Il popolo degli inesistenti

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Creato: 19 Agosto 2015 Ultima modifica: 13 Ottobre 2016
Scritto da Gianfranco Greco Visite: 2204

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La responsabilità sociale delle imprese è verso gli azionisti-proprietari e consiste nell’aumentare i profitti. Degli ultimi e di chi non ce la fa, si può occupare la filantropia.” (Milton Friedman, 1970)

 

Un popolo in continuo aumento. Si tratti di migranti, di profughi, di rifugiati o altre categorie altrimenti definite, resta la ineludibile realtà di una umanità che si porta dietro un carico di disperazione senza fine.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) fa riferimento a una popolazione di sfollati nel mondo, ossia scalzati dalla loro terra e in cerca di asilo, che si aggira – limitatamente al 2014 – intorno ai 60 milioni. Un tristissimo record se soltanto si pensa all’incremento di 8,3 milioni rispetto a un anno fa e di 23 milioni rispetto a dieci anni prima. 60 milioni fanno esattamente il 24° Stato nel mondo. Uno Stato senza confini popolato da esseri umani a cui è stato tolto tutto. “Il mondo è malato come non è accaduto mai: ogni giorno, nel 2014, un esercito di 42.500 civili è stato divorato dalla terra di nessuno di chi ha perso tutto e può soltanto fuggire, lasciandosi alle spalle persecuzioni e conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani. Un numero abominevole che è un atto di accusa al mondo intero, perché questa cifra sconvolgente, negli ultimi quattro anni è esattamente quadruplicata. Ogni 122 abitanti della Terra, uno è diventato un profugo, e in maggioranza (51%) si tratta di bambini.[1]

In un siffatto contesto assume contorni quasi surreali la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino - emanata nell’agosto del 1789 durante la Rivoluzione francese - a valere quale principio di portata universale ed in quanto tale invocato al pari di un diritto naturale. Vero è che “La Dichiarazione era opera della classe vittoriosa, sicura del proprio avvenire, certa che l’ordine che essa aveva concepito avrebbe assicurato per sempre il bene degli uomini.”[2], come altrettanto vero è che la classe borghese non perse tempo, già allora, a operare uno strappo alla Dichiarazione stessa laddove il nuovo ordine borghese condusse a limitare o a negare ad un gran numero di uomini i loro diritti. “ In Francia, la servitù fu abolita senza indennità; ma la schiavitù e la tratta dei negri non vennero soppresse perché le aziende delle colonie ne avrebbero sofferto.”[3]

Possiamo dire che l’odierno popolo degli inesistenti presenta molte similitudini coi negri delle colonie francesi? Certamente sì, anche se per certi versi la schiavitù moderna presenta aspetti addirittura peggiorativi rispetto alla tratta degli schiavi esercitata per secoli dalla novella classe borghese. Possiamo infatti dire che “le magnifiche sorti e progressive” della moderna globalizzazione capitalistica mostrano come i negrieri del nuovo millennio, al contrario di quanto avveniva tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo allorché si trattava di razziare persone libere, gestiscono una tratta di altrettanti esseri umani con la sostanziale differenza, però, che oggigiorno la “merce” è costituita da gente disponibile a sopportare violenze e soprusi di ogni genere pur di poter scappare. Si tratti di chicanos, di Rohingya della Birmania, di africani o mediorientali l’imperativo è dappertutto uno solo: fuggire.

Ma fuggire da dove, da cosa e, soprattutto, perché?

 

Olocausto nostrum

Secondo cifre pubblicate da “Le Monde” nel Mediterraneo, dall’inizio del 2015, è morta una persona ogni due ore. Entrando più nel dettaglio: se nei primi quattro mesi del 2014 ne erano morti 90, nello stesso periodo del corrente anno sono saliti a 1.700, ossia 400 morti al mese (dati Unhcr).

Questo dato, nella sua tragica aridità, evidenzia come le ragioni, i motivi veri che inducono a questa accelerazione della mobilità internazionale, a questa migrazione forzata, siano da ricondurre interamente a cause economiche o geopolitiche con relativi corollari di fame, povertà, violenza, decomposizione di Stati, guerre a estensione e intensità variabili innescate da satrapie locali o, il più delle volte, da interventi esterni. Ci stiamo riferendo, nell’argomentare, a ciò che passa nel Mediterraneo ma solo come stringente attualizzazione di un fenomeno che va assumendo dimensioni sempre più vaste. Per conseguenza, vien da chiedersi quali sviluppi possa avere il fenomeno negli anni a venire ma, soprattutto, quanto possa essere realistico ritenere di poter fermare i flussi migratori. Al netto delle declamazioni dei vari governi europei che si caratterizzano soltanto per il loro cinismo segnato da venature demenziali, resta un dato di fondo fatto emergere lucidamente dallo scrittore Erri De Luca quando sostiene come “I flussi migratori non possono essere regolati…Il Mediterraneo è dilaniato da guerre nella sponda Sud. Il movente che spinge il profugo a migrare è troppo forte. Chi ha la casa in fiamme accetta di buttarsi nel vuoto. E’ come se si buttassero dalle finestre in mare. Un superstite ha dichiarato che quando è arrivato sul bordo del mare e ha visto il relitto che lo avrebbe trasportato non ha avuto altra scelta che montare a bordo. Questo è un fenomeno rispetto al quale nessun ostacolo è sufficiente.”[4] Del tutto palese, quindi, come non possa essere data una valenza emergenziale a ciò che è, invece, strutturale.

 

L’impavido esercito di Francischiello e i lucrosi affari sulla tragedia della migrazione

Come porsi quindi davanti a questo problema? Sembra proprio che i vari governi europei – ognuno con una propria strategia – intendano pervenire a capo della questione attraverso, innanzitutto, la criminalizzazione della migrazione, la militarizzazione dei controlli alle frontiere e la esternalizzazione dei controlli.  Un’impennata verso l’assurdo. Un problema oramai di dimensioni planetarie, che ha origine da cause ben precise e che si pensa di risolvere affondando dei gusci  che appena galleggiano e ricorrendo a una vasta gamma operativa fatta di “intelligence”, sorveglianza, ricognizione, con tanto di unità d’imbarco e forze speciali.

Per contrappasso, tuttavia, la realtà sembra farsi beffa di questi propositi grotteschi riproponendosi il medesimo problema però via terra e, nella fattispecie, l’invasione degli inesistenti sta avvenendo attraverso il confine austriaco e la cosiddetta Porta dell’Est: il Friuli.

Una percezione delirante del problema fa sì che, all’interno dei paesi UE, si assista a uno squallido mercanteggiamento tra bottegai per scaricare, gli uni sugli altri, soluzioni-tampone che servono solo a rinviare tutto per prendere tempo. Ed alcune cifre la dicono lunga sul cinismo delle istituzioni europee dispiegato nei confronti di un dramma che si consuma quotidianamente sotto i nostri occhi. All’interno del cosiddetto “club dei ventotto paesi UE” ci si accapiglia sulle quote che spetterebbero a ognuno di questi fanatici cultori della filantropia in relazione alla proposta del Consiglio europeo di ridistribuire 40.000 rifugiati tra gli Stati membri della stessa UE. 40.000 rifugiati da ripartirsi nei prossimi due anni nel mentre “ Nel 2013, Pakistan, Iran, Libano, Giordania, Turchia, Kenya, Ciad, Etiopia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che significa che un gruppo di paesi, il cui PIL è 1/5 di quello dei paesi dell’UE, ha accolto in un anno un numero di immigrati e rifugiati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono disposti ad accogliere i paesi della grande Europa in due anni.”[5]

E’ inconfutabile, tuttavia, come gli stessi migranti, al tempo stesso, rappresentino per qualcuno fonte di lucrosi affari e il riferimento non è limitato al solo network degli scafisti il cui fatturato, negli ultimi due anni, si è attestato intorno ai 100 milioni di euro debitamente investiti, in certa parte, in America e Canada in quanto lì non fanno tante storie sulla provenienza dei soldi mentre, in certa altra parte, volano “ nei forzieri delle banche internazionali di Dubai senza nessuna transazione, reinvestiti in fondi o in altri sofisticati strumenti finanziari. Parliamo quindi di somme spaventose e della grande facilità e immediatezza nell’aprire conti all’estero e nel movimentare flussi di denaro con molti zeri.”[6]

Dico per non dire

Ci corre, tuttavia ed a tal proposito, un obbligo di chiarezza o, meglio, l’esigenza di inserire l’intera e drammatica vicenda in uno sfondo il più aderente alla realtà, facendo così leva su una più adeguata chiave interpretativa in grado di far risaltare le dinamiche che contraddistinguono le mirabilie che propina all’intero mondo e quotidianamente il moderno imperialismo. E’ gioco facile, a questo proposito, evidenziare come l’impalcatura ideologica che fa da supporto allo stesso imperialismo, nei fatti, viene confutata dalla realtà contemporanea in quanto insostenibile e totalmente assurda. La presunta superiorità fuori discussione del libero mercato ha avuto modi e tempi per manifestare tutta la sua capacità distruttiva. Ci sarebbero quindi motivi a iosa per una denuncia più articolata ed in profondità, non tanto da parte della stampa mainstream che è legata integralmente agli interessi della classe dominante quanto da parte di certa stampa della cosiddetta “sinistra riformista”. E’ come se in questa, a prevalere ci fosse una certa ritrosia a porre il dovuto accento sulle nuove forme di dominio o su categorie che tanto possono supportare, come il processo di accumulazione del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto, la guerra permanente nonché tutte le conseguenze che ne derivano. E’ come se, in tal modo, si volesse evitare, accuratamente, di risvegliare o ridare nuova plausibilità ad un’alternativa radicale all’attuale ordine delle cose.

Sinistra riformista che, in tutta evidenza, ha tanta paura dell’alternativa comunista, ovverosia dell’unica alternativa in grado di azzerare completamente l’esistenza delle classi e della discriminazione che ne consegue. Si ricorre, a tal fine, a chiavi di lettura che hanno a che vedere più con la psicoanalisi, segnatamente con i sensi di colpa, che non con le dinamiche capitalistiche attuali. Letture o, assai meglio, narrazioni secondo le quali saremmo stati noi, ossia l’insieme dei paesi occidentali, a lasciare che la miseria devastasse tante aree del mondo. Che sull’Occidente, nel senso estensivo del termine, ricada gran parte della responsabilità è fuor di dubbio, tuttavia è l’uso dilatato del “noi” a lasciare perplessi. Quale senso, infatti, possono avere i rimandi agli Stati, ai paesi, alle nazioni nell’analizzare, ad esempio, la crisi che ha accentuato la conflittualità tra gli Stati, la multinazionalizzazione dell’economia, l’attuale guerra permanente mondiale per  il controllo del mercato mondiale delle risorse naturali con relativo lascito di sconvolgimenti territoriali e conseguenti migrazioni? Perché ricorrere a categorie generiche e fuorvianti come Stato, nazione, o, del tutto fuori contesto, come neo-colonialismo?

Per essere più chiari: dobbiamo continuare a gingillarci con gli Stati, siano essi occidentali, orientali o di qualsiasi altra latitudine facendo finta di non accorgersi delle ampie e profonde trasformazioni subite dal moderno imperialismo, o non è forse il caso – così, a tempo perso – di ricordarsi che esistono ancora le classi sociali ed in particolar modo la classe dominante? A migrare chi è? All’esodo forzato chi è costretto? La borghesia siriana, afghana, eritrea, birmana o il proletariato siriano, afghano, eritreo, birmano ?

 

 

Dico per dire, le vere cause della migrazione

Non lascia margini di dubbio come le migrazioni contemporanee abbiano a che vedere con il processo di polarizzazione della ricchezza, a livello planetario, e col conseguente processo di ulteriore impoverimento che va a toccare per lo più aree del Terzo mondo. Si scappa, però, soprattutto dal campionario di orrori per il tramite dei quali questa polarizzazione e questo impoverimento si determinano. Si scappa dalla Somalia (interventi esterni), dal Delta del Niger (dalla presenza infestante delle compagnie petrolifere e dei loro manutengoli governativi), dalla Repubblica del Congo (zona in cui si concentrano enormi interessi e, pertanto dilaniata da decennali guerre tra nazioni contigue e non). Si scappa dal Medio Oriente - segnatamente dalla Siria e dall’Iraq – diventato oramai un immenso campo profughi ma soprattutto una immensa scacchiera su cui le varie potenze, globali o regionali, hanno ripreso, a pieno ritmo, un “ Great Game” di proporzioni ben maggiori e di sicuro ancor più paurose.

Scrivono Marco Omizzolo e Roberto Lessio: ” Tre anni fa il Summit G8 del 2012 proclamava la nascita della Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e la nutrizione. L’accordo faceva leva sulla retorica strumentale e ipocrita dell’aumento della produzione di cibo per salvare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di persone. Il solito slogan usato cinicamente per incentivare forme di speculazione, anche finanziaria, che sembrano aver trovato un nuovo Eldorado nell’accaparramento di terra agricola in Africa, Sud America e Asia…”[7] con successivo ed esplicito riferimento alle multinazionali dell’agro-industria tra cui Yara, Cargill, Monsanto. Riteniamo ci si possa attenere, per esigenze di esemplificazione, alla sola Africa anche se a questo tema è stato dedicato un capolavoro letterario quale “Rulli di tamburo per Rancas” di Manuel Scorza, in cui l’autore racconta di una lotta realmente portata avanti da “communeros” peruviani contro i lavori di recinzione delle terre comuni da parte della multinazionale statunitense “Cerro de Pasco Corporation”.

Il romanzo è del 1970. I fatti raccontati risalgono ai primi anni’60.

E’ passato più di mezzo secolo ma le pratiche della sopraffazione capitalistica rimangono sempre le stesse.

D’altra parte lo stesso sviluppo della rivoluzione industriale non sarebbe stato possibile se non fossero stati varati dal parlamento inglese gli “Enclosureacts” tramite cui alla borghesia britannica era consentito di appropriarsi di terre comuni (common lands) e – conseguentemente – disporre di una gran massa di forza-lavoro (gli ex-contadini espropriati) a basso costo da impiegare nel ciclo produttivo industriale. Una realtà analoga, tratteggiata da Omizzolo e Lessio laddove evidenziano come “ per l’avvio di processi di privatizzazione della terra, in particolare fu prevista la concessione, a imprese multinazionali, delle terre comuni utilizzate da sempre dai villaggi per il sostentamento collettivo della comunità”[8]

Sconvolgere queste produzioni agricole di tipo familiare su piccola scala trasformando un tipo di produzione agricola che garantisce l’80% di cibo verso un sistema di produzione industriale , fa tutt’uno con l’impoverimento e con l’affamamento progressivo e inarrestabile di milioni di individui.

 

C’e’ una soluzione?

Sosteneva Amadeo Bordiga, trattando della questione agraria, che “mai la merce sfamerà l’uomo” significando in tal modo come “ Le necessità alimentari delle collettività umane non saranno mai risolte dal processo di accumulazione del capitale, per quanto possa procedere la tecnica, la composizione organica del capitale, la massa dei prodotti ottenibili dallo stesso tempo di lavoro. Necessariamente al moderno antagonismo di classi sociali corrisponde la formazione di sopraprofitti, il nascere di rendite assolute, l’anarchia e lo sperpero nella produzione sociale. L’equazione capitalismo uguale fame è irrevocabilmente stabilita.”[9]

Così come è altrettanto irrevocabile che il capitalismo non possa dare soluzione ad un fenomeno inarrestabile e incontrollabile che esso stesso, in larghissima parte, contribuisce a produrre.

D’altra parte questo ininterrotto flusso migratorio è funzionale agli interessi dei vari capitalisti in quanto si traduce, in termini assai pratici, in una massa sempre crescente di nuovi schiavi nei cui confronti, sul mercato del lavoro, si eserciterà un notevole potere di ricatto che andrà, allo stesso tempo, a scaricarsi anche sui lavoratori occupati con inevitabili tensioni che sono il frutto avvelenato di una precarietà che oramai è assurta a tratto distintivo dell’attuale società capitalistica.

E’ gioco facile, in tale contesto, il proliferare degli “imprenditori dell’odio”, degli appaltatori dei pregiudizi razziali che, giova ricordare, costituiscono un particolare pregiudizio di classe alimentato ad arte attraverso categorie interpretative imperniate sulla contrapposizione, sulla generalizzazione, la falsificazione, l’amplificazione di bolsi stereotipi, la drammatizzazione - da chi ha tutto l’interesse a che tra i vari settori del proletariato ad essere preminente sia l’intolleranza reciproca.

Ribadire come il nemico contro cui lottare non è l’immigrato, il clandestino, il rifugiato, il popolo degli inesistenti bensì la borghesia internazionale, in tutte le sue sfaccettature e colorazioni, diventa sempre più imprescindibile laddove questa classe oramai antistorica  continua sempre più incessantemente – proprio perché preda delle sue stesse insanabili contraddizioni – nello sfruttamento della forza-lavoro internazionale, nella predazione delle risorse della terra con annesse guerre permanenti, nell’ulteriore impoverimento ed affamamento delle masse diseredate.


[1] Paolo G. Brera: Profughi, la nazione fantasma. La Repubblica 18 giugno 2015

[2] G. Lefebvre: La Rivoluzione francese ed. Einaudi

[3] Idem

[4] G. Acconcia: Erri De Luca “ Attraversare il mare è l’unica scelta “ – Il Manifesto 21 aprile 2015

[5] I. Fasulli: Sbarchi e quote, la doppia mistificazione – Il Manifesto 12 giugno 2015

[6] A. Ziniti: Il tesoro dei trafficanti investito a Dubai – La Repubblica 23 aprile 2015

[7] M. Omizzolo e R. Lessio: La terra rubata – Il Manifesto 10 giugno 2015

[8] idem

[9] A. Bordiga: Mai la merce sfamerà l’uomo – Sul filo del tempo