Il feticismo tecnologico e le politiche attive contro il lavoro.

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Creato: 29 Febbraio 2020 Ultima modifica: 07 Marzo 2020
Scritto da Giorgio Paolucci Visite: 946

Dalla rivista D-M-D' n°13

Solo immaginando il capitalismo che non c’è è possibile conciliare gli attuali processi di automazione con l’esigenza di assicurare una vita dignitosa a tutti. Ci può credere solo l’economista borghese che come Antonio, il fratello usurpatore di Prospero, il duca di Milano di shakespeariana memoria «a forza di raccontare bugie per verità, riduce la sua memoria in tanta fallacia da credere per primo alla propria menzogna».

intelligenza artificialeDato lo sviluppo inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale (AI), sembra ormai inevitabile il trasferimento nel giro di pochi anni della gran parte dei lavori e del lavoro al sistema delle macchine. Sono a rischio sostituzione oltre ai pochi posti di lavoro operaio fin qui risparmiati dalla rivoluzione tecnologica anche camionisti, taxisti, infermieri, medici, ingegneri, analisti finanziari, tecnici informatici, giornalisti, avvocati e perfino, stando a uno studio dell’economista di Harvard Sendhil Mullaianathan,  alcune figure di giudice .[1] Insomma è alle porte una nuova straordinaria  rivoluzione tecnologica.

Per la maggioranza dei politici, degli analisti ed economisti borghesi, il fenomeno, pur con tutte le sue specificità, non si differenzierebbe granché da quanto accaduto nelle precedenti rivoluzioni industriali: alla fine del processo- essi sostengono - le nuove industrie e i nuovi mestieri che nasceranno compenseranno ampiamente quelli perduti con grandi benefici per l’intera società. In definitiva, si ritiene ancora valida la teoria shumpteriana della distruzione creatrice: Il robot come la macchina a vapore o il trattore.  Fra i tanti che la pensano così vi è, per esempio, Enrico Moretti della University of California di Berkeley che scrive: «Nel 1918, esattamente un secolo fa, il 60 per cento della manodopera italiana era impiegata in agricoltura. Oggi in quel settore resta solo il 5 per cento degli occupati. Nuove tecnologie che fanno risparmiare manodopera…hanno decimato l’occupazione nel settore che un secolo fa era quello principale dell’economia italiana. Queste tecnologie permettono ad un numero piccolissimo di operai agricoli di fare oggi il lavoro che milioni di persone facevano a mano un secolo fa… Nei decenni, successivi nuove industrie e nuovi mestieri sono stati creati e hanno assorbito i 13 milioni di persone che altrimenti avrebbero lavorato in agricoltura…. Un ulteriore importante motivo per cui il mercato del lavoro delle economie moderne tende a creare nuova occupazione quando la tecnologia distrugge le vecchie occupazioni è la crescita della domanda dei servizi. Anche quando distruggono posti di lavoro le nuove tecnologie aumentano la produttività del lavoro, e quindi i salari, facendo crescere di conseguenza la domanda di servizi. Negli anni Cinquanta un operaio della General Motors produceva in media sette auto l’anno. Oggi grazie alle nuove tecnologie, ne produce 29. Significa ovviamente che oggi alla General Motors ci sono meno operai che producono auto ma significa anche che quelli rimasti sono più produttivi e ricevono salari più elevati. Questo comporta un aumento della domanda di servizi e quindi nuovi posti di lavoro ma al difuori del settore manifatturiero. L’occupazione nei settori della cultura, dell’intrattenimento, della ristorazione, dell’estetica e del fitness crescono a ritmi molto rapidi».[2]

Di cosa non può la fantasia! Riesce perfino immaginare salari che crescono per effetto dell’automazione mentre i dati descrivono una realtà che va in direzione ostinata e contraria, come direbbe De André.

 Robert Reich ( economista ed ex segretario del lavoro durante la presidenza Clinton) ci informa che proprio negli Usa, dove  è avvenuto lo spostamento più significativo di lavoratori dal settore manifatturiero a quello dei servizi: “Oggi è Walmart il maggior datore di lavoro negli Stati Uniti … Paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part -time, 8.80 dollari l’ora… [nel] 1995 quando il maggiore datore di lavoro era la General Motors… pagava in media i suoi lavoratori l’equivalente di quelli che sarebbero 37 dollari oggi”.[3] E nel settore manifatturiero, nonostante il balzo in avanti della produttività,  il  salario medio orario ammonta a soli  23 dollari, 14 dollari meno di quello del 1995.[4]

Se questo è quanto accaduto finora non si capisce per quale ragione le cose dovrebbero andare diversamente con l’Intelligenza artificiale e l’introduzione della robotica su scala infinitamente più grande.

Il caso cinese

In Cina, scrive Simone Pieranni, citando lo studio dei professori Yu Huang e Naubahar Sharif From ‘Labour Dividend’ to ‘Robot Dividend’: Technological Change and Workers’ Power in South China: “Fino alla crisi finanziaria globale del 2008, la crescita economica […] era radicata saldamente nella sua [della Cina - ndr] massiccia forza lavoro, un “bonus” associato a un relativo aumento dell’età e del tasso di partecipazione della forza lavoro. Tuttavia, la tradizionale modalità di produzione di fascia bassa, ad alta intensità di lavoro e orientata all’esportazione […] ha incontrato un collo di bottiglia a seguito della crisi finanziaria. Nel 2014, l’economia cinese ha registrato una crescita del Pil del 7,4%, il suo tasso di espansione più lento dal 1990. Il Governo e i media hanno iniziato a difendere il bonus robot che ha enfatizzato gli sforzi per utilizzare macchinari e robot automatizzati al posto del lavoro umano. Il premier Li Keqiang, presentando la politica Made in China 2025, ha promesso che il governo avrebbe migliorato l’industria manifatturiera cinese nel giro di un decennio attraverso la produzione intelligente supportata da fabbriche automatizzate e Big Data per sviluppare un settore orientato all’innovazione e a valore aggiunto».[5] Con il risultato – scrive il  Financial Times che : «L’automazione ha sostituito i posti di lavoro fino al 40% dei lavoratori in alcune aziende cinesi negli ultimi tre anni.”[6]

Ma, come dicevamo poc’anzi, per la gran parte degli economisti e dei politici borghesi non c’è ragione di preoccuparsi perché ben presto nasceranno molti più posti di lavoro di quanto le nuove tecnologie ne avranno distrutti. Secondo un recente studio The Future of jobs del World Economic Forum (l’istituto che organizza il vertice annuale di Davos) entro il 2022 saranno creati in tutto il mondo addirittura ben 53 milioni di posti di lavoro in più di quelli che l’A.I. e la robotica distruggeranno.

La tecnologia come feticcio

In realtà, per costoro, non potendo essi neppure immaginare un modo di produzione diverso da quello attuale, ammettere che le cose potrebbero andare diversamente è semplicemente impossibile. Per la gran parte di loro e purtroppo anche dei lavoratori: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”[7].  Per chi ha fatto propria l’idea che il capitalismo sia un evento del tutto naturale e privo di qualsiasi possibile alternativa, la macchina e il progresso tecnico-scientifico di cui è figlia, svolgono di per sé stessi una funzione salvifica per l’intera umanità. Per costoro, infatti, è la macchina, cioè il capitale in essa investito, la fonte da cui scaturisce il valore. Ai loro occhi, la macchina e il progresso tecnico-scientifico si configurano come una sorta di divinità dalla cui venerazione non può che scaturire ricchezza, l’affrancamento dell’uomo dalla fatica fisica e dalla penuria, indipendentemente dalle specificità che caratterizzano ogni singola innovazione tecnologica e dai rapporti di produzione vigenti. Come direbbe Marx: il feticcio della tecnologia. Che si tratti del robot o del trattore, dell’Ai o della macchina di Turing la sostanza non muta: non c’è problema anche economico e sociale che la tecnologia non potrà risolvere. La si santifica e intanto si occulta che il capitalista sostituisce la forza-lavoro con le macchine soltanto se mediante il loro impiego potrà incrementare la produzione del plusvalore e che esse costino meno della forza-lavoro. In realtà, quel che appare essere un dono della macchina è una quota supplementare di plusvalore (plusvalore relativo) che il capitalista ottiene grazie alla riduzione del tempo di lavoro necessario[8] con l’impiego di macchine sempre più performanti e meno costose. Ma la macchina in quanto tale, in quanto capitale costante - ossia capitale che non muta il suo valore attraverso il suo uso - cede alle merci che contribuisce a produrre soltanto il suo valore e neppure una briciola in più. Pertanto il di più che il capitalista ne trae non può che essere lavoro non retribuito.

Ma come per i popoli primitivi un totem incarnava il puro spirito, così nella modernità borghese, la macchina, occultando il furto, diviene essa stessa emblema e incarnazione del valore tout court e come tale anche l’unica fonte della ricchezza. Se poi il suo impiego genera disoccupazione e miseria crescenti, la causa, anzi la colpa, non può che essere del lavoratore: o è un fannullone o rifiuta di stare al passo con il progresso tecnologico e quindi non in grado di svolgere i nuovi e più gratificanti lavori che il progresso tecnico inevitabilmente va creando. Da qui le cosiddette politiche attive del lavoro che prevedono l’assegnazione di un sussidio di mera sopravvivenza a  condizione che il lavoratore disoccupato  frequenti specifici corsi di riqualificazione; non rifiuti più di un certo numero di offerte di lavoro che gli propongono gli appositi centri per l’impiego e si assoggetti a rigorosi e umilianti controlli per verificare che egli non se ne stia - come non ha mancato recentemente  di precisare l’attuale ministro italiano del lavoro Luigi Di Maio -  tutto il giorno sdraiato “sul divano”.

 Le politiche attive del lavoro

 In Europa a battere per prima questa strada è stata la Germania con la prima riforma del sistema degli ammortizzatori sociali e del mercato del lavoro (Agenda 2010) avviata nel 2003 e completata nel 2005 con il varo, da parte del governo guidato dal cancelliere socialdemocratico Gerard Schroder, del famigerato piano Hartz IV,[9] tuttora in vigore.

 Il piano prevede la presa in carico del lavoratore disoccupato da un apposito centro per l’impiego (Job center) che gli eroga un sussidio di circa 400 euro mensili e, se abita in una casa in affitto, un ulteriore contributo di locazione fino a un massimo di 450 euro sempre mensili. Il sussidio non ha limiti di tempo ma cessa se il lavoratore trova un impiego retribuito con un salario pari o maggiore del sussidio e non rifiuti almeno un’offerta di lavoro su tre anche se per poche ore settimanali e per un salario più basso del sussidio (mini-job) che sarà comunque decurtato dal sussidio. La maggior parte dei lavori- dice Robert in un’intervista rilasciata a Il Manifesto – «che trovi con il Job center sono nei supermercati o nella gastronomia, settore in cui ho lavorato per più di un anno, e sono in gran parte mini-Job dai quali prendi massimo 400/450 euro al mese, quindi continui a rimanere dipendente dal Job center perché non ti bastano per coprire tutte le spese. Alcuni si mettono a fare due o tre mini-job contemporaneamente arrivando a lavorare 80 ore a settimana per comporre un uno stipendio completo, ed è allora che ti ammali. Io non vorrei avere un burn out (grave forma di esaurimento per stress da troppo lavoro -n.d.r.) …La mia prima esperienza al Job center -continua Robert- risale a molto tempo fa. Mia madre era una disoccupata quando sono nato. Quando ho compiuto 16 anni hanno iniziato (gli impiegati del Job Center- n.d.r) a chiedere di me. Chiedevano perché ero andato a scuola, cosa stessi facendo; secondo il Job center una persona che proviene da una famiglia di disoccupati dovrebbe iniziare a lavorare il prima possibile. E poi non credevano che andavo a scuola. Dovevo presentarmi ogni sei mesi al Job center e dare prova che frequentavo, portare le pagelle, e soprattutto ogni volta mi veniva chiesto di argomentare il perché, dovevo dire perché andavo ancora a scuola. Dovevo dimostrare che non ero un bugiardo. Loro diranno sempre che sei un bugiardo- partono da questo presupposto. Non importa cosa fai, o quanto ti sottometti, loro ti accuseranno sempre di mentire[10]. Insomma, tutto secondo il motto Furden und Fördern! (Promuovi e Pretendi!) con cui il piano è stato propagandato. Anche in Italia, sta per essere varato un piano simile che molto probabilmente si chiamerà Reddito di cittadinanza. Ma contrariamente a quanto la denominazione lasci sottintendere, non sarà molto diverso da quello tedesco; certamente non sarà il riconoscimento del diritto di ogni cittadino a un reddito che gli consenta -come pronosticava Keynes- di: «impiegare il tempo libero che la scienza … gli [avrà] guadagnato per vivere bene, piacevolmente e con saggezza» ma tanti e tali saranno gli obblighi e le condizioni a cui la sua erogazione pare sia subordinata da configurarsi, come lo ha ben definito Marco Bascetta, un vero e proprio reddito di sudditanza[11], ancor più di quello tedesco.

Si pensi all’obbligo di prestare otto ore settimanali di lavoro non retribuite a favore del comune di residenza; alla sua concessione vincolata all’acquisto solo di beni di prima necessità; alla condanna, fino a sei anni di carcere, per chi non dovesse rispettare le norme previste per la sua erogazione e la perdita in caso di rifiuto da parte del lavoratore di più di un’offerta di lavoro su tre e, comunque, dopo 18 mesi dall’inizio della sua erogazione. Evidentemente è questo il lasso di tempo massimo entro cui si ritiene che, se il lavoratore non ha trovato un nuovo impiego, nonostante i corsi di formazione, è semplicemente perché non l’ha voluto trovare.  Che la causa debba invece ricercarsi nella crescente applicazione delle nuove tecnologie non sfiora neppure l’anticamera del cervello di questi sacerdoti del feticcio tecnologico al servizio della conservazione capitalistica. È stato sempre così e non può essere che così anche con la robotica e l’Intelligenza artificiale.  Eppure, niente di meglio dell’esperienza tedesca dimostra che è vero il contrario.  Dal 2005 a oggi, le nuove tecnologie hanno creato solo posti scarsamente qualificati e scarsamente retribuiti. E se è vero che la disoccupazione nominale non supera il 3,4 per cento, forse la più bassa di sempre, è soltanto perché si considera occupato anche chi è obbligato a lavorare poche ore settimanali e - come abbiamo visto -per qualsiasi salario. Se a quel 3,4 per cento corrispondesse un’effettiva piena occupazione, si sarebbe dovuto registrare un incremento del salario medio e una riduzione della povertà; è accaduto esattamente l’opposto: «Gli working poor (lavoratori poveri n.d.r.) -ci informa ancora il già citato Shendi Veli - sono passati dal 7,1% del 2008 al 9,7 del 2015. Inoltre, le statistiche ufficiali Destatis dicono che un residente su cinque in Germania è a rischio di povertà»[12].

Né potrebbe essere diversamente. Con le nuove tecnologie basate sull’intelligenza artificiale tutti i lavori, e in particolare i nuovi, fatte poche eccezioni, nascono già talmente semplificati da poter essere svolti da chiunque e ovunque si trovi purché conosca i numeri da 1 a 10 e sappia leggere e scrivere e spesso neppure questo.  Amazon, per esempio, ha recentemente brevettato un braccialetto elettronico che guida la mano dell’operaio (picker), come se fosse un semplice braccio meccanico, verso l’oggetto da prelevare dagli scaffali dove sono stivati i prodotti da spedire agli acquirenti on line (En passant: questo è uno dei casi in cui pur essendo già disponibili robot capaci di farlo, non li si impiega perché l’uomo-mano costa di meno). Ma ancor più emblematica del nuovo che avanza è la figura del data tagger.

Il data tagger

Il suo compito consiste nell’: «Etichettare qualsiasi cosa: guardare una foto su uno schermo e apporre manualmente etichette, guardare un video e apporre etichette, ascoltare un audio e apporre etichette. Su qualsiasi cosa: il volto di una persona, una strada, una lunga fila di macchine, panorami e luoghi geografici, animali, tutto.»[13]

Ora, benché si tratti di un lavoro assolutamente necessario per l’elaborazione degli algoritmi alla base di applicazioni quali per esempio il riconoscimento facciale per pagare il conto al ristorante o per fare circolare le auto senza guidatore ecc., potendolo svolgere chiunque, essendovi cioè un’abbondante offerta di lavoro, è scarsamente retribuito.

«In Cina un data tagger, ovvero un lavoratore che pone etichette alle fotografie, video e audio che finiranno fagocitati dalle macchine e dagli algoritmi, può anche elaborare 40 foto al giorno, guadagnando 10 yuan all’ora, circa 1 euro, per uno stipendio mensile totale di 300 euro».[14]

Peraltro, essendo lavori di facilissimo apprendimento, possono esser occupati anche solo occasionalmente e per brevi periodi di tempo e da lavoratori diversi.

Negli Stati Uniti: «Nell’ultimo decennio il celebrato recupero dell’occupazione dagli sprofondi della Grande recessione è avvenuto solo grazie a lavori precari. I 9,4 milioni di nuovi assunti, detto altrimenti, sono tutti, part time, a chiamata, interinali insomma contingent workers. I lavoratori standard, quelli a tempo pieno, sicuri, si sono ridotti di 400.000 unità».[15]

Alla luce di questi dati, appare evidente che le politiche attive del lavoro, benché spacciate come il mezzo che, favorendo il connubio fra sviluppo tecnologico e forza-lavoro, permetterebbe anche ai lavoratori di godere dei frutti delle nuove tecnologie, in realtà servono solo a mantenere il valore del salario medio al livello di quello del sussidio. Che è poi la condizione necessaria per far sì che la perdita di plusvalore conseguente all’espulsione di una quantità crescente di forza-lavoro resa superflua dalla diffusione delle nuove tecnologie sia compensata dal maggiore sfruttamento e dal salario più basso dei lavoratori rimasti. E non si tratta di un fatto transitorio. Nei prossimi anni, grazie all’intelligenza artificiale, ben l’80 per cento degli attuali lavori sarà cancellato o ulteriormente semplificato e svalutato[16] e poiché per ora di nuovi lavori che non siano quelli per pochi supertecnici o il data tagger non vi è traccia neppure nei libri di fantascienza, la modernità tecnologica è destinata a dar luogo a una débâcle economica e sociale senza precedenti.  

Secondo molti economisti, soprattutto di scuola keynesiana, la si potrebbe evitare a condizione che anziché di un reddito di sudditanza si istituisca un: «reddito attribuito su base universale e incondizionato da parte di un’autorità pubblica a tutti i cittadini di una determinata comunità politica, diretto a garantire le basi di un’esistenza libera e dignitosa».[17] Sarebbe effettivamente una soluzione: finalmente la tecnica al servizio dell’uomo! Se non fosse che nella società capitalistica tutta l’attività produttiva, quale conditio sine qua non per la valorizzazione del capitale, è finalizzata alla produzione del plusvalore per mezzo dello sfruttamento del lavoro vivo. Se questa produzione viene meno (come sarebbe nel caso che tutto il lavoro venisse svolto da sole macchine) o anche solo si riduce in maniera significativa, anche la produzione della ricchezza reale non ha ragion d’essere. Solo immaginando il capitalismo che non c’è è possibile conciliare gli attuali processi di automazione con l’esigenza di assicurare una vita dignitosa e piacevole a tutti i cittadini, che lavorino o meno. È lapalissiano ma all’economista borghese accade come ad Antonio, il fratello usurpatore di Prospero, il duca di Milano di shakespeariana memoria, che: «a forza di raccontare bugie per verità, riduce la sua memoria in tanta fallacia da credere per primo alla propria menzogna».[18]

 A tal punto da vedere nel capitalista che detiene il fuoco prometeico della tecnica, ossia i mezzi di produzione, non uno sfruttatore ma l’incarnazione del buon samaritano nonostante egli, affamando milioni di essere umani, continui ad accumulare ricchezze di grandezza inestimabile.

[1] Cfr: Enrico Moretti - Il robot in fabbrica non deve far paura. Più lavoro se cresce la produttività – La Repubblica del 12 febbraio 2018. 

[2] Ib. 

[3] Cit. tratta da: Alan Friedman - Questa non è l’America – Ed. New Compton – pag. 69.

Fonte: https://www.truenumbers.it/stipendi-usa/pp.

[5] Simone Pieranni – Intelligenza artificiale e Robot: le nuove sfide per i lavoratori cinesi -Il Manifesto dell’ 1.9.2018.

[6] Ib.

[7] Mark Fisher – Realismo Capitalista – Ed. Nero - pag. 25.

[8]  Il tempo di lavoro necessario è quella parte della giornata lavorativa che il lavoratore impiega per produrre una quantità di merci di valore pari al valore del suo salario. Il plusvalore è pari all’equivalente del valore delle merci che il lavoratore produce nel corso della giornata lavorativa oltre il tempo di valore necessario.

[9] Da Peter Hartz, allora ’amministratore delegato della Wokswagen, posto a capo dell’apposita commissione di elaborare la riforma .in tutte le sue articolazioni ( Hartz I, II, III e Hartz IV.

[10] Shendi Veli – Reddito di precarietà, Il lato oscuro del modello tedesco – Il Manifesto del 31.10.2018.

[11] M. Bascetta – No all’autoritarismo del «reddito di sudditanza» – Il manifesto del 13.10.2018.

[12] Art. cit.

[13] S. Pieranni – Cina, le catene dell’Intelligenza artificiale – Il manifesto dell’11. 10 2018.

[14] Ib.

[15] Riccardo Staglianò – Lavoretti - G. Einaudi editore ,2018 – pag. 10

[16] Maurizio Blondet – Il momento coyote del capitalismo - https://www.google.it/search?q=il+coyote+moment+del+capitalismo&rlz=1C1GCEA_enIT789IT791&oq=il+coyote&aqs=chrome.0.69i59j69i57j0l4.5723j0j8&sourceid=chrome&ie=UTF-8.

[17] G. Bronzini – Il diritto a un reddito di cittadinanza – edizioni Gruppoabele , 2017, pag. 155

[18] William Shakespeare Teatro – La Tempesta – Atto primo, seconda scena – vol. III Einaudi Editore, 1960.