misogino? Un fustigatore della Cina e degli immigrati? Sì, lui è tutte queste cose, ma queste banali accuse da parte della sinistra e dei liberali non colpiscono al cuore il suo fascino di figura ‘anti-establishment’. Inoltre, quella che è la sua base più ovvia ha un reddito pro-capite più alto rispetto a quelle degli altri candidati ed ex-candidati alla presidenza (Clinton e Sanders), e questo indica che egli ha forgiato una coalizione di popolazione bianca che si sente in pericolo, proveniente dalla media e alta borghesia e in parte anche dalla classe operaia e dai ceti meno abbienti, e questo è un fatto certamente senza precedenti. Tutti questi gruppi hanno in comune la sensazione che la vecchia America da loro conosciuta, stia per essere rimpiazzata da un’America con una classe operaia formata sempre più da persone di colore e da gruppi di immigranti, provenienti dall’Asia dell’est e del sud e dall’America latina.

Infine, ma non per questo meno importante, Trump ha sicuramente portato alla chiara luce del giorno molti elementi dell’estrema destra, come - per intenderci - la folla di David Dukes che ostenta le armi,   permettendo che essi emergessero dagli angoli bui della vecchia destra e ‘liberando le loro lingue’, come uno di essi ha affermato, dall’atmosfera dominante del ‘politicamente corretto’. Sia in caso di vittoria che di sconfitta di Trump, queste forze non torneranno tranquillamente indietro nella loro relativa oscurità.

Per concludere, queste avanzate dell’estrema destra e del populismo autoritario in tutto il mondo sono lo specchio del fallimento della ‘sinistra’ moderata, che, negli ultimi 45 anni, si è ripiegata nel cercare il consenso della famiglia felice di centro-destra/centro-sinistra, guidata dai vari Tony Blair, François Mitterand e Gerhard Schröder in Europa e da Jimmy Carter, Bill Clinton e Barack Obama negli Stati Uniti, a cui ora si è aggiunta Hillary Clinton. Tali forze non sono una soluzione tampone, come molti teorici del ‘male minore’ vorrebbero farci credere, per sbarrare la strada alla destra in ascesa, ma piuttosto la alimentano, la concretizzano, e non si tratta certo di una vera e propria sinistra, come quella che “Insurgent Notes” (il giornale in cui è stato pubblicato questo editoriale – N.d.T) punta a far nascere e che sarebbe la reale alternativa ‘anti-establishment’ alla situazione attuale.

* L’articolo è apparso sull’ultimo numero di Insurgent Notes www. http://insurgentnotes.com/2016/10/editorial-president-trump/