Le dinamiche cinesi al vaglio del nuovo scacchiere imperialistico

Categoria: Asia
Creato: 14 Novembre 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 5287
dalla rivista DMD’ n.5

“Lo scontro imperialistico vede, da un lato, gli Stati Uniti che mantengono, in larga parte, il controllo della produzione di capitale fittizio, dall’altro la Cina che da fabbrica del mondo intende sempre più decisamente partecipare alla spartizione della rendita finanziaria e l’Unione europea che, sebbene sia l’area continentale più avanzata al mondo, rischia l’implosione sotto il peso dei debiti sovrani nonché il collasso dell’euro”.[1]

La “ fabbrica del mondo” frena

Non bastano certamente né gli interventi delle varie autorità monetarie e neppure la professione di fede dei vari “maitres à penser” del pensiero economico borghese a ridare nerbo ad una situazione economica, a livello internazionale, che mostra picchi di criticità sempre più preoccupanti ed a far intravedere una inversione radicale di tendenza e quindi una “exit strategy” che viene, all’opposto, come da rituale, rinviata nel tempo.

Un’Europa stagnante o in recessione dà il senso ad una ripresa mondiale che è in sofferenza, laddove la Cina non può non sentire il disastro europeo con il corollario ineludibile di un “rallentamento” atteso per l’anno in corso e che è decisamente ben più preoccupante dello stesso debito greco.

A ciò va ad aggiungersi quella che il Time definisce la “ripresa schiappa” americana in cui basta il solo dato sulla disoccupazione - rimasta su livelli storicamente elevati, ossia l’8,3% - per far avanzare più di un dubbio su ciò che si intende, a certe latitudini, per ritmo di crescita.

Sembrano trascorsi secoli da quando, appena qualche anno addietro, nei vari World Economic Forum di Davos, sulla Cina venivano appuntate tutte le speranze di crescita di un sistema – quello capitalistico – che, nel suo insieme, faceva fatica a riprendersi dallo choc dei mutui subprime.

In Occidente era di moda immaginare una infinita crescita del Dragone che aveva abituati a tassi di crescita a due cifre nel mentre, nel 2012, dovrà limitarsi ad un aumento del 7,5%.

Scrive Visetti:” Oggi elettrizza il termine “sboom” e i mercati scommettono sulla durezza della frenata.” ed ancora, quasi ad evidenziare qualcosa di cui ci si è accorti solo negli ultimi tempi “ Un miliardo di cinesi, ossia più di tre quarti, non si sono accorti di essere diventati ricchi prima e non capiscono come si possa diventare più poveri adesso”.[2]

Eppure i prodromi di ciò che sta avvenendo adesso si erano palesati già da tempo; tuttavia, tra i vari analisti economici, solo in pochi adombravano l’ipotesi che la produzione mondiale avrebbe fatto fatica – laddove ci fosse riuscita – a raggiungere i livelli di PIL del 2007.

Tra i pochi J. Halevi trovava modo, nel dicembre 2008, di scrivere: ” La Cina aumenterà il proprio peso nell’economia mondiale senza però sfuggire alla crisi. Il governo di Pechino cercherà di arginarla per non bloccare lo sviluppo ma le zone più esposte alle esportazioni – specialmente nei prodotti la cui produzione mondiale è altamente localizzata in Cina – verranno ulteriormente colpite. Nella sostanza la Cina subirà l’effetto negativo del calo della domanda nei paesi maturi, mentre continuerà a funzionare da zona di produzione a basso costo salariale per molti settori dell’economia mondiale”.[3]

Di particolare rilievo, in questo scritto, è l’ultima considerazione che fa giustizia di un certo andazzo infarcito di semplicismo in base a cui la Cina dovrebbe modificare il proprio modello di sviluppo col riconvertirsi a produzioni ad alto contenuto tecnologico, col dare più spazio ai consumi interni, col creare un Welfare State.

Volendo dare uno sguardo d’insieme alla attuale situazione economica non può sfuggire il fatto che gli USA, con la loro politica monetaria espansiva, hanno inondato il pianeta di dollari che, tra gli altri, nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) creano inflazione e bolle speculative. L’Europa con la sua politica d’austerità cerca di fronteggiare gli effetti di tale politica ma facendo ciò deprime i consumi e riduce la domanda di prodotti, tra cui quelli “made in China”.

Ma gli stessi Stati Uniti sono interessati da fenomeni di bassa crescita con conseguente riduzione dei consumi che non può non avere ripercussioni in tutto il mondo.

Il meccanismo di crescita di tutti questi anni vedeva come consumatori i paesi ricchi, come produttori i paesi asiatici tra cui la Cina e come fornitori i paesi dotati di materie prime.

Oggi questo meccanismo è andato in tilt.

Ma tutto ciò non implica – giova evidenziarlo - un ridimensionamento della Cina, un rientrare nei ranghi. Significa, all’opposto, che la crescita trainata dai cosiddetti paesi maturi (USA, UE) dovrà essere sostituita da un’altra crescita: quella trainata dai consumatori asiatici, il che la porta, inevitabilmente, a collidere con gli interessi di altre potenze imperialistiche.

Paradigmatico, in tal senso, è il rapporto tra la Cina e gli USA che si basa su quello che è stato felicemente definito “sistema di reciproca rovina potenziale “ in virtù del fatto che gli statunitensi hanno messo in opera, in Cina, l’equivalente di un trilione di dollari d’impianti. Il limite naturale del sistema centrato sulla relazione sino-americana, oggi, sta proprio nell’accumulazione di troppi crediti verso gli Stati Uniti tant’è che la Cina avverte la necessità di avere meno attività in dollari.

Ha chiara, cioè, l’esatta percezione di essere in una trappola: la trappa del gigantesco debito statunitense.

Come uscirne?

Del tutto gli è impossibile. “Gli è possibile però diversificare con prudenza le nuove riserve e mantenere in dollari quelle accumulate. Potrebbero comprare euro e yen intanto che, fin dove è possibile, come nel caso degli scambi bilaterali, incominciano ad usare la propria moneta e non i dollari”[4]

 

Sarà ancora “Secolo Giallo”?

Se Pechino sconta gli scenari recessivi o di bassa crescita che interessano quelli che erano partner commerciali di una certa rilevanza è del tutto inimmaginabile che possa prendere in considerazione un rallentamento della crescita produttiva che possa minare la sua espansione economica e commerciale nella sua “ naturale area d’elezione”: l’Asia-Pacifico.

Soprattutto lo scenario del Pacifico asiatico va sempre più a configurarsi, nei progetti di Pechino, come uno spazio d’elezione - in cui sviluppare una sua egemonia - il proprio “Lebensraum”.

Prioritaria diventa quindi l’esigenza di strutturare un blocco asiatico che va a contornare la Cina, un blocco che va dall’Indocina all’Oceania e dall’Asia centrale giù fino alla penisola coreana ed allo stesso Giappone.

Ovviamente questo blocco andrebbe a configurare delle partnership economico-commerciali che le consentirebbero di affrontare soprattutto la competizione con gli Stati Uniti potendo contare su un certo numero di paesi co-interessati anche se non necessariamente alleati.

Ma quali verrebbero ad essere le direttrici lungo le quali questa proiezione verso l’esterno, considerata – ribadiamo – ineludibile, si indirizzerebbe?

Principalmente tre: quella che porta alla grande area Asia-Pacifico, l’altra che conduce al Grande Medio Oriente ed infine la direttrice africana.

Queste tre direttrici sono intimamente connesse all’esigenza cinese non solo di conservare l’etichetta di “fabbrica del mondo” e mantenere quindi costante il ritmo di crescita ma anche di veder aumentare ancor di più il proprio peso specifico nel novero delle grandi potenze.

Ciò implica, innanzitutto, l’esigenza di assicurarsi delle linee di approvvigionamento energetico affidabili come anche minerali quali il ferro, il rame, il nickel, l’uranio. Tutto ciò la coinvolge in una caccia agli idrocarburi, alle riserve minerarie, a 360°, che va dall’Asia all’Africa fino alle stesse Americhe.

Dunque una caccia globalizzata che negli ultimi tempi ha interessato anche le cosiddette “terre rare” – supporto indispensabile del boom tecnologico degli ultimi 10-15 anni – di cui Pechino gestisce il 90% del mercato internazionale e di cui fa praticamente i prezzi con le inevitabili ricadute su quei paesi le cui produzioni necessitano di elementi quali l’erbio, il tantalio, il tecnezio e altri ancora.

A livello energetico il grosso problema con cui la Cina deve fare i conti è la sua dipendenza dal carbone - dipendenza che s’è progressivamente accentuata dopo che Pechino ha perso, nel 1993, la propria autosufficienza petrolifera – “il quale copre ancora oggi il 69% dei fabbisogni energetici ed il 76% della produzione di energia elettrica”.[5]

Si capisce quindi perché, in Africa, la strategia cinese miri, oltre ai minerali, alle riserve di idrocarburi del Continente nero che - già oggi e relativamente poco esplorate - costituiscono il 9% di quelle mondiali e che, in prospettiva, nel giro di una diecina d’anni, potrebbero rappresentare il 40% delle proprie importazioni.

La “Seidenstrasse” (La via della seta) di Ferdinand von Richthofen che ha costituito, nell’antichità, quell’insieme di itinerari attraverso cui si sono snodati i commerci tra l’Impero Celeste e l’Occidente ed in cui le cosiddette “zone occidentali” (i territori centroasiatici) hanno svolto un importante ruolo di collegamento tra Medio Oriente e Cina sembra sia rinata a nuova vita dopo che, con l’implosione dell’Unione Sovietica, si è venuta delineando una grande area a cui la nuova geopolitica internazionale ha dato il nome di Grande Medio Oriente e che comprende, principalmente, il Kazakistan, il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la penisola arabica.

La Cina ha confini comuni con questa grande area per oltre 4.000 chilometri.

E’ diventato quindi strategico, per essa, fin dagli anni ’90 “promuovere la costruzione di strade, ferrovie, porti e reti di comunicazione nell’area del G.M.O. attraverso accordi multilaterali volti a creare un sistema di trasporti e comunicazioni diretto verso l’Europa a occidente, verso l’Iran e il Golfo Persico a sud-ovest e verso il Pakistan, l’India e l’Oceano Indiano a sud. Ma ancor più importante sarebbe stabilire regole comuni nel settore delle tariffe doganali, della finanza, della circolazione della manodopera e dei trasporti fra i paesi cointeressati”.[6]

Questa marcia di avvicinamento/penetrazione al G.M.O. assume quindi - secondo l’angolo visuale cinese – i connotati di una strategia inevitabile in quanto non si può prescindere da essa se intende assicurare lo sviluppo di un paese che per estensione di territorio, per consistenza demografica, per il volume della sua economia, per la sua cultura, ha legittime ambizioni di diventare una grande potenza imperialista.

La posizione strategica del G.M.O., quale intercapedine tra l’Europa e la regione Asia-Pacifico e quale grande area in cui è concentrata la gran parte dei giacimenti di idrocarburi mondiali, fa sì che per la Cina sia, per l’appunto, “ inevitabile” essere là per poter sfruttare queste risorse in virtù di un progressivo miglioramento delle infrastrutture nel settore dei trasporti così come in quello doganale, fiscale e bancario.

Per quanto riguarda il quadrante Asia-Pacifico di notevole c’è che, nell’ultimo decennio, Pechino ha praticamente sostituito gli Stati Uniti come primo partner commerciale di tutti i paesi più importanti della regione, il che ha comportato, quale conseguenza, che la Cina ha ampliato enormemente la propria sfera economica.

Non solo: si è messa pure, guidandolo, alla testa del processo di integrazione regionale, col che ha, di fatto, escluso gli USA dai forum negoziali multilaterali più importanti quali l’Asean+3.

Si tratta di portare avanti un processo progressivo di integrazione economica a carattere regionale nonché di interdipendenza tra la Repubblica popolare e gli altri Stati asiatici con conseguenze – quanto meno nel lungo periodo – assai negative sull’influenza economica, politica e militare americana nella regione e quindi sulla stessa egemonia globale degli Stati Uniti.


Il nuovo quadro imperialistico e la grande partita del futuro

Va da sé che gli USA non se ne stiano con le mani in mano e, come contrasto a questo superattivismo cinese, hanno già intrapreso una strategia di contenimento che si basa su un ritorno degli Stati Uniti in Asia i cui motivi di fondo risiedono nel fatto che, a parere dell’amministrazione Obama, il quadrante Asia-Pacifico è fondamentale per gli equilibri economici e strategici globali del secolo ventunesimo, ancor più dello stesso Medio Oriente.

E’ chiaro come l’attuale crisi abbia avviato uno scontro imperialistico feroce che si combatte sul versante dell’accaparramento delle materie prime come pure su quello dell’appropriazione parassitaria e tutto questo avviene in un contesto internazionale caratterizzato da una certa vischiosità ed aleatorietà di rapporti o di allineamenti che, a differenza di quanto avveniva coi vecchi blocchi monolitici, privilegiano gli assetti a cosiddetta “geometria variabile”.

Sintomatico, in tal senso, è il rapporto tra Cina e India.

Considerato che gli interscambi commerciali tra questi due paesi potrebbero, tra non molto, raggiungere il maggior volume economico al mondo (basti pensare che l’interscambio è passato dai 3 miliardi di dollari del 2000 ai 61,7 miliardi del 2010), verrebbe da pensare che questo dato rilevante potrebbe anche fungere da elemento propedeutico onde dare più consistenza ad altri tipi di rapporti. Si percepisce, al contrario, una latente acrimonia, diffidenza, nelle relazioni tra India e Cina, a livello bilaterale, compensata, però, dall’intensità dei loro scambi nel quadro degli organismi multilaterali, all’interno dei quali i due giganti asiatici contrastano insieme l’Occidente”[7].

Su scala regionale, tuttavia, l’India e la Cina – anche all’interno di questi organismi - trovano modo di farsi concorrenza per cui se ambedue sono partner dell’Asean (Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale) o se entrambi si sono visti riconoscere dallo Sco (organizzazione di cooperazione di Shangai) lo status di paese osservatore è vero anche che la Cina continua, ad esempio, ad opporsi all’ingresso dell’India nell’Apec (Cooperazione economica Asia-Pacifico) allo scopo di contenere la spinta dell’India verso est.

Ma questa rivalità non si limita alla terraferma in quanto la stessa India teme lo sviluppo di una egemonia cinese nell’Oceano Indiano che si realizzerebbe attraverso quello che viene definito “filo di perle”, ossia una costellazione di porti volti a garantire alla Cina libero sbocco marittimo sull’Oceano Indiano e il Mar Arabico accerchiando, di fatto, il sub-continente indiano. La strategia del “ filo di perle”, nel delicato quadro geopolitico dell’Asia sud-orientale delineerebbe una direttrice strategica assai rilevante che si concretizzerebbe nella costruzione di opere infrastrutturali realizzate - lungo la fascia costiera che va dal Mar Rosso all’Indocina – in compartecipazione tra aziende o capitali cinesi e gli Stati interessati. Questi porti dovrebbero poi venir collegati direttamente alla Cina tramite strade e oleodotti nell’ampio quadro di una strategia a sostegno della propria politica economica, sicurezza e strategia politico-militare.

Non dissimile si presenta il rapporto con un’altra potenza regionale quale l’Arabia saudita.

Ed anche qui i riferimenti economici segnalano un trend che riflette un notevole avvicinamento tra i due paesi ed infatti “ nel 2009, per la prima volta, la Cina è diventata, davanti agli Stati Uniti, il primo acquirente di petrolio dell’Arabia Saudita e rappresenta ormai l’11,3% delle sue importazioni rispetto al solo 4% del 2000. Nello stesso anno, Pechino ha venduto più vetture nel regno dei Saud che gli Stati Uniti”.[8] La cosa ha anche una sua logica laddove si pensi che negli anni 2000, allorché il consumo di petrolio era pressoché fermo sia negli USA che in Europa, la “fabbrica del mondo si garantiva una certa stabilità nelle forniture assicurando, insieme, un mercato a lungo termine a Riyad”.

Se il petrolio rappresenta il collante di questa intesa non va sottaciuta l’importanza dei prodotti petrolchimici che rappresentano una consistente parte delle esportazioni saudite in Cina la quale. da parte sua, ha modo di penetrare in vari settori del mercato saudita: dalle imprese di desalinizzazione ai prodotti a basso costo (tessile in primis), dalla costruzione di linee di treni ad alta velocità ai telefoni cellulari, dai computer alle ruspe.

Sempre imprese cinesi sono presenti nel mercato degli appalti pubblici e nel settore edile dove sono in grado di sbaragliare la concorrenza grazie al fatto che si possono avvalere di manodopera cinese, a basso costo, capace di “finire i lavori non oggi ma ieri” come sostenuto, con compiacimento, da un uomo d’affari saudita.

Esiste quindi una significativa presenza cinese in Arabia Saudita ma, sempre i sauditi, non nascondono l’intenzione di voler essere più presenti in Cina senza che tutto ciò comporti un rovesciamento dell’alleanza strategica con Washington che, al momento, è troppo importante in chiave anti-iraniana. Le garanzie di sicurezza offerte dagli USA, nel 1990, durante la prima “guerra del Golfo”, la Cina non può offrirle. Almeno oggi …

Un rapporto dell’ECFR (European Council for Relations) definisce una “relazione simbiotica” quella tra Germania e Cina. Vista da Pechino si dice Europa ma si vuole intendere Germania. Non per niente i cinesi, sempre più frequentemente, si rivolgono all’Europa attraverso la Germania, considerando, evidentemente, di poco peso gli organismi di politica estera dell’UE. Del resto secondo quanto riporta M. Cocco sul Manifesto del 30 maggio: ” Tra i paesi della UE, la Germania è il primo partner commerciale della Cina: la metà delle esportazioni europee nella Repubblica popolare proviene dalla Repubblica federale e tra 1/4 ed 1/3 dell’export di Pechino, verso la UE, finisce in Germania. Una crescita vertiginosa dell’interscambio commerciale tanto che presto la Repubblica popolare potrebbe scavalcare Stati Uniti e Francia, diventando il primo mercato di sbocco del made in Germany”.[9]

Quale migliore esemplificazione plastica per evidenziare la crisi in cui versa l’Unione Europea ed il procedere in ordine sparso dei suoi vari attori se i rapporti bilaterali hanno agio su quelli che – almeno negli intenti sanciti dai vari trattati costitutivi – avrebbero dovuto coinvolgere l’Europa quale unica entità.

Ecco allora che la Repubblica federale - che stabilì rapporti diplomatici con la Cina di Mao Tze Tung quarant’anni addietro – si attiva per organizzare, nel 2011, un vertice intergovernativo tra la “locomotiva industriale” europea e la seconda economia a livello mondiale.

Ce n’è abbastanza perché il perno della percezione della UE da parte di Pechino sia incardinato sulla Germania.

Se l’Europa – “molto” a detta dei tedeschi – non è in grado di sviluppare un approccio strategico comune nei confronti della Cina ne consegue che un’economia come quella tedesca - basata in prevalenza sulle esportazioni – non poteva non essere interessata ad un programma cinese di investimenti, in infrastrutture e welfare, per oltre 400 miliardi di euro.

La “relazione osmotica” dovrebbe prefigurare - secondo taluni esegeti del liberalismo a tutto tondo - una sorta di idillio che, al contrario e come al solito, viene precluso dalla stessa logica capitalistica che è sottesa alla perenne competitività/conflittualità tra predoni capitalistici.

La Cina – come abbiamo visto – non si limita a produrre merci a basso costo (magliette, giocattoli ecc.) ma nella sua ascesa a “potenza” mira anche ad un “balzo tecnologico” in avanti.

In una: se oggi il mercato cinese è avido di prodotti tedeschi di alta qualità, se le stesse aziende cinesi importano macchinari tedeschi, in futuro le merci cinesi potrebbero entrare in competizione con lo stesso “made in Germany”.

Resta infine da tratteggiare - “ last but not least” - il rapporto/scontro tra le prime due economie mondiali.

Abbiamo fatto, in precedenza, cenno a come la “Cina intenda partecipare al banchetto della spartizione della rendita finanziaria” ma vediamo, più nel concreto come taluni dati, alcune cifre esemplifichino, al meglio, l’entità di tale scontro.

Partiamo dall’assunto che la Cina è una potenza finanziaria. Già nel 2008 con i suoi 1,76 trilioni di dollari in riserve straniere – quasi la metà del PIL statunitense – al 70% parcheggiati in Buoni del Tesoro americano, deteneva una notevole capacità d’impatto sui mercati internazionali.

Non possiamo, come dato di raffronto, non porre in rilievo come tutti gli “hedge funds” esistenti sul mercato mondiale gestiscono, totalmente, 1,5 trilioni di dollari.

Uno dei fondi sovrani più ricchi al mondo – il China Investment Corporation (CIC) – poteva contare, nel 2007, su una dote iniziale di 200 miliardi di dollari.

Poneva in evidenza G. Mafodda, sul n.4/2008 di Limes: ” Dal momento che, secondo le stime degli specialisti, il governo cinese è in grado di accumulare, all’anno, 500-600 miliardi di dollari in valuta e altri asset stranieri, tanto da rivaleggiare per capacità di accumulazione con i principali paesi esportatori di petrolio messi insieme, non è difficile immaginare che i capitali a disposizione del CIC possano essere in futuro ben maggiori”.[10]

Ma c’è di più: gli investimenti in valuta straniera oltre alla China Investment Corporation passano attraverso la SAFE ( State Administration of Foreign Exchange) che, facendo parte della Banca Popolare Cinese, può gestire una maggiore quantità di valuta e di asset stranieri tale che funge, nei fatti, da volano per l’espansione all’estero delle società di Stato cinesi.

Del tutto evidente risulta quindi come - al di là dell’enfasi posta sullo “sviluppo virtuoso “ riferito al modello sino-americano – nella dinamica dei rapporti tra i due paesi gioca non solo la potenza economica del CIC ma anche la percezione/preoccupazione – da parte statunitense – che il governo cinese possa trovare non conveniente investire, ad oltranza e in larga parte, in strumenti a bassa redditività come i “treasury bonds” mettendo in discussione – in caso di crisi delle relazioni politiche tra i due paesi – quello che l’economista Lawrence Summers definiva “l’equilibrio del terrore finanziario”.

Ad un siffatto contesto non aiuta, di certo, ”l’avviso” inviato agli Stati Uniti, da parte di Cina e Giappone, formalizzato da un accordo monetario che prevede l’abbandono del dollaro come valuta utilizzata negli scambi commerciali tra i due paesi e la sua sostituzione, nell’interscambio, con le due monete nazionali: yen e yuan.

Considerato che, finora, quasi il 60% degli scambi tra i due paesi avviene tramite il “biglietto verde”, tale accordo altro non è se non un segnale di sfiducia nei confronti non del solo dollaro bensì anche dell’euro.

Invero, nei propositi cinesi c’era un altro tipo di alleanza che avrebbe dovuto coinvolgere, oltre al Giappone, anche la Corea del Sud. Tale accordo tripartito dovrebbe, comunque, essere definito nel 2013.

Ad essere messa in discussione, alle corte, è l’egemonia globale degli Stati Uniti i quali – nella nuova strategia di Obama, assai attenta nella gestione delle risorse economiche e militari – tendono a ridurre la loro sovraesposizione in contesti considerati non vitali per privilegiare, di converso, quelli dove gli interessi e l’influenza USA sono messi in discussione o addirittura minacciati.

Si spiega allora l’esigenza di fronteggiare la tendenza alla penetrazione cinese in un’ area – segnatamente quella del Pacifico – che gli Stati Uniti hanno considerato dal 1945 in avanti come una sorta di “ back yard” (cortile di casa) - soprattutto attraverso il rilancio della Trans-Pacific partnership, di quella, cioè, che prevede la creazione della più grande zona di libero scambio di tutto il mondo che riunisce, tra l’altro, attraverso l’abbassamento delle tariffe doganali, quasi 800 milioni di consumatori e il 40% circa dell’economia globale.

La TPP, all’interno di una strategia di re-engagement che tende a rassicurare alleati tradizionali e promuovere nuovi accordi basati su interessi comuni, non tralasciando, al contempo, di discriminare chi non rientra in questo network di alleanze, è organico alla strategia di contenimento del ruolo cinese nel processo di integrazione economica e commerciale nell’area dell’ Asia-Pacifico.

La grande partita del futuro potrebbe però avere come epicentro l’area russo-centroasiatica non foss’altro che per la posta in gioco (gas e petrolio) a cui si accompagna la caratura degli attori interessati (Russia, Cina, Stati Uniti e UE). In questa regione si sta già ingaggiando un “Grande Gioco” che ha come obiettivo non solo l’accesso alle riserve energetiche ma anche la gestione delle infrastrutture necessarie al loro trasporto che assumono particolare rilievo laddove l’area centro-asiatica è una regione chiusa e lontana dalle vie marittime. Prioritario diventa, quindi, il trasporto via terra e imprescindibili diventano i cosiddetti “corridoi” per il controllo dei quali le potenze imperialistiche sono entrate in feroce competizione.

TRACECA (Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia ): è questo il nome del corridoio pan-europeo che collega il Mar Nero col Caspio e che dovrebbe raccordarsi – secondo quanto illustrato al Traceca Investment Forum del febbraio di quest’anno, a Bruxelles – alle vie di comunicazione stradali e ferroviarie finanziate dalla Central Asia Regional Economic Cooperation

(CAREC), organizzazione che non include la Russia ma comprende, tra gli altri, la Cina, il Pakistan, l’Afghanistan e quattro repubbliche centroasiatiche.

L’apertura di queste vie di comunicazione, verso ovest e verso est, di fatto sottrarrebbe le risorse centroasiatiche al controllo di Mosca che, tuttavia, conserva, sì, un ruolo essenziale nell’ordine geopolitico attuale che però è minacciato sia dall’Occidente che dalla Cina che si trova a confinare con alcuni Stati centroasiatici verso i quali confluiscono enormi investimenti tramite i suoi fondi sovrani.

Ma i punti critici attengono anche alla questione della sicurezza ed alla relativa presenza militare occidentale in Afghanistan e Pakistan che, se da un lato - in termini di lotta al terrorismo ed al radicalismo islamico – può anche essere funzionale agli interessi di Mosca, di Pechino e delle repubbliche centroasiatiche, dall’altro è di impedimento alla realizzazione di una rete di oleodotti che congiungerebbero Gwadar (Pakistan) alla Cina.

Una previsione su chi possa uscire vittorioso da questo gioco è cosa assai ardua in quanto sullo sfondo vi è una crisi che accentua la competizione tra potenze capitalistiche che, come nel caso degli Stati Uniti, spingono per avere accesso nell’area e penetrare, in seguito, negli stessi mercati cinesi ed altre potenze, come la Russia e la Cina, che, per ragioni geografiche e storiche, hanno sempre esercitato una certa influenza nella regione centroasiatica.

La penetrazione USA - politica ed economica – ha privilegiato il corridoio caucasico azero-georgiano allacciando prima e consolidando poi i rapporti con gli Stati della regione che – grazie al patrocinio di Washington – sono entrati a far parte dell’OCSE e sono stati associati alla NATO.

Le attenzioni statunitensi si sono concentrate finora sulle risorse energetiche del quadrante occidentale dell’area centroasiatica e sull’utilizzo delle infrastrutture esistenti anche se particolarmente strategici sono l’accesso al Caspio sia per le solite risorse e sia per far diminuire la dipendenza europea dal gas russo.

Sempre la partita del futuro - nella sua variante russo-cinese questa volta - offre interessanti spunti di riflessione che attengono la forza economica e finanziaria del Dragone, in grado di supportare paesi ancora ben lontani da una fase avanzata di sviluppo come pure la geopolitica cinese dei gasdotti che andrebbe a bypassare un sistema di gasdotti, ereditato dalla vecchia Unione Sovietica, orientato prevalentemente lungo l’asse sud-nord e che ancora adesso connette, attraverso il Central Asia-Center Pipeline i cosiddetti “stan countries” con la rete gestita da Gazprom.

La Cina, ovviamente, con i suoi progetti: ” sta tagliando la Russia fuori dalla sezione sud dell’Asia centrale, rafforzando anche la sua presenza in Kazakistan: Le importazioni energetiche consentiranno a Pechino di aumentare notevolmente le capacità della regione di acquistare i suoi prodotti manifatturieri a basso costo. Ciò modificherà di fatto, a favore della Cina, l’equilibrio di potenza esistente in Asia centrale”.[11]

Chiedersi, a questo punto, in che modo questa crisi ridisegnerà gli equilibri mondiali diventa puro esercizio retorico. Non bastano, infatti, i dati economici aggiunti pure a quelli militari, demografici, tecnologici o altri ancora, a consentirci di determinare - in termini di riposizionamento – cosa potrà avvenire. Le componenti in gioco sono tali e tante che, al momento, si possono solo indagare alcune tendenze che vanno delineandosi e che potrebbero, di qui a non molto, assumere un peso specifico assai rilevante.

Tra queste, indubbiamente, c’è il futuro del dollaro i cui destini andranno a influenzare la futura mappa del potere geoeconomico su scala mondiale.


Il processo di svalutazione della forza-lavoro ed il fenomeno delle ri-delocalizzazioni

La frenata del Dragone ha destato stupore nelle anime candide, convinte assertrici della “crescita infinita” e, conseguenzialmente, delle virtù taumaturgiche del capitalismo. Sembra proprio che alcuni significativi precedenti – la crisi delle Tigri asiatiche, il fallimento dell’Argentina o altre piacevolezze a seguire – non riescano a scalfire delle convinzioni che sanno tanto di assiomatico.

All’esplosione della bolla speculativa dei subprime avrebbe dovuto far seguito una ripresa mondiale con consistenti tassi di crescita.

Ebbene, di “locomotive” non è che se ne vedano tante in giro ed il barometro della situazione economica sembra essersi inchiodato sull’ “incerto e volatile” se la stessa Germania vedrà il proprio PIL, nel 2012, crescere di appena l’1% e se questa stessa crescita finirà per essere trainata soprattutto dai consumi, grazie agli aumenti retributivi legati ai recenti rinnovi contrattuali.

La stessa caduta dei prezzi delle materie prime segnala come, in una fase recessiva di lungo periodo, se ne consumeranno di meno e quindi, in un contesto siffatto, la “catena di montaggio” del capitalismo mondiale non poteva non avvertire e subire i contraccolpi di una crisi dagli effetti sempre più devastanti.

Per l’anno in corso Pechino è considerata capace di una crescita dell’8,2%, però questo dato va inserito in un trend che ha visto, nel 2011, una crescita del 9,2%, a sua volta inferiore del dato relativo al 2010, ossia il 10,4%.

Entrando più nel merito, il Guandong – ritenuto, all’interno della stessa “fabbrica del mondo”, il “motore del sud” – a fronte di una crescita media record, negli ultimi cinque anni, del 12,4%, ha dovuto ridimensionare le stime relative ai prossimi cinque anni ad un 8% con serie probabilità di una frenata, estesa a carattere nazionale, al 7%.

Giova ricordare come il Guandong, insieme al Fujian ed all’Hainan, sia parte di quelle “zone economiche speciali” che tanto hanno contribuito alla impetuosa crescita cinese, la quale, oltre a questa colonna meridionale dell’industria, si è potuta avvalere dello sfruttamento delle miniere della Mongolia e della nuova frontiera dello sviluppo hi-tech, concentrata nella megalopoli di Chongqing.

La repubblica popolare sta scontando una situazione particolare laddove ad una scalata di posizioni sullo scacchiere internazionale fa da contraltare una realtà interna fatta di espulsione di forza-lavoro, disoccupazione, inflazione fuori controllo, salari inaccettabili, insufficienza energetica, esplosione del divario tra ricchi e poveri.

Ciò rappresenta l’ideale brodo di coltura per lo scatenarsi di sommosse che hanno interessato sia i migranti interni sia gli stessi operai che iniziano a non accettare più uno “schiavismo di Stato” contro il quale particolarmente attiva è la “nuova generazione di migranti” - quelli nati dopo il 1980 e che costituiscono il 58% del totale – che ha funto da volano nell’organizzare e sorreggere le varie proteste a sostegno, tra l’altro, di un embrione di contrattazione collettiva.

Le lotte operaie e le crisi locali compongono, ancor oggi, un quadro di emergenza nazionale a cui il governo, sollecitato ripetutamente dai vari consessi internazionali, ha cercato di porre riparo portando i salari medi a 187 euro al mese.

Conseguenza immediata: il 34% delle aziende ha chiuso.

Giova ricordare – per inciso - che il 60% della produzione industriale fa capo a grandi multinazionali statunitensi ed europee a cui stanno a cuore soltanto congrui margini di profitto.

La chiusura delle aziende ha avuto quale manifestazione immediata e paradossale che -come nelle migliori tradizioni scenotecniche - gli operai al mattino andavano a lavorare e non trovavano più il capannone.

Cos’era successo?

Semplicemente che le aziende chiudevano a Shenzhen, a Xiamen e riaprivano a mille chilometri più in là, spingendosi nelle regioni dell’interno dove sgravi fiscali, sconti su terreni e salari al limite della soglia di povertà garantivano alle imprese risparmi fino al 20%. In una: una concorrenza interna insostenibile che fa il paio con una guerra tra poveri innescata dallo stesso governo cinese per “raccogliere i frutti dai rami più bassi” nelle aree depresse del paese. Le aziende – sempre in ragione de i costi notevolmente inferiori – si sono trasferite anche in Bangladesh, in Vietnam, in Cambogia o in Indonesia ossia in quei nuovi distretti del Sudest asiatico i quali – in virtù di una delocalizzazione votata ai massimi ribassi – stanno decimando il sistema industriale delle “zone economiche speciali” cinesi proprio come il Guangdong, il Fujian, lo Hainan avevano fatto – a suo tempo – nei confronti del Giappone o di Taiwan.

Si chiama “vaporizzazione della produzione” e rende – ovviamente – la proprietà più forte nella contrattazione (verso il peggio: sottolineatura nostra) in quanto se fai del nomadismo la tua cifra peculiare non c’è nessun sindacato locale che può condizionare la tua attività.

Ma c’è di più.

Entro il 2015 – secondo le stime di analisti britannici – produrre in Europa orientale o in Nord America andrà a costare, considerando gli oneri di spedizione, quanto in Cina e – per entrare più nei dettagli – oltre il 15% dei beni prodotti da aziende USA nella repubblica popolare e poi importati, nei prossimi cinque anni saranno totalmente prodotti negli Stati Uniti.

Questa inversione di tendenza, analizzata dal Boston Consulting Group, poggia sul costo della forza-lavoro cinese che è aumentata per i motivi sopra citati. A ciò si aggiunga che gli USA si stanno trasformando in un paese a “basso costo” in quanto i salari si riducono o aumentano solo moderatamente, i lavoratori sono sempre più flessibili e il dollaro si indebolisce per cui nel giro di cinque anni per le aziende USA sarà più conveniente produrre in Tennessee, Alabama o South Carolina anziché in Cina.

Ciò andrà di certo ad alimentare una criticità che avrà modo di riflettersi in un calo dell’export, in un maggior disagio sociale, nella necessità di una certa trasformazione produttiva che poggerà su maggiori investimenti in tecnologia con l’inevitabile portato di una maggiore espulsione di forza-lavoro che sarà sostituita dai robot.

D’altra parte – come ha commentato Lin Xinqi, direttore del dipartimento risorse umane della Remnin University of China – “ i robot non si uccidono, non rivendicano diritti e se gli ordini calano basta spegnerli”.




[1] L. Procopio, “Crisi economica e nuovi equilibri imperialistici”, DemmeD’, n.4

[2] G. Visetti, “Cina: nel cuore della crisi”, La Repubblica, 29 marzo 2012

[3] J. Halevi, “La crisi che verrà”, Il Manifesto, 31 dicembre 2008

[4] G. Ararat, “Nelle mani dell’Asia”, Limes, n.4/2009

[5] M. Paolini, “Il drago ha sete”, Limes n.4/2008

[6] Zhang Xiaodong, “Come la Cina penetra nel Grande Medio Oriente”, Limes, n.4/2008

[7] C. Jaffrelot, “India – Cina, conflitti e convergenze”, Le Monde Diplomatique, maggio 2011

[8] A. Gresh, “Pechino e Riyad riaprono la via della seta”, Le Monde Diplomatique, gennaio 2011

[9] M. Cocco, “Se Berlino sposa Pechino”, Il Manifesto, 30 maggio 2012

[10] G. Mafolda, “I soldi di Pechino e le paure di Washington”, Limes n.4/2008

[11] C. Jean, “Il nuovo grande gioco in Asia centrale”, Limes n.4/2008