Guerra permanente. Se per procura, ancora meglio

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Categoria: Americhe
Creato: 05 Settembre 2013 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 4539
Dalla  rivista  D-M-D' n °7[EN]
“ I prerequisiti per una nuova guerra mondiale ci sono tutti. Scoppierebbe senza indugi, se non fosse per i giganteschi arsenali nucleari della Russia e degli Stati Uniti, nonché per quelli più piccoli ma egualmente terrificanti, delle altre potenze atomiche. Se un nuovo conflitto mondiale è improbabile, le quotazioni di una grande guerra o di una serie di guerre nel Grande Medio Oriente, dal confine indo-pakistano al Maghreb, sono in ascesa e diversi fattori sembrano renderla inevitabile.”

(Sergej Karaganov, Limes n.2 – Marzo 2013)

Edson Arantes do Nascimento – in arte Pelè – una delle massime espressioni calcistiche di ogni tempo ma, anche ambasciatore nel mondo della dittature militare al potere in Brasile dal 1964 al 1986,  ha trovato modo di dare una riverniciata al “gingoismo”,  quel fenomeno di delirio nazionalista di massa, interclassista come pochi e che nel calcio esalta, al meglio, i suoi principali fattori di fomentazione, grazie alla sua capacità di mimesi con situazioni non dissimili a quelle delle competizioni belliche che lo rendono, a tal motivo, potente mezzo di suggestione collettiva di cui si sono serviti regimi come quello fascista o nazista e di cui continua, oggigiorno, a servirsi la business-society che lo ha trasformato da “ spasso dilettantesco del tempo libero in industria avida e possente, ossia in un qualcosa che rafforza l’accettazione di una più generale vita sociale naturalmente e inevitabilmente pervasa di spirito commerciale e valore del denaro”[1]

Orbene “O rey” in un paese scosso da ondate di proteste, da disordini sociali che non si vedevano dagli anni ‘80, invita i manifestanti “a dedicarsi al tifo e non alla protesta. Dimentichiamo tutto questo disordine che scuote il Brasile e ricordiamoci che la squadra brasiliana è il nostro paese e il nostro sangue.”[2]

Non meravigliano di certo le stolidezze di Pelè; è che stridono fortemente con un contesto sociale in cui una religione laica come il calcio – almeno così è sempre stato vissuto in Brasile – viene apertamente messa in discussione. Se sui cartelli dei manifestanti è prevalente “ – bola + escola o – bola + saude” è evidente che si è verificato un corto circuito che ha fatto saltare pseudovalori, miti, liturgie che si riteneva fossero consolidati per sempre.

Ma qual è la causa o l’insieme di cause che hanno dato origine a questa più che intensa fibrillazione sociale? E più ancora: cos’è che accomuna il rincaro del biglietto del bus a San Paulo al taglio degli alberi a Gezi Park o alle rivalità calcistiche e relativo massacro a Port Said? Eppure il Brasile ha conosciuto in tutti questi anni una crescita vigorosa del PIL che, nell’arco temporale 2004-2011, è passato da 500 miliardi di dollari a quasi 2.500, ciò che ha consentito, tra le altre cose, una notevole riduzione della povertà oltre alla formazione di un ceto medio con relativa  propensione al consumo.

Qui, tuttavia, corre l’obbligo  di dar maggior luce a questo “ceto medio”, vista  l’eccessiva enfasi con cui viene circonfuso dai media in generale e da quelli brasiliani in particolare muovendosi di concerto questa retorica con gli studi di analisti economici, i quali, oltre a prevedere una classe operaia oramai in declino, hanno posto, allo stesso tempo, l’accento sulla forte espansione delle classi medie urbane in ciò poi contraddetti dalla grande espansione del lavoro salariato - segnatamente nelle “fabbriche del mondo”, Cina, India al pari di tanti altri paesi emergenti – che oggi riguarda oltre i due terzi della popolazione attiva.

Laddove, tanto per essere più chiari, la direzione scientifica del lavoro come pure il sistema taylorista trova applicazione non solo in fabbrica ma anche nel lavoro d’ufficio diventa un po’ arduo continuare a riferirsi – come ceto medio – al ceto impiegatizio o alla aristocrazia operaia del tempo che fu.

Nello specifico brasiliano si fa ulteriore fatica in quanto la determinazione di classe media – la cosiddetta classe C – verrebbe data soltanto da indicatori statistici quali “ il consumo familiare “, “il numero totale degli studenti universitari” o “ il grado di istruzione del capofamiglia”, capofamiglia che, tuttavia, con un reddito medio di 1.350 reais (all’incirca 500 euro) non può certo permettersi l’accesso alla sanità privata essendo costretto ad avvalersi di una sanità pubblica che, unitamente, ai trasporti ed alla scuola versa in condizioni miserevoli.

I settori in cui è principalmente occupata questa mitica “classe media” sono la piccola industria, i servizi e il commercio laddove l’orario di lavoro varia da 12 a 14 ore al giorno per 6 giorni la settimana, ragion per cui viene definita, nel mondo accademico brasiliano, “nuova classe lavoratrice precarizzata” tutta interna al boom economico nel cosiddetto Brasile “sviluppista”, boom, c’è da dire, che è stato originato, in gran parte, da “una politica aggressiva delle risorse naturali, l’incremento della grande agricoltura industriale, che da sola rappresenta quasi la metà del PIL ed il 40% delle esportazioni, gli agrocombustibili e l’allevamento del bestiame”[3], insieme di fattori dai quali proviene un benessere che ha interessato prevalentemente gli imprenditori dell’agro-business, gli industriali, i banchieri e la lobby delle imprese private che gestiscono i trasporti pubblici con la quale – sia detto per inciso - i “sinistri” Lula e Dilma Roussef hanno sempre accuratamente evitato di scontrarsi tanto più che le categorie imprenditoriali a cui ci siamo riferiti – conservatrici quando non del tutto reazionarie – hanno sempre garantito il loro appoggio ai cosiddetti governi “progressisti” a tal punto che l’ultimo ministro per l’economia, al tempo dei militari, Delfim  Netto, ha modo di  rimarcare, frequentemente, come sia stato

Lula a salvare il capitalismo in Brasile.

Un boom, quello brasiliano - occorre ribadire - da esportatore netto di risorse

naturali, minerali ed agricole, poggiando sulle quali il Brasile ha potuto finanziare la propria domanda interna.

Particolari congiunture come l’impennata speculativa dei prezzi internazionali delle cosiddette “commodities agroalimentari” come pure l’export degli agro combustibili hanno ancor di più reso “virtuoso” un paese che dalla comunità internazionale degli affari e dagli specifici organismi internazionali viene additato come modello, come “il mondo del futuro”.

Se consideriamo le avventatezze propinate sull’Argentina, sulle tigri asiatiche, sull’Irlanda fossimo nei panni dei brasiliani faremmo i debiti scongiuri.

Vero è che il Brasile è riuscito ad entrare nel novero delle economie emergenti (BRICS) e come grazie a questa espansione economica la percentuale degli occupati è cresciuta dell’ 1,1% mentre il tasso di disoccupazione, dal 2009 al 2011, è passato dall’ 8,2% al 6,7%, tuttavia acute contraddizioni perdurano al suo interno e riguardano segnatamente non solo i criteri con cui la ricchezza viene redistribuita  ma soprattutto l’esclusione sociale che ne fa uno dei paesi più diseguali al mondo: un paese in cui all’elevata percentuale di disoccupazione giovanile va a sommarsi un 60% della popolazione che continua a vivere sotto la soglia di povertà nel mentre sullo sfondo si stagliano le oligarchie latifondiste di sempre o fenomeni come il cacicchismo.

Contraddizioni che il partito di governo ( Partido dos trabalhadores PT) ha finora occultato attraverso un piano basato su una economia a cascata la quale ha come assioma, però, una costante e rapida crescita economica che, con la attuale congiuntura internazionale, appare problematico possa realizzarsi.

Alcuni dati: nel 2009 la crisi mondiale comporta per il Brasile un PIL segnato negativamente (- 0,3%). Nel 2010 cresce del 7,5% per poi decrescere, nel 2011 al 2,7%, per poi attestarsi allo 0,9% nel 2012. Per il 2013 si prevede un incremento del 2,7% che va a contrastare nettamente con le analisi dell’Economist o del Finacial Times che parlano espressamente di crisi del boom brasiliano, ipotesi che ha niente di peregrino se soltanto si considera che l’economia brasiliana è organicamente interconnessa con l’economia mondiale per cui una contrazione della domanda proveniente dagli USA o dai paesi UE fatalmente va ad incidere, in negativo, sulle esportazioni con un effetto a ricasco sulle proprie componenti economiche e sociali.

Partendo, dunque, dal vistoso rallentamento del modello sviluppista brasiliano, in simultanea col rallentamento di paesi quali la Cina, l’India, il Sudafrica e altri ancora, assume maggior valenza quanto scritto da Alessandro Penati su “La Repubblica” del 22 giugno scorso circa il proposito della Fed di porre termine alle misure straordinarie di creazione di liquidità:” …Significa che non ritiene l’economia americana capace di crescere stabilmente con le proprie gambe per altri due anni. E’ dunque un messaggio più diretto a preparare i mercati, ridimensionandone aspettative e facili entusiasmi, che per segnare un punto di svolta nella politica monetaria. Un messaggio che si è aggiunto ad altri indicatori preoccupanti:

1 - Il mercato del lavoro americano, l’indicatore macroeconomico oggi più importante per valutare la sostenibilità della crescita, è lungi dall’aver ritrovato condizioni di normalità. La riduzione della disoccupazione è spiegata da un aumento dei lavoratori scoraggiati che escono dal mercato del lavoro. Il rapporto tra occupati e popolazione è infatti fermo da 5 anni.

2 - La spinta delle economie in rapida crescita , i famosi Brics, potrebbe aver esaurito molta della sua forza. Grandi paesi come India e Brasile stanno abbandonando le politiche di mercato e le liberalizzazioni per tornare a un dirigismo incompatibile coi tassi di sviluppo del passato. La riduzione della crescita aumenta però il disagio sociale, che alimenta il dirigismo, che riduce la crescita.”[4]

D’altronde i dati parlano un linguaggio assai chiaro:  per tutto il decennio precedente si è assistito ad una  crescita assai vigorosa del PIL che poi cade verticalmente nel 2012 ( 0,9%).

Qualora ciò non bastasse, possiamo aggiungere che, per quel che attiene il 2013, le previsioni dei “divinatori”, sono state aggiornate per ben tre volte al ribasso.

Ma non è tutto poiché a questo quadro, preoccupante già di suo, va ad aggiungersi un tasso di inflazione che veleggia intorno al 6,5%e che va, conseguentemente, a colpire ampi strati di popolazione con una impennata vertiginosa dei prezzi.

D’altra parte quando gli indicatori economici segnano un andamento negativo qualcuno deve pur pagare il conto restando inteso che non sono di certo le elites politiche ed economiche.

E’ da tale contesto che prende avvio una massiccia contestazione che vede come soggetto attivo un movimento formato da lavoratori, disoccupati, giovani precari, studenti, piccoli imprenditori sempre più in sofferenza per via del peggioramento delle condizioni di vita a cui si aggiungono  le carenze dei servizi sociali, la corruzione, lo spreco di denaro in opere faraoniche.

Un movimento, giova rimarcalo, dalle connotazioni interclassiste che, almeno finora, non ha fatto dell’antagonismo anticapitalista la propria cifra peculiare.

In perfetta sintonia, d’altronde, con tutte le “primavere” che lo hanno preceduto.

Piazza Taksim e il nuovo sultano

A dar contiguità alle manifestazioni brasiliane ed a quelle turche intervengono essenzialmente due fattori : una sostenuta crescita economica che convive con una altrettanto elevata diseguaglianza sociale con relativi fenomeni di marginalizzazione di ampie fasce di strati sociali.

Operano altresì delle specificità tutte turche che vanno ad interessare la genesi

di questo boom economico tale da farlo assurgere – poteva mancare ? – a “modello turco, strumentalmente enfatizzato per contenere in appositi coni d’ombra tutte le distorsioni, le contraddizioni che tale modello di sviluppo porta con sé.

In un paese caratterizzato da una polarizzazione della società che persiste dalla laicizzazione del paese voluta da Kemal Ataturk nel 1923 e che riverbera oggi i suoi effetti in una situazione interna caratterizzata da “ un acceso contrasto tra le tradizionali èlite economiche ed una nuova classe imprenditoriale affiliata al AKP. Cresciute grazie a piccole e medie imprese , le nuove èlite si raccolgono intorno ad organismi come la Musiad, una delle più grandi associazioni di imprenditori sponsorizzata dal AKP”.[5]

Giova ricordare come l’ AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) sia un’organizzazione partitica nella quale confluiscono varie correnti islamiste e che, proprio per questo, non può attenuare il proprio profilo religioso pena la perdita del consenso dell’elettorato islamista.

L’attuale premier Erdogan, convinto islamico conservatore, “ è riuscito a trasformare progressivamente il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo in partito “pigliatutto”, capace di raggruppare pezzi di società dagli interessi e valori differenziati che chiedevano essenzialmente normalizzazione e modernizzazione. La vittoria in tre elezioni consecutive gli ha consentito di ridurre il peso dei contro-poteri custodi  della laicità dello Stato: quello militare, quello giudiziario, quello burocratico, in passato efficienti attori di interdizione del nascente potere islamista”.[6]

In tutta evidenza l’onda lunga dell’islamismo  che Arnold Toynbee, già nel 1948, delineava più che come religione universale come ideologia pervasiva capace di prendere il posto del nazionalismo  e dello stesso socialismo si è tradotta, nello specifico turco, in una capacità di iniziativa  generale che ha marginalizzato, tra gli altri, i partiti di sinistra come anche i sindacati.

In altri contesti – vedi Egitto, Tunisia, Siria – questa dinamica è stata portata avanti dalla Fratellanza musulmana, in Turchia, in anni passati dal Partito del Benessere (Refah Partisi) e ai nostri giorni dal AKP di Recep Tayyip Erdogan.

E’ innegabile come nel paese vi sia stato, nell’ultimo decennio, uno sviluppo economico tale da  consentirgli di uscire dalla situazione deficitaria dei primi anni del 2000 che vedeva un’ inflazione al 69%,  una crescita del PIL di segno negativo (- 9%) ed un debito pubblico pari al 78% del PIL, così come è altrettanto vero come  l’ AKP abbia saputo costruire, attraverso politiche economiche ad hoc,  le condizioni sociali e politiche a che la Turchia potesse aprirsi al mercato mondiale o, per meglio dire, adattarsi alle nuove tecnologie e, in una, alle nuove esigenze del dominio imperialistico.

Fattori che hanno reso possibile un gigantesco processo di delocalizzazione delle produzioni a più alto contenuto di lavoro vivo in aree dove il prezzo della forza-lavoro è molto più basso di quello delle cittadelle capitalistiche più avanzate, cosa che ha determinato una nuova divisione internazionale del lavoro.

Pertanto il boom economico è stato reso possibile, sul piano internazionale, con l’addivenire alle linee-guida poste dal FMI incentrate, principalmente, sui capisaldi delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro col relativo corollario della moderazione salariale, la qualcosa ha consentito l’afflusso di capitali esteri attratti dalle condizioni più che vantaggiose offerte da Istanbul sotto forma di allentamento dei vincoli burocratici, di riduzione al 20% delle aliquote sui redditi di impresa,  possibilità di portare in patria i profitti, il tutto inserito in una “ legge quadro tramite la quale “ vengono create delle ZES (zone economiche speciali) in cui lo Stato dà incentivi economici, terreni gratuiti, attenuazione fiscale, alleviamento dei contributi pensionistici per i lavoratori, e viene anche data la possibilità di utilizzare le strutture universitarie pubbliche per effettuare ricerche e sviluppo a vantaggio di aziende private. “ e ancora “ In materia di lavoro la prima cosa che fa il governo di Erdogan è di istituzionalizzare la pratica del lavoro interinale: in altre parole nelle fabbriche turche si afferma legalmente il caporalato e forme di “lavoro in affitto”. Non solo: vengono introdotte misure di massima flessibilità della forza-lavoro che, in pochi anni, faranno sì che la Turchia arrivi ad avere la settimana lavorativa media più alta d’Europa – ben 53 ore! -, il tasso più basso di assenze lavorative per malattia, un numero impressionante di morti sul lavoro, un salario minimo netto, nel 2013, di 409 dollari  - poco più di 300 euro al mese.”[7]

E’ in  un tale contesto, caratterizzato anche dal fatto che quasi l’80% della popolazione ha lasciato la campagna per la città, che nasce, grazie anche ad una sapiente politica di crediti agevolati, una nuova piccola borghesia costituita da persone provenienti dai piccoli centri rurali dell’Anatolia e che, trasferitisi non solo ad Istanbul ma anche ad Ankara, Izmir, Konya, Kayseri e Samsun sono diventati commercianti e piccoli imprenditori, alcune centinaia dei quali, molto vicini al AKP e denominati “tigri anatoliche” costituiscono il nerbo della borghesia islamica, perfetta sintesi tra neo-liberismo ed islamismo.

Questi imprenditori, a capo di piccole e medie aziende dell’Anatolia che si ispirano alle realtà produttive del nord-est italiano, sono il motore del boom economico turco degli ultimi dieci anni e, costretti tanto dal rifiuto del Consiglio Europeo, nel 1998, circa la candidatura turca alla UE quanto dalla stasi dei negoziati per l’adesione iniziati nel 2005, hanno dovuto volgere il loro sguardo, per quanto riguarda gli sbocchi commerciali, verso l’Asia Centrale, il Medio Oriente, l’Africa. La competitività della lira turca – rivalutata, per tutto il periodo in cui l’economia globale tirava, dal forte afflusso di denaro verso la Turchia – ha fatto sì che gli investimenti turchi venissero preferiti a quelli provenienti dall’eurozona soppiantandoli in settori quali i prodotti farmaceutici, il tessile, i beni di consumo e il settore immobiliare.

Ma la competitività, nella sfida internazionale, ha modo di farsi valere anche attraverso i grandi conglomerati – Koc,Anadolu,Yildiz, Kale, Sabanci – in mano all’alta borghesia urbana, laica e quindi kemalista, e come tale in contrapposizione a quella islamica e anatolica.

Questi conglomerati sono “ gruppi industriali potenti, ramificati, ma anche flessibili, pronti a trovare nuove opportunità di sviluppo. Basti pensare al settore automotive: Koc ha una joint-venture con il gruppo Fiat e da poco, a Erenler, nel distretto di Sakarya, è partita la realizzazione del secondo stabilimento di “Turk Traktor”, la Joint-venture tra Cnh, Fiat Industrial e Koc Holding, leader nella produzione di trattori. Quando si è reso necessario centrare l’attività sulla finanza, hanno sviluppato le banche e i servizi finanziari. Poi si sono lanciati nell’energia e, infine, hanno fiutato il boob delle telecomunicazioni….. Ora i grandi gruppi hanno accusato una limatura dei ricavi, nel 2012, a causa della crisi dell’Eurozona e cercano di disfarsi  - anche sull’onda dell’avanzata delle dinamiche “ tigri anatoliche”- delle attività non strategiche, ma rimangono un punto di riferimento per i grandi gruppi stranieri che arrivano sul Bosforo, con i quali stringono alleanze solide e di successo.”[8]

E’ evidente come gli interessi di quelli che erano i “vecchi padroni del vapore” stridino con le politiche perseguite dal governo Erdogan poiché “ in quest’ultimo decennio essi hanno perso progressivamente quote di potere. Il ruolo di questa frazione borghese non è affatto da trascurare : non solo perché gode di posizioni acquisite negli ultimi cento anni, non solo perché ha forti legami internazionali, ma anche perché continua ad essere interna all’esercito e a rappresentare, attraverso lo strumento politico del CHP (Partito Popolare Repubblicano), la maggiore opposizione del paese. Inoltre gode anche di un largo sostegno popolare legittimato dal richiamo ai valori della secolarizzazione e alla figura di Ataturk”.[9]

Non desta meraviglia, quindi, che ai moti di protesta di Piazza Taksim, in un crescente clima di contestazione verso il governo targato AKP, siano presenti molti sostenitori del CHP che manifestano insieme agli studenti, ai piccoli imprenditori, ai gruppi ultras calcistici, agli anarchici, ai comunisti, ai partiti curdi, ai disoccupati.

Sì. Disoccupati!

Perché in quest’orgia di retorica che la stampa borghese ha riservato ad uno dei tanti “miracoli economici” da ascrivere, beninteso, alle virtù taumaturgiche del “mercato”, si passa molto disinvoltamente sui “miracoli” di segno opposto: con un’inflazione al 9% e conseguente aumento del costo della vita, i salari, in termini reali, hanno perso potere d’acquisto. Non solo. Questa corsa forsennata alla crescita impone orari di lavoro più lunghi e ritmi di lavoro sempre più intensi e, insieme a questo, un tasso di disoccupazione attestato all’8,8%, di cui buona parte riguarda i giovani tra i 16 e i 29 anni.

Come si vede un boom economico segnato da forti contraddizioni riassumibili

nel dato che consistenti strati di popolazioni sono stati marginalizzati rispetto allo sviluppo per non dire che hanno persino visto peggiorare le proprie condizioni di vita.

Ecco spiegata, quindi, l’eterogeneità della composizione sociale della protesta che mette insieme segmenti diversi della società con interessi storicamente contrastanti in un “embrassons nous” che disorienta ulteriormente il proletariato turco e, segnatamente, la classe operaia.

Se il governo a guida AKP ha saputo garantire cospicui profitti al capitale statunitense o a quello europeo, rappresentando quindi al meglio gli interessi dei vari imperialismi, al contempo sta cercando di convertire il potere economico/finanziario turco in influenza, ossia in un’ottica di paese non solo dominante in ambito regionale - il che lo porta ad interferire pesantemente nell’attuale guerra civile siriana - ma anche di punto di riferimento per tanti paesi arabi e finanche per rilevanti componenti interne alle “primavere arabe”, le quali vedevano nella Turchia il paese dove si era realizzata compiutamente la “democrazia islamica”.

Questa pseudo-democrazia, però, questo modello AKP, sublimato – a Gezi Park – dalla triade “centro commerciale, caserma, moschea”, va a rappresentare “… una sintesi perfetta del neo-ottomanesimo in versione AKP, fondato su una crescita economica onnivora e il gigantismo progettuale, sul ritrovato ruolo politico e militare del paese, sul marcatore religioso”[10]

Un neo-ottomanesimo oscillante tra aspirazioni di potenza regionale, nel contesto mediorientale, per cui i suoi riferimenti sono sempre più Lahore, Beirut, Medina, Baku, la stessa Sarajevo e non Berlino, Parigi o Londra, tanto più che resiste, all’interno della UE, un certo scetticismo nei confronto di Ankara, scetticismo che va ad alimentare nella società turca la cosiddetta “sindrome di Sevres” –  dal nome della cittadina francese dove, nel 1920, fu firmato il trattato in virtù del quale, dopo la caduta dell’impero ottomano, la Turchia avrebbe dovuto privarsi di tutti i territori orientali e del controllo degli stretti.

Per contrappasso, però,  avviene che, in un panorama mediorientale sempre più scosso da crisi, contrapposizioni, guerre, il modello turco cominci a vedere offuscato il proprio potere di fascinazione sul mondo arabo e mediorientale per via della sua eccessiva prossimità alla Fratellanza Musulmana come  vede pure il suo revanchismo neo-ottomano coinvolto sempre più nella guerra in Siria.

Guerra permanente. Se per procura ancora meglio

Per puro paradosso, avviene però che, mentre Ankara si fa forte del suo prestigio acquisito in Medio Oriente ed in Asia Centrale per offrire un modello di “islamismo” politico, lo stesso islamismo politico – in versione egiziana – è preda di un corto circuito che dalle, rive del Nilo, dove il presidente Morsi, espressione della Fratellanza Musulmana, è stato esautorato dalla sua carica per mano dell’esercito rischia di propagarsi nell’intera regione e di sortire tra i veri effetti proprio l’isolamento di Ankara a causa dell’analogia  tra ciò che sta avvenendo al Cairo e quello che la Turchia ha già sperimentato in tre occasioni, dal 1960 al 1980: l’intervento dell’esercito contro i movimenti islamici in ascesa per proteggere la laicità dello Stato.

Il colpo di stato egiziano fa venir meno, in estrema sintesi, uno dei perni, unitamente al Qatar, su cui poggiava il nuovo ordine del Medio Oriente all’indomani delle “primavere arabe”, ordine teorizzato, per l’appunto, da Erdogan e che prevedeva il ruolo egemone di Ankara.

Ma il golpe contro Morsi non potrà non avere ripercussioni sulla stessa Siria dove è presente ed oltre modo operativa una Fratellanza Musulmana che lotta contro il regime di Assad all’interno di una coalizione denominata Consiglio Nazionale Siriano  che, dall’abbrivio di una protesta popolare, in linea con le “primavere” egiziana e tunisina, è trasmodata in una guerra civile che rimanda sostanzialmente alla vicenda libica in quanto alla sollevazione popolare si sono sovrapposte agende esterne sotto forma di interessi sia economici che geo-strategici delle grandi potenze e di quelle regionali con conseguente internazionalizzazione del conflitto.

La rivolta popolare siriana è stata motivata, nelle sue linee essenziali, dalle stesse cause che hanno interessato gli altri paesi arabi: una situazione economica disastrosa a cui si accompagna una disoccupazione – soprattutto giovanile – endemica: soltanto ottomila siriani, su trecentomila che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro, riescono ad ottenere un regolare contratto di lavoro. A ciò vanno ad aggiungersi gli effetti delle nefandezze neo-liberiste, fatte passare per riforme, propinate dagli organismi internazionali che hanno trasformato i monopoli pubblici in monopoli privati con tutte le piacevolezze che ne conseguono.

Ligio alle direttive di tali organismi ma, allo stesso tempo, paladino di un antimperialismo soltanto presunto, il presidente siriano Assad, tuttavia, ha trovato modo, negli anni, di rendere meritori servigi che si sostanziano nella assoluta stabilità della frontiera siriano-israeliana, o nella partecipazione al programma di subappalto delle “extraordinary renditions” per finire con l’aver legittimato la repressione saudita della “primavera” in Bahrein.

Ciò non è valso, manifestamente, a che la “primavera” siriana rimanesse in un ambito prettamente interno e non venisse, invece, integralmente assorbita dal gioco delle potenze regionali e internazionali in una guerra che può essere tranquillamente definita “guerra per procura”.

Ma perché la guerra?

Ed ancora: perché questa guerra?

Sulla rivista “Prometeo”, nel dicembre 2005, si poneva in rilievo come:” Il fenomeno che forse più di ogni altro caratterizza la fase di decadenza della società borghese è la sua intima necessità di ricorrere alla guerra per uscire dalle proprie crisi economiche che traggono, tutte, la loro origine nelle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Ogni guerra è una guerra imperialista del capitale e in quanto tale sempre combattuta contro il proletariato” per proseguire con “ Le due guerre imperialiste (mondiali) hanno quindi segnato il punto di chiusura e l’inizio dei cicli di accumulazione; nel modus operandi del capitalismo decadente le guerre sono state delle drammatiche parentesi necessarie per superare le crisi e rilanciare il ciclo di accumulazione.

L’avanzare della decadenza del capitalismo ha determinato che le guerre non siano solo una parentesi nella vita del capitale, ma siano diventate un modo permanente di vivere della società borghese. Negli ultimi decenni la guerra imperialistica è stata una costante nella realtà del capitale.

L’avanzare della decadenza ha quindi determinato che le guerre siano diventate un modo di essere del capitalismo.” Ed ancora “ Una guerra permanente che è funzionale agli interessi delle grandi oligarchie economiche e finanziarie al potere e che impone all’intero proletariato internazionale un prezzo salatissimo sia in termini di vite umane sia con un salto all’indietro nelle proprie condizioni di vita.” per concludere con l’evidenziare che “ Mentre i due precedenti conflitti imperialistici hanno consentito al capitalismo di avviare un nuovo ciclo di accumulazione, determinando una fase di crescita dell’intera economia mondiale, le guerre combattute in questi ultimi decenni hanno avuto come unica conseguenza l’arricchimento esclusivo di alcune frange della borghesia internazionale e la distruzione di interi paesi.

Stiamo assistendo a guerre permanenti che rispetto a quelle del passato non creano le premesse per una nuova fase di sviluppo dell’economia, attraverso la ricostruzione dei sistemi produttivi distrutti, ma che hanno come unico effetto la morte di milioni di proletari e la distruzione generalizzata.”[11]

Perché si combatte in Siria? Quali attori si fronteggiano?

Sullo sfondo della guerra civile siriana si stagliano questioni che hanno attinenza con la ridefinizione dei rapporti di forza fra le tre grandi potenze, Russia, Stati Uniti e Cina con la prima, a cui considerazioni di ordine geo-strategico non permettono di lasciare la regione e che si avvale della leva siriana per riacquistare una dimensione di superpotenza mentre gli USA, appesantiti da un debito posseduto in maggior parte da Cina e Giappone nonché da un elevato deficit pubblico, non possono più sostenere conflitti prolungati e costosi tanto più che proprio l’espansione cinese nell’area Asia-Pacifico li costringe ad un riorientamento verso quell’area.

Ciò spiega perché  diventa prioritario, per Washington, preservare, nel conteso mediorientale, l’egemonia di Israele tanto più in una competizione con l’Iran che vede nella Siria il proprio sbocco nel Mediterraneo lungo un asse cha va dallo stesso Mediterraneo al Golfo Persico. Stabilizzare il regime di Damasco diventa, quindi, prioritario se si vogliono ridimensionare le mire nella regione delle monarchie del Golfo e del neo-ottomanesimo turco.

Nell’analisi  delle  dinamiche  che caratterizzano l’attuale scenario siriano un

fattivo ruolo è giocato anche dalla partita arabo/persiana e sunnita/sciita. Arabia saudita, Qatar e altre petromonarchie del Golfo sono intervenute nella pacifica rivolta siriana per trasmutarla in guerra contro il regime filo-iraniano di Assad. La posta in gioco è l’egemonia sul campo islamico mediorientale, contesa tra Arabia Saudita e Iran, con il Qatar che, grazie all’enorme patrimonio energetico e finanziario, si smarca da Riyad per giocare in proprio e proporsi all’Occidente quale alleato/tesoriere nelle “primavere arabe”, ossia tenerle lontane dagli idrocarburi del Golfo.”[12]

Tenendo conto di tutto questo l’approdo più che ovvio, quello che fa maggiormente agio su tutte le altre considerazioni non può che essere la partita delle condotte energetiche mediorientali con tutto ciò che ne consegue in termini di strategie fatte di contrapposizioni, alleanze, innesco di conflitti.

Nel libro “Euroil” si fa riferimento ad “ Un nuovo sterminato giacimento di idrocarburi, scoperto qualche anno fa, che è stato battezzato South Pars e su cui gran parte delle compagnie petrolifere si sono gettate a piene mani. Più o meno tutte, tranne quelle americane, che per via dell’embargo commerciale nei confronti dell’Iran non possono operare nella zona.”[13]

Non è semplicemente un supergiacimento, forte della sua estensione su una superficie di 1.300 chilometri quadrati, in quanto è il pilastro della strategia energetica iraniana nei prossimi decenni e che sta assumendo concretizzazione attraverso un accordo tripartito Iran-Iraq-Siria che prevede la realizzazione di un gasdotto da 10 miliardi di dollari entro il 2016 e che ha come obiettivo precipuo il mercato europeo. In tal modo il gas iraniano e quello iracheno potrebbero arrivare al polo costiero siriano di Tartus tagliando fuori completamente la Turchia.

Ne deriva che questo progetto di “gasdotto sciita” mandi in fibrillazione non solo la Turchia ed i “patron” che gli stanno dietro ma anche altri attori regionali in quanto, allo stesso tempo, l’Iran insieme alla Russia è parte attiva in un progetto di prospezione dell ‘off-shore libanese per il tramite di accordi di assistenza tecnica.

Mosca, infatti, attua tutte le contromisure atte a che il gas mediorientale non arrivi alla condotta trans-anatolica Southern Corridor, patrocinata, sin dal 2007, dal governo statunitense e che prevedeva degli accordi tra turchi e iracheni in cui la Siria diventava tassello importante del progetto  in quanto in diretta concorrenza con la condotta South Stream russa per l’approvvigionamento al Sud-Est europeo. Con molta pertinenza Margherita Paolini osserva che:” Nella gara che si è accesa tra paesi produttori, paesi di transito e paesi con aspirazioni di “hub” esclusivo, ulteriormente complicata dagli interessi delle “majors”, la Siria appare soprattutto come pedina chiave del progetto geoenergetico di Tehran: arrivare al Mediterraneo attraverso il percorso strategico Iraq-Siria che si rivela possibile come mai prima in virtù dei rapporti di stretta alleanza con il governo di Baghdad.”[14]

L’autosufficienza energetica raggiunta dagli Stati Uniti con il “gas da scisti” ha sottratto una cospicua fetta di mercato al Qatar che si trova nella necessità di compensare tale perdita cercando anch’essa approdi sulla costa del Mediterraneo e di lì al mercato europeo e per tale motivo coltiva un progetto di collaborazione regionale con la Turchia che si è venuta a trovare in una situazione di empasse per via del fatto che è esclusa da programmi inerenti future produzioni ed esportazioni, ragion per cui ha tutto l’interesse, insieme al Qatar, di esautorare Assad e fermare il gasdotto sciita sostituendolo con un altro progetto che, scevrato dalla presenza iraniana, vedrebbe il gas dell’Iraq e del Qatar, dopo essere transitato dalla Siria, dirigersi verso l’Anatolia e da qui al mercato europeo.

Giova tener presente, per rendersi conto della criticità/assurdità della situazione, che tutti questi progetti energetici sono ancora allo stadio di fattibilità ma già solo questo è sufficiente a scatenare una guerra civile con massacri quotidiani che la dicono lunga su quello che propina quotidianamente la “civiltà” capitalistica correlata al suo mitico neo-liberismo.

Crisi internazionale e nuova guerra fredda

Grande è la confusione sotto il cielo (capitalistico) … e la situazione di eccellente ha ben poco.

Dal G8 di Lough Eme nei cui intenti c’era la promozione di una nuova agenda di cooperazione del Nord del mondo, e che era incentrato sui grandi temi della crisi e del lavoro è scaturito il risultato di sempre: l’inconcludenza.

Di intese virtuali e di contese di fatto è lastricato il percorso di questi vertici, siano essi G8 o G20, e tutto perchè l’incidenza di una crisi che trova le proprie origini nelle contraddizioni del processo di accumulazione non può essere elusa stante gli attuali e persistenti rapporti di produzione capitalistici. Una crisi in cui:” Capitali sempre più grandi non riescono ad essere adeguatamente remunerati  e ciò deriva dall’operare della legge della caduta del saggio medio di profitto. La finanziarizzazione dell’economia è stata una risposta dell’imperialismo alle sempre maggiori di remunerare adeguatamente i capitali investiti nel mondo della produzione. …Per un certo numero di anni, grazie agli incrementi di produttività e alla drastica riduzione del costo della forza-lavoro, il capitale fittizio prodotto ha trovato sufficiente plus-valore con il quale remunerarsi. Oggi le dimensioni assunte dalle disparate forme di produzione di capitale fittizio sono così enormi che il plus-valore prodotto globalmente non è più sufficiente a remunerare adeguatamente tale massa. Da qui l’avvio alla crisi finanziaria ed alla distruzione del capitale fittizio in eccesso con le nefaste ricadute sull’intera economia mondiale.”[15]

Quanto riportato serve a svelare le difficoltà insuperabili che trovano questi consessi internazionali a dare delle risposte che non siano le vacue locuzioni “crescita, lavoro” che rimangono delle semplici dichiarazioni d’intenti con l’aggravante, tuttavia, del procedere in ordine sparso dei vari attori e di una competitività, tra gli stessi, sempre più esasperata.

Rientra proprio in questo clima il negoziato di libero commercio tra Europa e Stati Uniti ( Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP) con l’esplicito scopo di contenere l’invadenza dei paesi cosiddetti BRICS, che, secondo ottimistiche previsioni, dovrebbe comportare benefici per l’intera UE: 1 milione e 400.000  posti di lavoro, aumento delle retribuzioni e una crescita media del 5%.

Aumenterebbero anche le possibilità di investimenti ed affari per alcune imprese europee e si da il caso che a beneficiarne maggiormente sarebbero le imprese tedesche, segnatamente le industrie della costruzione di macchine utensili, il settore della tecnologia informatica e, naturalmente, le banche.

Una fondazione come la “Hans Boeckler”, vicina ai sindacati tedeschi, mette tuttavia in discussione questo trattato in quanto non produrrebbe crescita alcuna per via del fatto che già oggi i dazi doganali tra Unione Europea e Stati Uniti sono talmente bassi che gli effetti di una ulteriore riduzione si noterebbero appena mentre alcune ricadute negative andrebbero a  interessare i diritti dei lavoratori e le norme che tutelano l’ambiente.

Certo, questo trattato è visto come una boccata d’ossigeno per economie come quella tedesca e statunitense i cui dati, al di là dell’enfasi di certi giornalisti/pifferai, non è che inducano all’entusiasmo più sfrenato. E’ lo stesso Federico Rampini a rilevarlo:” Sul fronte dell’economia reale i cambiamenti non sono così precipitosi. Il mercato del lavoro sta meglio ma non vi è nulla di repentino né di spettacolare. Il tasso di disoccupazione per adesso rimane fermo al 7,6%. Addirittura, se vengono inclusi i lavoratori scoraggiati (che hanno smesso di cercare un posto) e quelli costretti ad accontentarsi di un part-time la disoccupazione diventa il 14,3 della forza-lavoro.”16 Quasi il doppio!

Nello stesso “modello per l’Europa” – la Germania – l’economia mostra già qualche sofferenza se oltre alle fabbriche in crisi si concentra l’attenzione sull’occupazione precaria e con bassi salari. Oltre al part-time c’è un 20% degli occupati che lavora con i cosiddetti “minijobs” con paghe di 450 euro al mese. A questo va ad aggiungersi, secondo dati forniti sempre dalla fondazione Hans Boeckler, il fatto che ad una paga oraria di 11 euro nell’ovest della Germania ne corrisponde una di 8,30 euro all’est il che evidenzia come “negli ultimi due decenni la Germania ha raggiunto un grado di disuguaglianza estremamente problematico sul piano sociale ed economico”.

Un PIL in frenata – indice di un possibile rallentamento di una economia da cui tanti paesi dipendono -  è invece il dato inquietante che proviene dalla Cina laddove sembra proprio che l’età dell’oro stia per finire. I dati infatti indicano che nel primo trimestre del 2013 il PIL è sceso al 7,7% rispetto al 7,9% dell’ultimo trimestre del 2012 mentre per il 2013 dovrebbe ridimensionarsi ulteriormente al 7,4% e tutto questo ha a che vedere sia con la stagnazione europea che con la lentezza della ripresa americana che, a sua volta, chiede un attenuamento delle politiche di austerità in Europa pena un rallentamento della medesima economia USA.

Si naviga, insomma, a vista e diversi se non addirittura contrastanti appaiono gli approcci alla soluzione della crisi.

Mentre il Giappone e gli Stati Uniti privilegiano l’opzione delle politiche monetarie e fiscali espansive con il conseguente timore dei paesi emergenti che la valanga di liquidità creata sui mercati globali vada a scaricarsi sulle loro economie con annessa inflazione e possibili bolle speculative, l’Europa si attiene – almeno così sembra – a politiche improntate all’austerità.

Una situazione così complessa e altrettanto critica lascia intravedere in trasparenza una realtà che prende sempre più forma e consistenza: una nuova guerra fredda.

La vulgata in auge parla di prodromi di guerra fredda passando disinvoltamente sopra il fatto che, seppure non ci siano state dopo la fatidica “fine della storia” vaticinata da Francis Fukuyama, guerre guerreggiate, in contrapposizione diretta, tra le grandi potenze, ciò non vuol dire che nell’epoca dell’imperialismo la cosiddetta “guerra fredda” non sia stata una costante, prima e dopo il 1989.

E quanto oggi il quadro sia tutt’altro che rassicurante lo si può comprendere dalla disputa cino-giapponese sugli isolotti Diaoyu/Senkaku, l’equivalente di qualche scoglio insignificante, magari  schifato persino dagli stessi uccelli marini.

Ebbene, questa disputa può, senza fatica, assurgere a paradigma delle tensioni a livello internazionale che quando non rimangono allo stato latente di “guerra fredda” scoppiano in deflagrazioni che assumono precipuamente i connotati della “guerra civile” (vedasi la Libia, la Siria, il Mali nel mentre la stessa china potrebbe prendere l’Egitto).

Il caso degli isolotti nel Mar Cinese Orientale non è, beninteso, più eclatante o inedito di quanto avvenne nel 1983 con l’invasione dell’isola caraibica di Grenada da parte dei marines degli Stati Uniti. Oggi come allora si tratta di asserire l’importanza geo-strategica di un’area e di riaffermare i propri diritti di controllo sulla stessa.

Una crisi devastante come quella attuale, segnata dall’incepparsi dei meccanismi di valorizzazione del capitale esaspera la competizione su scala planetaria e questa aggressività, questa risolutezza stanno in proporzione diretta con l’intensità della crisi stessa.

Una competizione che interessa il mercato commerciale come quello finanziario, il controllo delle risorse energetiche o la gestione delle materie prime, la militarizzazione dello spazio nonché l’avvio delle cosiddette “guerre informatiche”.

Alla base c’è tutto un rimescolìo che ha a che vedere con l’ordine mondiale attuale, successivo all’implosione dell’ex  URSS, e quello che si potrebbe configurare di qui a qualche decennio con il venir meno di talune variabili che finora avevano caratterizzato la situazione attuale.

Si è dato conto dei vincoli economici che condizionano fortemente l’operare degli Usa, nondimeno, come sostenuto da Henry Kissinger:” Viviamo l’epoca in cui l’America non può dominare il mondo né ritrarsene, mentre si scopre a un tempo onnipotente e totalmente vulnerabile.”

Ciò spiega perché, ad esempio, gli americani stiano allestendo i piani per restare in Afghanistan per un altro decennio almeno, o come intendano gestire la loro recente preminenza - grazie alla tecnologia cosiddetta “fracking” - nella produzione di gas naturale.

La volatilità della situazione nel suo insieme può essere emblemizzata dalle relazioni tra Cina e Giappone , caratterizzate da quella che è stata definita “l’era della torsione”, ossia la non corrispondenza tra le relazioni geopolitiche e di sicurezza con quelle economiche.Per meglio spiegarsi:” Nel 2007 la Cina è diventata il primo partner commerciale del Giappone scalzando gli Stati Uniti. L’incremento nel tasso di dipendenza commerciale dalla Cina è stato parallelo al decremento della dipendenza dagli Stati Uniti: nel 1999 era pari al 9,1%, nel 2009 aveva raggiunto il 20,5%. Questa crescente interdipendenza economica contrasta con la natura tendenzialmente conflittuale della relazione sino-giapponese sul piano geo-politico: negli stessi anni in cui la Cina diventava il primo partner commerciale del Giappone, le relazioni tra i due attori si facevano sempre più tese.”[17]

D’altro canto questa conflittualità latente non è limitata alla sola relazione Cina-Giappone poiché include altri nemici storici dei cinesi come le Filippine, la Malesia, la Thailandia, lo stesso Vietnam ed il motivo probante risiede nel fatto che:” Tra gli atolli contesi del Pacifico transitano ogni anno 5 trilioni di dollari di merci, la metà del tonnellaggio mondiale. Chi controlla la strada, possiede l’economia di produttori e clienti. I fondali oceanici, grazie alla tecnologia, sono poi la nuova cassaforte per l’energia del pianeta: gas, petrolio, minerali e terre rare per l’hi-tech. Dominare il Pacifico equivale ad assicurarsi le materie prime più economiche dei prossimi decenni.”[18]

Da qui deriva l’esigenza primaria statunitense di contenere la Cina con una sorta di cintura sanitaria che ne soffochi le velleità espansive e che va a cozzare contro l’assalto al primato mondiale, considerato dalla Cina come qualcosa di imprescindibile laddove secondo il colonnello Mingfu:”Se nel XXI secolo la Cina non può diventare il Numero Uno al mondo, la massima potenza, allora inevitabilmente sarà messa da parte, ridotta all’angolo”.

E’ per scongiurare questa eventualità che gli eredi del “Celeste Impero”, in un sistema oramai multipolare,  infittiscono i rapporti economico/finanziari in Africa come in Europa, segnatamente con la Germania che, da sola, rappresenta il 48% dell’interscambio Cina-Unione Europea in un contesto che vede sempre più distante la potenza tedesca da quella americana per privilegiare alleanze, partenariati con la Russia oltre che la Cina.

Giova ricordare, in tal senso, che se la Germania può vantare prestazioni economiche nettamente superiori a quelle degli altri paesi europei, ebbene, lo deve in larga misura alle relazioni privilegiate con la Cina, una Cina che ha permesso a Berlino di diversificare la propria economia – minimizzandone i rischi – in modo da non dipendere integralmente da un mercato europeo in recessione ormai da tempo.

Conclusioni

E’ proprio partendo da questo assai critico dato di fatto che necessitano alcune considerazioni finali che vanno a riguardare il grande assente nelle dinamiche attuali: il proletariato.

In una situazione internazionale segnata da una crisi che ha bruciato 200 milioni di posti di lavoro, in una cornice che vede il generale peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di un proletariato internazionale contro cui si scaricano in ultima sintesi tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, in un contesto sociale dominato dalla dittatura della borghesia occidentale, orientale, ebraica, musulmana, in cui si straparla di scontro di civiltà “ inventato, alimentato e agitato contro la lotta di classe” come giustamente fa rilevare Marco Bascetta sul “Manifesto” e come, altrettanto giustamente, rileva proseguendo:” Sarebbe ora che quest’ultima (la lotta di classe n.d.r.) si prendesse la sua rivincita”[19], ebbene, fa piacere sentire qualche voce fuori dal solito coro che finalmente fa uso di un termine tutt’altro che desueto, al pari di forza lavoro, partito di classe, superamento rivoluzionario degli attuali rapporti di produzione: la lotta di classe.

Tuttavia la proposizione resta un po’ monca, vaga se non si reintroduce, con altrettanta chiarezza e fermezza, l’obiettivo ultimo della lotta di classe: il comunismo.

Note

1 R. Monteleone – Il Manifesto 28 maggio 2006

2 G. Colotti – Il Manifesto 21 giugno 2013

3 B. de Sousa Santos – Il Manifesto 22 giugno 2013

4 A. Penati – La Repubblica 22 giugno 2013

5 B. Petrini – Il Manifesto 6 giugno 2013

6 R. Guolo – La Repubblica 2 giugno 2013

7 Clash City Workers – 18 giugno 2013

8 V. Da Rold – Il Sole 24 Ore 17 maggio 2013

9 Clash City Workers – 18 Giugno 2013

10 R. Guolo – La Repubblica 2 Giugno 2013

11 Prometeo n.12 – Dicembre 2005

12 Limes n.2, Editoriale – Marzo 2013

13 P: Conti E: Fazi: Euroil – Fazi Editore

14 M. Paolini: Mezzaluna calante – Limes n.2 Marzo 2013

15 L. Procopio – D-M-D’ n.4 Dicembre 2011

16 F. Rampini – Repubblica 6 Luglio 2013

17 N. Lanna – Limes n.6 Novembre 2012

18 G. Visetti – La Repubblica 29 Agosto 2012

19 M. Bascetta – Il Manifesto 9 Luglio 2013