Hong Kong: prove tecniche di invasione

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Categoria: Asia
Creato: 14 Giugno 2020 Ultima modifica: 14 Giugno 2020
Scritto da Gaetano Fontana Visite: 1400

hongkongEsuberante ed esotica, ricca e misteriosa, come la definiva Tiziano Terzani, Hong Kong anche in tempi di quarantena vive momenti di turbolenze e manifestazioni di piazza. Neanche il lockdown imposto dal coronavirus ha fermato migliaia di giovani, scesi in piazza per contestare una legge sulla sicurezza che il governo di Pechino cerca di imporre, smentendo se stesso e gli accordi sottoscritti con il governo britannico alla fine degli anni Novanta, durante le trattative per il passaggio della regione sotto la sovranità cinese.

Da villaggio di pescatori, il “Porto profumato” (questo il significato di Hong Kong) a metà Ottocento diventa un importante crocevia commerciale, di particolare interesse per il governo britannico, che concentra sul delta del Fiume delle Perle il proprio interesse. Nel 1842 il trattato di Nanchino decreta il passaggio e la cessione permanente di Hong Kong alla Gran Bretagna. Durante la rivolta di Taipin, combattuta sotto la dinastia Qing, tra il 1851 ed il 1864, Hong Kong diventa meta di mercanti fuggiti dall’Impero del Centro, contribuendo fortemente allo sviluppo di uno snodo commerciale tra il Sud-Est asiatico e le Americhe. La Corona Britannica istituisce un governatorato con un consiglio esecutivo e uno legislativo: è il governatore a disporre di esercito e di forze di polizia, senza alcuna ingerenza cinese. Durante la seconda guerra sino-giapponese, combattuta tra il 1937 ed il 1945, Hong Kong diventa un porto di rifugio e di accesso dell’occidente verso la Cina, fino all’occupazione giapponese del 1941. Alla fine della Seconda guerra mondiale Hong Kong ritorna sotto il controllo britannico.

Dall’1 Luglio 1997, con una grande cerimonia che vede la presenza di Carlo d’Inghilterra e di Tony Blair insieme a Jiang Zemin, gli hongkonghesi non sono più sudditi di Sua Maestà britannica, ma della Repubblica Popolare Cinese, con relativo insediamento dell’Esercito Popolare di Liberazione.

Nonostante le ridotte dimensioni, il Porto Profumato alla fine degli anni Novanta è la seconda regione al mondo per PIL pro capite e la settima per riserve valutarie.

Tutto sembra procedere regolarmente verso la realizzazione del progetto “un Paese due Sistemi” (in realtà anche il sistema è unico ed è quello capitalistico), fino al 10 luglio 2003.

Forse in pochi se ne ricordano, ma questa data, cruciale per i rapporti tra Hong Kong ed il governo centrale, segna uno spartiacque rispetto ai rapporti futuri. A seguito di un disegno di legge antisovversione, proposto per modificare ed impedire le manifestazioni, nonostante la diffusione della Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), scendono  in strada 500.000 manifestanti. La manifestazione più imponente dopo quella di Tienanmen del 1989 fa fare retromarcia al governo di Pechino, che per la prima volta ritira un provvedimento, per eventualmente reintrodurlo solo dopo consultazione popolare.

Quale partita si gioca in questo lembo di terra?

Il capitale finanziario cinese si articola sulle direttrici Pechino (Centro politico), Shangai (capitale commerciale e borsa valori interna), Shenzhen e Hong Kong.

L’importanza strategica di Hong Kong è quella di essere una piazza finanziaria offshore, che funge così, grazie alla sua extraterritorialità, da collettore con le borse internazionali.

Mentre il listino della borsa di Shangai è principalmente  formato da  piccole e medie aziende, rivolte prevalentemente al mercato interno, la borsa di Hong Kong è orientata su grandi aziende estere, in un settore strategico quale il terziario (banche, tecnologie informatiche). Con la legge del 1990 ("Un Paese due Sistemi"), Pechino si impegna espressamente a mantenere Hong Kong centro finanziario internazionale, assicurando un sistema legislativo trasparente, in linea con gli standard internazionali.

Oggi Hong Kong rimane una delle principali piazze finanziarie a livello  mondiale. 

«Tra il 2010 e il 2018 alla sua borsa sono stati effettuati il 73% delle quotazioni azionarie, il 60% delle emissioni obbligazionarie e il 26% dei prestiti sindacati di aziende cinesi rivolte a investitori esteri. Nello stesso periodo, il 64% dell’investimento diretto estero verso la Cina e il 65% di quello cinese verso l’estero sono transitati da Hong Kong»[1].

Dal 2010 le grandi banche statali cinesi hanno triplicato la loro capitalizzazione, e buona parte di queste banche ha una presenza importante ad Hong Kong. Tutto questo fa del Porto Profumato un centro di assoluta importanza internazionale.

Ma l’America non sta a guardare

Da oltre dieci anni» con Obama prima e con Trump dopo, gli Stati Uniti non fanno mistero di una certa insofferenza nei confronti del Regno di Mezzo. L’obiettivo, piuttosto evidente, è di impedire che la Cina metta in ombra la leadership americana, mai come in questo momento in forte crisi identitaria, con lo scoppio della pandemia da Coronavirus che non ha fatto altro che accelerare questo processo.

La guerra dei dazi che Trump ha intrapreso nel 2018 è destinata ad inasprirsi, così come è destinato ad inasprirsi lo scontro per l’egemonia in Asia.

Gli Stati Uniti, detentori della moneta di riserva mondiale, negli anni strutturano un forte deficit commerciale con la Cina, che produce merci a costi ipercompetitivi, grazie ai quali la classe media americana ha finora potuto continuare a consumare, alimentando in tal modo la crescita dello stesso Pil americano.

D’altra parte, questo meccanismo consente alla società cinese forti investimenti infrastrutturali, e l’acquisto del debito pubblico statunitense.

Il tutto entra in crisi con lo choc finanziario del 2008, che non solo manda sul lastrico buona parte della classe media americana, ma palesa altresì la colossale insostenibilità del debito pubblico americano.

Da quando l’amministrazione statunitense ha iniziato la guerra dei dazi con la Cina, quest'ultima ha iniziato gradualmente, ma costantemente, a concentrare la propria economia sui consumi interni.

«Tra il 2017 e il 2019, il valore complessivo del commercio Cina-Usa si è contratto da 630 a 560 miliardi di dollari. Al contempo, il consumo interno cinese saliva: dal 2015 in poi (salvo rare parentesi) esso ha generato oltre il 60% del pil, più’ del 75% nell’ultimo triennio. L’inversione è massiccia: nel 2008, vigilia della grande recessione, l’avanzo commerciale cinese eccedeva l’8% del PIL; oggi supera di poco l’1%»[2].

Ma a produrre le maggiori tensioni fra i due poli imperialistici è la quantità di debito pubblico americano detenuto ancora dalle banche cinesi. Infatti, nonostante gli sforzi di sganciamento degli investitori cinesi, esso ammonta ancora a 1.300 miliardi di dollari, pari a 1/6 del debito totale.

Vista l’importanza della posta in palio, gli Usa sono sempre più determinati a spingere il confronto-scontro con i loro avversari strategici fino alle estreme conseguenze? Non pensiamo che siamo alla immediata vigilia di uno scontro militare diretto tra le due superpotenze imperialistiche; intanto l’attenzione si concentra in quella che sembra l’area più vulnerabile dell’impero cinese, appunto Hong Kong.

Già attenzionato dall’amministrazione americana, il Porto Profumato era stato esentato dalle sanzioni americane grazie all'U.S. Hong Kong policy Act, un trattato di libero scambio del 1992, che ancorava il dollaro locale a quello americano.

Tutto questo faceva in modo che, mentre nel 2019 nella Repubblica Popolare il danno provocato dal blocco dei dazi si calcolava in 60 miliardi di dollari annui, Hong Kong, così come auspicavano gli americani, acquisiva notevole rilevanza.

Del resto le restrizioni e i sacrifici per far accrescere l’Impero centrale poco si addicono al popolo hongkonhese, piuttosto incline alla cultura anglosassone, e che dunque sente poco il vincolo patriottico con l'imperialismo cinese. Già nel 2014 gli hongkonhesi si sono resi protagonisti della cosiddetta rivolta degli ombrelli, per reclamare il suffragio universale. Ma se in quest’occasione la situazione rientra abbastanza agevolmente, il quadro cambia quando,  nel 2019, la governatrice Carrie Lam prova a introdurre una legge per far estradare i latitanti verso la Cina.

L’occasione diventa propizia per far scendere in piazza milioni di cittadini, per manifestare prima contro la riforma Lam, e quindi per rivendicare ancora il suffragio universale. Probabilmente in tutto questo non c’è lo zampino della Cia, ma Washington cavalca sapientemente le proteste, intimando il governo di Pechino di trattare con umanità i rivoltosi (dopo l’omicidio di George Floyd, è il caso di dire: da quale pulpito viene la predica!).

Ma ricondurre le motivazioni delle rivolte al solo carattere riottoso degli hongkonghesi sarebbe fuorviante. Di fatto queste hanno radici più profonde.

Secondo i dati diffusi dalla Banca mondiale, il reddito nazionale lordo nel 2018 era di 50.130 dollari, e l’aspettativa di vita nel 2017 era di 84,7 anni, in virtù di un servizio sanitario che si presenta di tutto rispetto.

Ma non è tutto oro ciò che luccica.

Secondo il World Happines Report delle Nazioni Unite, nel 2019 Hong Kong si colloca al 76° posto nella classifica della qualità della vita, tenendo conto di benessere economico, distribuzione della ricchezza e disuguaglianza tra la popolazione. Ma con questi parametri come spiegare tanta insofferenza?

Hong Kong ha un mercato immobiliare tra i più cari del mondo, che si traduce in uno spazio abitativo pro-capite di 15 metri quadrati: un po' come vivere abitualmente in un camper. Acquistare un mini-appartamento in queste condizioni è un lusso insostenibile dai più.

Con una popolazione cresciuta da 600 mila persone della seconda metà del secolo scorso ai sette milioni e mezzo attuali, il mercato immobiliare ha subito negli anni una notevole impennata, tale incremento abitativo si innesca sui costi elevati (dovuti al poco spazio edificabile) dei terreni che raggiunge mediamente il 60/70% della proprietà immobiliare. A trarne benefici i soliti noti oligarchi immobiliari.

L’altro elemento che rende alquanto difficile vivere ad Hong Kong è la distribuzione della ricchezza. Una piazza finanziaria tanto importante si guarda bene dal tassare i redditi da dividendi, creando però l’evidente disuguaglianza tra chi è costretto ad abitare in loculi angusti e gli ultraricchi speculatori, che possono così condurre una vita da paese di Bengòdi. Viviamo l’epoca in cui dominano le forme più avanzate di produzione di capitale fittizio, che per loro natura non tollerano alcuna forma di redistribuzione del reddito, ed Hong Kong è una delle punte di diamante di tale scenario capitalistico, in cui sono esasperate queste forme violente di appropriazione parassitarie.

Nella sorta di clima da guerra fredda tra Cina e USA, il riacutizzarsi delle tensioni a Hong Kong diventa un ulteriore pretesto per inasprire le misure da parte dell’amministrazione americana nei confronti della Cina. E’ di questi giorni la minaccia americana di sospendere tutti i voli da e per la Cina continentale a partire dal 16 Giugno 2020, affermando che Pechino non ha approvato la ripresa dei voli delle compagnie statunitensi.

L’America ormai apertamente dichiara di cambiare le relazioni economiche con Hong Kong, suscitando la reazione cinese a difesa della propria zona di influenza, tanto da indurre Pechino a diramare il seguente messaggio: «la Cina supporterà la Regione amministrativa speciale di Hong Kong nel mantenere la propria zona tariffaria indipendente e nel consolidare e rafforzare la sua posizione di centro finanziario, commerciale e marittimo internazionale»[3].

 

Il caso Hong Kong va oltre lo schema “Un paese due sistemi”

Il progetto cinese della Nuova Via della Seta, voluto fortemente da Xi Jinping, mira a espandere la supremazia economica cinese e ridare all’Impero di Centro un ruolo di primo piano nel panorama internazionale. L’arrivo del coronavirus ha dato una ulteriore occasione alla Cina per dimostrare che il mondo ha bisogno del suo protagonismo nello scacchiere internazionale, con l’invio di forniture e personale sanitario in piena pandemia che ha svolto un ruolo strategico nella nuova percezione del Paese.

Per anni, la domanda è stata se l’impero americano e quello cinese potessero convivere insieme; la crisi sanitaria scaturita dal coronavirus, e le posizioni assunte dalle parti, non lascia dubbi: questa crisi epocale, a causa delle dinamiche imperialistiche innescate, è destinata ad acuire lo scontro tra i due paesi per il dominio del mondo.

Il 15 febbraio scorso, il Ministro della difesa statunitense Mark Esper dichiarava: “gli Stati Uniti devono concentrarsi maggiormente sulle guerre ad alta intensità in corso, e la nostra principale sfida di lungo termine è la Cina”[4]. In tutta risposta, Pechino, in un articolo apparso sulla versione inglese del Quotidiano del Popolo del 23 marzo 2020, consiglia gli americani a di «mettere da parte arroganza e pregiudizi, per esaminare e affrontare seriamente le proprie questioni umanitarie»[5].

La crisi che la Cina sta attraversando a Hong Kong, quindi, non è solo un fatto locale.

La strategia statunitense nel conflitto interimperialistico con la Cina vede nelle proteste dell’ex colonia britannica un’occasione per trasformare una crisi commerciale in crisi strategica, da qui l’invito dei leader della rivolta al Campidoglio.

Si delinea sempre più chiaramente la spirale nella quale il sistema capitalistico ha fatto precipitare l’umanità: la guerra imperialistica permanente.

[1] I dati sono tratti dall’articolo “Hong Kong, una Cina in bilico. Perché la borsa di Hong Kong è vitale per la Cina” di Fabrizio Maronta pubblicato sul numero 9/2019 di Limes a pagina 136.

[2] I dati sono citati da Fabrizio Maronta nell’articolo “Hai detto deglobalizzazione? Alti costi e incerti effetti del “divorzio” fra Usa e Cina” pubblicato sul numero 3/2020 di Limes.

[3] Dichiarazione resa dal ministero del commercio cinese lo scorso 4 giugno 2020 e disponibile al seguente sito https://www.agenzianova.com/a/5ed9fb5c9c6364.96801051/2966859/2020-06-04/cina-ministero-commercio-assicura-che-hong-kong-manterra-zona-tariffaria-indipendente/linked.

[4] Vedi l’articolo di Jacob L. Shapiro “La Cina presenta agli Usa il conto della Globalizzazione” apparso sul n. 3/2020 della rivista Limes.

[5] Vedi versione inglese del Quotidiano del Popolo del 23 marzo 2020.