Un nuovo centro imperialistico si afferma in Oriente

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Categoria: Asia
Creato: 05 Ottobre 2017 Ultima modifica: 16 Novembre 2017
Scritto da Carmelo GERMANA' Visite: 3801

Dalla rivista D-M-D' n°11

La Cina, ooriente impramai, non è più solamente un luogo dove decentrare le imprese per produrre a basso costo. Il gigante asiatico a tutti gli effetti è un grande paese imperialista destinato nel futuro prossimo a diventare la prima economia mondiale. Intorno a esso e ai suoi progetti si coagulano tanti paesi diversi, ma soprattutto una potenza energetica come la Russia e forse una nazione dalla forza industriale come la Germania.

L'ago della bilancia dell'imperialismo planetario va spostandosi, lentamente, ma inesorabilmente, verso l'Asia. La parte principale di questo sconvolgimento epocale vede come protagonista la Cina, la quale in forza della sua straordinaria ascesa economica realizzata in pochi decenni che le ha permesso di attestarsi a seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti d’America, dispiega un iper dinamismo a tutto campo negli affari e in politica tanto da rappresentare il perfetto prototipo della globalizzazione capitalistica. Un centro di gravità quello cinese che se dovesse consolidarsi in un comune indirizzo politico/strategico insieme a Russia e Germania, malgrado le ambiguità di quest’ultima dovute, probabilmente, a tutta una serie di circostanze pratiche e storiche, rappresenterebbe certamente un potente polo di attrazione per i paesi del continente euroasitico e non solo.

Lo scenario che si va delineando viene giudicato dalla pubblicistica borghese, quella non strettamente legata agli interessi americani, positivamente perché un mondo multipolare è preferibile alla volontà di dominio di un’unica superpotenza. In astratto potrebbe sembrare un ragionamento logico che individua nella tendenza al riequilibrio delle forze in campo la possibilità di attenuazione delle crescenti tensioni a livello internazionale. Nella sostanza , invece, è molto più probabile pensare che stiamo assistendo ad un primo enuclearsi di blocchi imperialistici contrapposti, con tutte le  conseguenze del caso che questo potrebbe comportare, cioè il pericolo potenziale di una crescendo verso un conflitto armato generalizzato che prenderebbe il posto della miriade di guerre locali sparse per il globo, con conseguenze inimmaginabili per la vita su questo pianeta. Naturalmente tutte le combinazioni sono ancora in divenire, per esempio la Germania è consapevole che i suoi affari guardano sempre più a est, ma allo stesso tempo mantiene sempre forti legami diplomatici e militari con gli Stati Uniti e non si tira indietro quando deve polemizzare con i russi a riguardo della loro politica estera. Allo stato attuale è possibile estrapolare con buona approssimazione due campi imperialistici contrapposti: Gli Usa, da una parte, Cina e Russia, dall’altra.

La crisi sistemica del capitalismo a partire dagli anni settanta del secolo scorso è alla base degli sconvolgimenti dell’ordine interimperialistico determinatosi con la fine del secondo conflitto mondiale. Il crollo dell’impero sovietico prima e le difficoltà crescenti dei paesi a capitalismo maturo dopo, sono le premesse della cosiddetta globalizzazione, ovvero di una accelerazione dell’intrinseco processo di internazionalizzazione del capitale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: conflitti e povertà in costante aumento, mentre si allargano le ostilità tra i briganti imperialisti.

L’ascesa formidabile della Cina sta dando nuovo vigore al processo di accumulazione per quanto riguarda il capitale, o quanto meno ne ostacola la deriva. All’asfittico occidente la globalizzazione, voluta dal grande capitale rappresentato dalle multinazionali e dalla finanza, ha permesso di recuperare profittabilità degli investimenti attraverso la delocalizzazione delle imprese, ma nello stesso momento la contraddittorietà di tale dinamica è stata determinante nel fare emergere un potente concorrente come la Cina. Nella realtà odierna il Celeste Impero per forza economica, per densità di popolazione, perché occupa una posizione preminente nel continente asiatico, nel quale risiede il 60% della popolazione mondiale, fa paura alle tradizionali potenze capitalistiche, in primo luogo a quella americana.

Il grande progetto della Cina è quello di collegare sotto la propria regia, ma allo stesso tempo cercando di includere quanti più paesi possibile, l’estremo oriente all’Europa occidentale. Tale disegno va sotto il nome di “Nuova Via della Seta”, riprendendo il nome della leggendaria rete carovaniera che fu per tanti secoli strumento di scambi commerciali e di idee tra oriente e occidente.

La Cina in quanto fabbrica del mondo ha tutto l’interesse a promuovere vie di comunicazione moderne per facilitare e velocizzare la circolazione delle merci, operazione che le permetterebbe, quale maggiore finanziatrice del progetto, di accrescere la propria influenza e il proprio prestigio a livello internazionale. A tale scopo avere come partner dei giganti come Russia e Germania sarebbe fondamentale per Pechino. La Russia perché è ricchissima di materie prime, a cominciare da gas e petrolio, oltre ad essere una grande potenza militare; la Germania in quanto è tra i primi paesi al mondo dal punto di vista del know-how tecnologico. Denaro, armi, tecnologia, un mix formidabile e per il momento senza rivali se un blocco imperialistico del genere si concretizzasse.

Grandi progetti economici e mire espansionistiche di Pechino

L’imponente progetto della Nuova Via della Seta coinvolgerà in un primo momento 18 paesi e prevede due diversi percorsi: uno terrestre  e l’altro marittimo. La via terrestre è costituita da una moderna linea ferroviaria, che dall’Oceano Pacifico arriverà sino al Mare del Nord in Europa, cartina1

attraversando L’Asia centrale e proseguendo verso l’Iran, Iraq, Siria, Turchia. Il tragitto prevede anche una miriade di collegamenti autostradali e di nuove linee aeree. Lungo il percorso della strada ferrata vi saranno numerose divaricazioni che condurranno a Mosca e verso altre destinazioni russe, altre diramazioni andranno nei Balcani e nel Sud Europa come Grecia e Italia. Nelle intenzioni dei cinesi c’è la massima apertura a ulteriori collegamenti nel corso del tempo, una delle ipotesi tra le tante riguarda il Sud-est asiatico. In ogni caso la linea principale sarà lunga 13 mila chilometri e va dalla città di Xi’an nella Cina orientale a Rotterdam. I tempi di trasporto delle merci dalla Cina alla Germania si ridurranno da 45 a 18 giorni. Attualmente un corridoio economico è già stato realizzato tra Cina e Kazakistan, il quale si allaccia anche alla ferrovia transiberiana.

Per quanto riguarda la Nuova Via della Seta marittima il progetto ha uno scopo sostanzialmente logistico e di approvvigionamento di materie prime e combustibile, oltre all’esportazione di merci finite e più in generale alla commercializzazione dei prodotti. Il collegamento partirà da Quanzhou con scalo nei principali porti cinesi quali Hong Kong e Canton, proseguirà per lo stretto di Malacca a Singapore, quindi Sri Lanka, India, per poi raggiungere l’Africa in Kenya e, attraverso il Maro Rosso e il Canale di Suez, arrivare nel Mediterraneo con scalo ad Atene e infine a Venezia.

La strategia a tutto campo messa in atto dalla Cina ha lo scopo di scalzare l’egemonia americana a livello mondiale. E’ una partita molto pericolosa tra la vecchia potenza in affanno, ma sempre indiscutibilmente dominante sul piano militare, contro una nazione emergente che sprigiona una impetuosa energia e che si propone come nuova locomotiva economico internazionale per dare ossigeno al traballante capitalismo in crisi. Tutto questo farcito da allettanti promesse di sviluppo e guadagni per tutti coloro che aderiscono all’iniziativa. Una intelligente politica del leader cinese Xi Jinping e del suo seguito volta a dare un’immagine tranquillizzante di collaborazione pacifica e culturale tra gli Stati. Intravvedendo spiragli di contrasto alla stagnazione economica e sociale, non casualmente i principali paesi europei hanno aderito alla proposta cinese, così come non è un caso che gli Usa, molto allarmati da questo andazzo, cominciano a ricevere dei no dai loro alleati a proposte miranti alla conservazione del loro incontrastato dominio. Ne è un esempio il trattato di liberalizzazione del commercio mondiale TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) tra Europa e Stati Uniti finito nel nulla, almeno per ora, ma con molte probabilità di conferma, rifiuto che ha impedito agli europei di farsi mettere il cappio al collo dagli americani.

Trovare nuove alternative di investimento è diventata da molto tempo una priorità per i cinesi. La loro connessione col debito pubblico statunitense, la Cina ha in portafoglio 1200 miliardi di dollari in titoli di Stato ed è il primo creditore mondiale, è un abito troppo stretto per la dirigenza cinese le cui intenzioni puntano al ribilanciamento di una situazione che potrebbe trasformarsi in una sorta di dipendenza, se non di vero e proprio ricatto nel caso le circostanze si mettessero male. Per lo stesso motivo Pechino vuole contrastare il primato del dollaro, a cui in tutti questi anni ha contribuito a sostenerne la forza, suo malgrado, dato che la contropartita alle proprie merci continua a essere una montagna di carta priva di valore stampata dalla Federal Reserve: “la Cina vuole liberarsi e riparare l’errore colossale di questi ultimi 20 anni, quando la produzione di grandi volumi di varie merci veniva scambiata con biglietti verdi basati sul nulla ... A questo scopo fu creata la Banca asiatica per gli investimenti per le infrastrutture (AIIB) nel 2015, che gradualmente si sbarazzerà del dollaro, guadagnando posizione verso i Paesi beneficiari dei prestiti, trasferendoli in yuan.”1

La contraddittorietà delle relazioni tra i vari briganti imperialisti si evidenzia quando le opportunità di business attirano gli appetiti e le carte si rimescolano, allora ognuno guarda i propri interessi e gli amici di prima diventano nemici e viceversa. Molti alleati di Washington, tra cui Regno Unito, Francia e Italia sono stati attratti dalle grandi opportunità offerte dall’AIIB e vi hanno aderito. La faccenda sicuramente non ha fatto piacere alla Casa Bianca dato che la Banca Asiatica si pone in netto contrasto con la Banca Mondiale e con la Banca Asiatica di Sviluppo (AsDB) guidate da Stati Uniti e Giappone.

Gas, petrolio e guerra valutaria nello scontro interimperialistico

Nel novembre dello scorso anno lo yuan cinese è entrato di diritto nel gruppo scelto delle monete del Fondo Monetario Internazionale, il DSP (Diritto Speciale di Prelievo). Un primo passo importane, ma sicuramente non l’ultimo, ben altre sono le aspettative del colosso asiatico. Nella prospettiva di contrastare il potere del dollaro Cina e Russia hanno deciso congiuntamente di adottare una strategia comune concernente alcune materie prime di particolare importanza. Le sanzioni economiche di Bruxelles e Washington contro la Russia dopo la crisi in Ucraina a cui è seguita l’occupazione della Crimea nel 2014, hanno avuto la conseguenza di rafforzare la collaborazione tra Pechino e Mosca. La Russia è diventata la prima fornitrice di petrolio della Cina scalzando l’Arabia Saudita. L’orientamento dei flussi petroliferi si è spostato a oriente mettendo in difficoltà, se non emarginato, le compagnie occidentali. I due paesi, inoltre, hanno varato un piano strategico per implementare gli affari nel settore progettando la costruzione di gasdotti, oleodotti, raffinerie, impianti petrolchimici di grandi dimensioni a conduzione comune.

L’alleanza energetica russo-cinese ha introdotto un fatto di enorme portata, dalla metà del 2015 la Cina compra il petrolio dalla Russia pagando in yuan e non in dollari, per cui è possibile che, prima o poi, anche altri paesi produttori di greggio facciano la stessa cosa, l’Iran ne è un esempio visto che minaccia di svincolarsi dal dollaro e vendere il proprio petrolio in euro: “L’ostilità dei capi di Stati Uniti ed Unione Europea verso il governo di Vladimir Putin ha precipitato il rafforzamento dell’alleanza energetica russo-cinese, che a sua volta non fa altro che aumentare la preponderanza orientale sul mercato mondiale del petrolio. La grande scommessa di Mosca e Pechino è il petroyuan, strumento di pagamento dal carattere strategico che avanzerà la sfida per porre fine al predominio del dollaro nel determinare i prezzi dell’oro nero.”2

La posta in gioco è altissima, le conseguenze di una guerra valutaria potrebbero essere molto gravi nello scontro interimperialistico. In gioco ci sono interessi economici fondamentali, legare la propria moneta alle più importanti materie prime significa essere punto di riferimento degli scambi internazionali e del sistema finanziario, esercitare un vassallaggio che permette allo Stato che stampa quella carta moneta di rastrellare plusvalore oltre i propri confini.3

Il debito pubblico statunitense ammonta a 19 trilioni di dollari, dal 1970 a oggi i dollari in circolazione nel mondo sono aumentati di oltre il 3000%, mentre il 64% delle riserve delle banche centrali sono ancora in dollari: “La stampa dei dollari è fuori controllo. Dal 2015 la Cina si muove in modo deciso per sostituire Londra e New York e altre piazze occidentali che decidono il prezzo di scambio dell’oro. La Cina, insieme alla Russia, compie grandi passi per sostenere la propria valuta con l’oro rendendola buona come l’oro, mentre le valute gonfiate dal debito come l’euro o la zona del dollaro in bancarotta, s’arrabattono.”4

Per rafforzare il disegno di dedollarizzazione del mondo Cina e Russia stanno giocando una partita stringente sul fronte dell’oro. Accumulare il metallo nobile comprandolo ovunque sia possibile e pagando con obbligazioni e petrodollari statunitensi vuol dire, da una parte, garantire le loro valute rublo e yuan, dall’altra sbarazzarsi di carta moneta priva di copertura e di valore reale, imposta alla circolazione dalla muscolosità della super potenza, ancorché in declino, ma pur sempre la numero uno al mondo: “La Cina è chiaramente volta a ricreare un gold standard internazionale, presumibilmente non basato sulla bancarotta dello scambio dollaro-oro di Bretton Woods che il presidente Richard Nixon chiuse unilateralmente nell’agosto 1971 dicendo al mondo che avrebbe dovuto ingoiare dollari cartacei in futuro e che non poteva più utilizzare l’oro.”5

Sebbene Stati Uniti e Unione Europea hanno le maggiori riserve auree nei loro forzieri (anche se molti sospettano che gli americani dissimulano la verità e che dispongano di una minima parte delle 8133 tonnellate dichiarate) Cina e Russia sono i paesi che di gran lunga in questi ultimi anni hanno fatto incetta del prezioso metallo. Va ricordato, inoltre, che la Russia ha tra le più grandi miniere d’oro al mondo in Siberia, oltre a essere tra i maggiori produttori, tanto da dovere contingentare la produzione in base all’andamento del mercato per non fare precipitare i prezzi.

Lo scorso anno la Cina ha istituito un fondo statale di investimento in oro con uno stanziamento iniziale di 16 miliardi di dollari. L’obiettivo è di sviluppare i progetti di estrazione dell’oro lungo La Nuova Via della Seta: “Nel maggio 2015, la Shanghai Gold Exchange della Cina istituiva formalmente il “Fondo d’Oro della Via della Seta”. I due investitori principali del nuovo fondo sono le due maggiori società di estrazione dell’oro cinesi, Shandong Gold Group, che ha acquistato il 35% delle azioni, e Shaanxi Gold Group, con il 25 %. Il fondo investirà nei progetti auriferi lungo le ferrovie eurasiatiche della Via della Seta, anche nelle vaste regioni inesplorate della Federazione Russa. Un fatto poco noto è che non è più il Sudafrica il re dell’oro. È un mero numero 7 nella produzione annua di oro. La Cina è il numero uno e il numero due è la Russia.”6

In sostanza pur non essendo in presenza di qualcosa di simile agli accordi di Bretton Woods, oggi improponibili, siamo di fronte a un altro considerevole tassello che va nella direzione di rafforzare la solidità dello yuan nei confronti del dollaro.7 La Cina vuole essere una delle piazze di riferimento per fissare il prezzo dell’oro e della sua compravendita, quindi ridimensionare questo potere oggi per l’80% nelle mani di New York e Londra. Un motivo in più di intensificazione delle tensioni tra le varie potenze.

La Russia di Putin, ovvero il neo capitalismo di Stato

Se la Cina è la potenza emergente, la Russia è il suo socio d’affari e un solido alleato che sta cercando di risalire dal baratro in cui era precipitato. Oggi Mosca è il perno principale della   Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) nata nel dicembre del 1991 dalle macerie dell’Unione Sovietica. Le vicende travagliate della Federazione Russa l’hanno retrocessa di rango dalla condizione precedente di superpotenza e costretta a giocare, per lungo tempo, un ruolo di retroguardia nello scenario interimperialistico. La Russia è passata dalla disastrata condizione in cui versava al tempo della presidenza di Boris Eltsin, a riemergere come protagonista internazionale sotto la direzione degli ultimi anni di Vladimir Putin. Allo scopo di riproporsi come protagonista su larga scala, seppure con la consapevolezza di non potere tornare agli antichi fasti, Mosca sta impiegando notevoli energie per andare oltre lo status attuale di potenza regionale. Le difficoltà Usa e dell’Europa, l’alleanza con la Cina, la crescita economica annua del 7% antecedente la crisi mondiale, sono state le circostanze che hanno ridato vigore e autorevolezza alla Russia a livello internazionale. Poi i fatti di Ucraina con l’annessione della Crimea, la guerra in Siria e il sostegno determinante dato a Bashar al Assad, hanno posto nuovamente all’attenzione di tutti la potenza militare della Russia rimasta, malgrado tutto, di primissimo piano.

I problemi interni della Russia, comunque, restano gravi e di difficile soluzione, soprattutto in tempi di crisi del capitalismo. Le speranze della borghesia di Stato dopo il crollo dell’URSS, rapidamente riciclatasi all’ideologia liberista, si sono ben presto sgonfiate. Dopo la grande abbuffata dell’era eltsiniana che ha visto l’ascesa, dall’oggi al domani, di una oligarchia imprenditoriale arraffona intenta per pochi spiccioli a impadronirsi delle imprese più redditizie, precipitando ulteriormente il paese in una crisi economica e sociale gravissima, ha fatto seguito la gestione autocratica del potere da parte di Putin. Questi ha con decisione, a fronte di una situazione in disfacimento, affrontato il caos e ripristinato tenacemente l’autorità dell’esecutivo e il primato dello Stato, arginando i nuovi  parvenus anche con le maniere forti. “Il caso Khodorkovskij ha avuto come effetto quello di cambiare, non in senso giuridico ma di fatto, lo status materiale del diritto di proprietà della borghesia oligarchica russa, nel senso che è diventata una proprietà condizionata e soggetta a possibile intervento da parte del potere statale.”8 Pertanto, ancora una volta, come è nella tradizione storica della Russia, è lo Stato ad assumere in proprio e in modo determinante il compito di sostenere il processo di accumulazione. Attualmente l’intervento statale nell’economia rappresenta almeno il 60%. Questo fatto mostra i limiti del sistema produttivo per quanto riguarda la capacità di rinnovarsi e la scarsa duttilità di risposta alle strette della crisi. L’industria degli armamenti e la costruzione di centrali nucleari restano, come ai tempi dell’Urss, i settori a maggiore contenuto tecnologico e contribuiscono in maniera rilevante alle esportazioni. L’industrializzazione e la modernizzazione del paese nel senso più ampio si sono arenati dopo la crisi del 2008/9, successivamente anche le sanzioni economiche di USA e UE hanno inciso negativamente, infine il precipitare del prezzo di petrolio e gas che costituiscono gran parte dell’export e più del 50% del bilancio statale, hanno fatto il resto. Tutto questo ha spinto il Cremlino a guardare a oriente e scorgere nuove e più stimolanti prospettive.

La questione energetica e le contraddittorie relazioni tra Russia e Germania

Le dichiarazioni di facciata spesso non corrispondono alle intricate relazioni e agli interessi economici tra gli Stati. La Germania, ad esempio, apparentemente e in linea con gli americani ha condannato duramente le vicende ucraine, spingendo l’Unione Europea ad applicare le sanzioni economiche alla Russia di Putin. Ma è altrettanto vero che la cancelliera Merkel ha fatto di tutto per impedire che il rispuntato progetto South Stream, furbescamente riproposto da Putin dopo averlo precedentemente accantonato, andasse a buon fine. Conseguentemente al gasdotto che dalla Russia attraverso il Mar Nero avrebbe dovuto raggiungere l’Europa è stato preferito quello che percorre il Mar Baltico: il Nord Stream 2 (Ns2), il gasdotto che se realizzato raddoppierà il Nord Stream 1 (Ns1) già in funzione dal 2011, malgrado quest’ultimo sia sottoutilizzato visto che trasporta poco più del 50% di gas rispetto alle sue possibilità. Tutto questo superando anche le proteste di Polonia, Slovacchia e dei paesi baltici, notoriamente contrari a qualsiasi accordo con la Russia. Troppo forti sono gli interessi comuni di grandi squali come Germania e Russia per essere messi in discussione dai pesci piccoli: “La Germania, grazie alle quantità ingenti di gas russo che saranno vendute e scambiate al terminale di Greifswald, dove arriva Ns1 e arriverà Ns2, diventerà il maggiore centro di distribuzione commerciale europeo del gas. Assurgendo al rango di hub continentale cui ha sempre aspirato, al traino della visione (e degli interessi personali) di Gerhard Schröder, già cancelliere tedesco oggi presidente di Nord Stream.”9 Se tali premesse si realizzeranno la Germania rafforzerà ulteriormente la propria posizione in Europa diventando il centro di distribuzione del gas russo. Infatti, il progetto di nuovi gasdotti di servizio, insieme a quelli esistenti, formeranno una capillare rete di smistamento all’interno del vecchio continente.

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Per motivi diversi e allo stesso tempo unificanti Germania e Russia hanno tutto l’interesse di procedere insieme. Berlino perché rafforzerebbe la propria egemonia all’interno della UE, l’area economica di maggiore esportazione delle proprie merci e di esercizio della propria supremazia politica. Condizione che permette alla Germania di avere un peso rilevante anche a livello internazionale. Allo stesso tempo è altrettanto importante per i tedeschi, soprattutto in prospettiva, guardare ai mercati orientali. Mosca, dal canto suo, spera di rafforzare la propria posizione di ponte tra Europa ed Estremo Oriente. Una opportunità molto interessante per sviluppare la parte orientale del proprio territorio ricca di materie prime. I forti rapporti con l’Occidente e con la Cina e l’Estremo Oriente fanno della Russia l’anello di congiunzione eurasiatico, una posizione davvero invidiabile ricca di opportunità.

Ancora una volta chi vede col fumo negli occhi gli intrecci derivanti dalla dipendenza europea dagli idrocarburi della Russia sono gli Stati Uniti. Essi si rendono conto che i fermenti in atto nel mondo sono pericolosamente destabilizzanti e schiudono nuovi scenari, ma soprattutto sono coscienti che minano la pax americana.

Centralità tedesca e Unità Europea

Al tempo della guerra fredda, nello scorso secolo, tra i colossi americano e russo spiccavano grandi potenze economiche come Germania e Giappone, tanto potenti con le loro industrie manifatturiere d’avanguardia quanto nani da un punto di vista politico/militare. Quindi poco capaci di incidere nello scenario imperialistico internazionale e di occupare posizioni di rilievo che sarebbero loro spettate. Mentre le rispettive monete, Marco e Yen, continuavano a rivalutarsi e conquistare la fiducia degli investitori internazionali, mai sarebbero state in grado di mettere in forse la supremazia del Dollaro: “Competere con gli USA era quindi ancora impossibile, anche per un paese come la Germania. Il Marco, per quanto virtuoso e in continua rivalutazione non poteva ancora competere con il Dollaro quale valuta di riserva. Serviva un bacino economico e territoriale più ampio, e questo poteva essere solo l’Europa.”10 La svolta avviene inaspettatamente e repentinamente il 9 novembre 1989 con il crollo del muro di Berlino, seguirà solamente un anno dopo, il 3 ottobre 1990, la riunificazione delle due Germanie durante la cancelleria di Helmut Kohl. Da questo evento fondamentale prende impulso l’espansionismo del capitalismo tedesco che per i propri interessi non esiterà nel 1991 a fare precipitare la crisi della ex Jugoslavia. L’annessione della Germania Est si configura come una vera e propria guerra di rapina con il risultato di desertificare un paese industrializzato che aveva alcuni settori di punta a livello mondiale, quali la produzione di macchinari industriali.11 Nell’arco di poco tempo la Germania Ovest si ritrova più grande territorialmente e con 16 milioni di nuovi abitanti. Le conseguenze sono povertà e disoccupazione per i tedeschi dell’Est e un nuovo esercito industriale di riserva in mano al padronato per colpire il mondo del lavoro nel suo insieme e rivitalizzare i profitti: “Grandi affari fecero in questi anni di privatizzazioni le banche, le assicurazioni, le catene di supermercati dell’Ovest, che di colpo videro ampliarsi il loro spazio di mercato… L’annessione dell’Est ebbe infatti anche rilevanti effetti macroeconomici. In primo luogo, come si vedrà meglio in seguito, la riunificazione comporterà un abbassamento dei salari delle imprese situate nei Länder occidentali.”12

Non solo i benefici della riunificazione vengono dall’interno, ma anche dall’eredità esterna derivata dalle fitte relazioni della Germania dell’Est con gli ex paesi del socialismo reale:“L’annessione della Rdt (Repubblica Democratica Tedesca, ndr) è stata il grimaldello che ha spalancato alle imprese dell’Ovest un mercato da 101 milioni di abitanti. Che non ha rappresentato soltanto un mercato di sbocco per i prodotti di consumo fabbricati in Germania Ovest, ma anche per i macchinari tedeschi. Questi paesi dell’Europa Centro Orientale, sono inoltre divenuti la periferia dello hub industriale tedesco: sono, cioè, divenuti subfornitori, fornitori di semilavorati a basso costo per le industrie tedesche, fornendo così ai prodotti finiti elaborati dalle imprese della Germania Ovest un vantaggio formidabile in termini di competitività di prezzo.”13 La riunificazione per il capitale tedesco occidentale è stata la manna caduta dal cielo, uno spartiacque che d’ora in poi imprimerà una condotta più attiva, un salto di qualità nello scenario imperialistico mondiale.

A sancire il ruolo di primo attore della Germania ha contribuito la nascita dell’Unione Europea. L’accentramento del potere economico e politico di un’area di vaste dimensioni ha rafforzato il potere di Berlino, data l’indiscussa egemonia esercitata. Qui la Germania ha creato il proprio giardino di casa, sebbene tra infinite contraddizioni e il pericolo che il giocattolo salti per aria. La potente industria tedesca esporta il 57% delle proprie merci nella UE, di cui il 40,8% nei paesi dell’Eurozona (nel 2006 la Germania diventa il primo esportatore mondiale, superata successivamente dalla sola Cina). L’Europa è vitale per la Germania, da qui la necessità dell’integrazione europea e delle ferree regole di Maastricht da essa pretese.

Tuttavia, nella competizione tra le grandi potenze e nell’eventuale realizzazione del polo russo-cinese la Germania non potrà che svolgere un ruolo di comprimario: “La Germania non pone dunque alcuna minaccia strategica all’ascesa di Pechino nel firmamento delle grandi potenze… Essa resta inchiodata alla sua posizione nel continente: troppo forte per essere un paese europeo come gli altri, ma non abbastanza da dettare univocamente la linea al resto d’Europa. Per questa ragione, Berlino ha una valenza strategica limitata per la Cina.”14

Un mondo nel caos ostaggio dello sfacelo capitalistico

Il neo presidente statunitense Donald Trump, al di là delle bizzarrie del personaggio, molto intelligentemente ha affermato di volersi relazionare positivamente con la Russia di Putin. L’incarico di Segretario di Stato affidato a Rex Tillerson, ex capo del colosso petrolifero Exxon-Mobil, amico di Putin e degli oligarchi russi del settore, conferma la strategia della Casa Bianca di avvicinamento al Cremlino con il chiaro obiettivo di allentare l’asse Mosca-Pechino. In fondo, se le cose non procedessero nella direzione di un mondo multipolare e rimanessero pressappoco come sono oggi sarebbe certamente vantaggioso per gli USA. Questi, dopo tanta supremazia, allo stesso modo di un vecchio campione del pugilato giunto a fine carriera, magari un poco suonato, ma sempre nella posizione di primo della classe, ne trarrebbero un immenso giovamento al fine della conservazione del proprio ruolo.

Allo stato attuale non c’è partita dal punto di vista militare, la superiorità americana nei confronti dei concorrenti è intatta, soprattutto il predominio navale da particolari vantaggi, non a caso la Cina pensa alla  Nuova Via della Seta marittima per iniziare a sopperire alla propria inferiorità. Come nel passato il potere marittimo è a fondamento del dominio dei grandi imperi: “Ci si dimentica spesso che il 90% dei prodotti industriali e delle commodities scambiati sui mercati internazionali a un certo punto deve essere caricato su una nave, di gran lunga la forma più efficiente di trasporto su lunghe distanze. La Marina degli Stati Uniti sorveglia le rotte marittime, mantenendole aperte e decidendo in ultima istanza cosa si può e cosa non si può fare nelle acque internazionali. Le gelosie geopolitiche non mancano e le ambizioni territoriali e marittime di Pechino nel Mar Cinese Meridionale lo testimoniano. Tuttavia, in termini pratici poco è cambiato da quando i britannici hanno ceduto il controllo delle onde agli americani.”15

Tralasciando il termine improprio di “gelosie”, per dirla con un eufemismo, utilizzato dall’articolista quando invece si tratta di concretissimi interessi economici e strategici, possiamo affermare che comunque evolveranno le situazioni saranno sempre le borghesie dominanti a spartirsi potere e risorse sulla pelle dei dannati della terra. Chi paga per le conseguenze dell’estenuante e feroce gara tra i briganti imperialisti siamo tutti noi, l’umanità, il mondo. Proseguirà il caos e il degrado in assenza dell’azione sovvertitrice proletaria quale antidoto al modo di produzione capitalista. Già lo vediamo. Sfruttamento e profitto ci stanno portando alla barbarie poiché sono divenuti incompatibili con la civiltà, con l’ulteriore sviluppo della società e delle relazioni umane non basate sul nefasto e reazionario interesse personale, sostanza esclusiva dell’individuo borghese.

1 https://aurorasito.wordpress.com/2016/03/29/cina-2016-la-grande-svolta-e-le-prospettive-delleurasiatismo/

2 http://www.voltairenet.org/article191833.html

3 Per un approfondimento di queste tematiche vedi:

                http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/164-dominiofinanza  e http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/163-capitalefittizio

4 http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=54209

5 Ibidem

6 Ibidem

7 Nel 1944 l’economista inglese John Maynard Keynes alla conferenza di Bretton Woods propose la creazione di una moneta fiduciaria sovranazionale, il bancor, per la regolazione delle relazioni commerciali e finanziarie. Gli Stati Uniti, ormai vincitori del secondo conflitto mondiale, si opposero per imporre il dollaro e un sistema di cambi fissi che agganciavano tutte le altre valute al dollaro, il quale, a sua volta era convertibile in oro. La fine di  Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro a seguito della decisione unilaterale del Presidente Nixon nel 1971, non significò la fine dell’egemonia della valuta americana, ma la continuazione della sua supremazia con caratteristiche che avrebbero amplificato enormemente la speculazione e conseguentemente l’instabilità finanziaria internazionale.

Dal primo ottobre 2016 lo yuan è entrato a fare parte dei DSP con un peso del 10,92%, l’euro il 30,93%, il dollaro il 41,73%, lo yen l’8,33% e in fine la sterlina con l’8,09%. Per mitigare il pericolo delle crisi finanziarie di un sistema dollaro-centrico, oggi, la Cina vuole dare maggiore peso all’utilizzo dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP), una unità di conto creata dal Fondo Monetario Internazionale nel 1969, il cui calcolo viene effettuato utilizzando un paniere delle principali divise, attualmente costituito da: dollaro, euro, sterlina, yen, e da poco anche dallo yuan. Una posizione che in una qualche misura riprende l’idea di Keynes di creazione di una moneta globale. I DSP sono stati sottoutilizzati, al momento rappresentano meno del 4% delle riserve in valuta dei paesi membri dell’FMI.

Malgrado la Cina sia il maggiore esportatore di merci al mondo è solamente all’inizio nella sua rincorsa al dollaro: l’import-esport Usa è di 3,7 trilioni di dollari l’anno, mentre quello cinese è di 4 trilioni. Però nel primo caso le transazioni sono regolate per il 40,7% in dollari contro 1,8% pagate in yuan. Secondo l’ultima rilevazione del Fondo Monetario Internazionale le riserve valutarie mondiali sono per il 63,7% in dollari e solo 1,1% in yuan.

Tanti auspicano una riforma del sistema monetario internazionale. La Cina, in particolare, non solo perché è destinata a diventare la prima economia mondiale, quindi vuole riconosciuto il peso che le compete, ma per uscire da una situazione pericolosissima di potenziale ricatto statunitense. L’enorme massa di obbligazioni americane possedute dal governo della Repubblica Popolare espone la Cina alla possibilità di una pesante svalutazione del proprio credito e a subire passivamente le politiche monetarie della Federal Reserve.

8 Gian Paolo Caselli: All’economia russa serve una svolta che non arriverà - Limes n. 1/2016. Il caso Khodorkovskij è emblematico. Alle elezioni presidenziali del 1996 Boris Eltsin in cambio dell’appoggio degli oligarchi svende i pezzi pregiati dell’industria sovietica. Khodorkovskij viene in possesso della Yukos, una delle più grandi compagnie petrolifere russe. L’anno successivo insieme a Roman Abramovic a prezzo di svendita compra un’altra importante impresa petrolifera, la Sibneft. Ora Khodorkovskij è l’uomo più ricco della Russia e il sedicesimo più ricco al mondo. Nel 2003 crea la fondazione “Russia aperta” in opposizione al governo di Putin. Questa mossa segna la sua fine, con una scusa viene arrestato per frode fiscale e condannato a otto anni di lavori forzati. Nel 2009 prima di finire di scontare la pena viene incriminato con un nuovo capo di imputazione: appropriazione indebita e riciclaggio di denaro. La carcerazione di Khodorkovskij prolungata fino al 2017 viene successivamente ridotta sino al rilascio avvenuto nel 2014.

9  Margherita Paolini: “Nord Stream 2 colpo doppio oppure a salve?” - Limes n. 1/2016

10 Massimo D’Angelillo, La Germania e la crisi europea, ombre corte, Verona 2016, pag. 42

11 Il compito di privatizzare il patrimonio della Germania Est è affidato alla Treuhandanstalt, un istituto creato dalla Germania Ovest operativo dal 1990 al 1994. In soli quattro anni la Treuhandanstalt porta a termine il suo compito di vendere a prezzi da saldo le imprese più appetitose e di smantellare il restante apparato industriale statale. Tutto questo avviene in modo brigantesco: una pletora di speculatori , trafficanti e funzionari corrotti portano alla rovina l’economia e producono una disoccupazione di massa. A questo sfacelo, alle polemiche, ma soprattutto all’odio dei cittadini dell’Est, farà seguito una commissione parlamentare d’inchiesta che non porterà a nulla. Alla Treuhandanstalt seguiranno altre due istituzioni che dopo le industrie si occuperanno della privatizzazione delle risorse territoriali, foreste, acque, terreni ecc. Sull’argomento vedi l’ottimo testo di Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione: L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2013

12 Cfr. Massimo D’Angelillo, La Germania e la crisi europea, ombre corte, Verona 2016, op. cit., pag. 53

13 Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione: L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2013, pag. 148

14 Eva Hulsman-Knoll: “Per Berlino la Cina è un buon piano B” - Limes n. 2/2016

15 James Hansen: “Portaerei è destino” - Limes n. 11/2016