Riflessione sulle condizioni del moderno proletariato (prima parte)

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Creato: 13 Maggio 2015 Ultima modifica: 13 Ottobre 2016
Scritto da Spohn Visite: 3648

 

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[ES]

Après moi le deluge! E’ il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalista. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita di un operaio, finché la società non la costringa ad averne

 

La storia del progresso – ci viene detto- è una continua avanzata verso il benessere di tutti, di modo che il lavoro sarà il mezzo di emancipazione delle masse, non più intese come un mostro pericoloso ed ebbro di idee di rivoluzione, bensì come un insieme di individui isolati, caratterizzati sempre di più dall’utilizzo della tecnologia e da una religione del consumo quale reazione “naturale” rispetto al totale dominio dell’uomo sulla natura.

 

Invece, ripercorrendo le tracce lasciate da Marx e da Engels sul finire della prima metà dell’Ottocento ci si accorge che già allora i due maestri del socialismo ravvisavano i termini di una battaglia solo apparentemente storiografica: i mezzi dialettici con cui entrambi combatterono sul fronte del proletariato e contro la nascente borghesia industriale si rivelarono diversi ma complementari; Engels nel 1844 si recò in Inghilterra tra gli operai di Manchester e della zona di Liverpool, dove poté appurare personalmente le condizioni di vita misere e l’abbrutimento generale della classe appena nata; Marx nel primo libro del Capitale dedica un’ampia parte del suo studio alle legislazioni sul lavoro nelle fabbriche tra il 1833 e il 1864: ovvero, quella fase che egli stesso definisce come “paradigmatica” per un’efficace comprensione della ferocia e della sete di plusvaloro che animarono da principio la borghesia industriale inglese. Dicevamo, che i mezzi dialettici furono parzialmente diversi: perché Engels redasse un resoconto che oggi definiremmo “etnografico” mentre Marx si dedicò a un vero trattato economico e giuridico con gli inevitabili prelievi storici e documentari forniti dalla documentazione scritta allora esistente sulla vita delle classi popolari a contatto con l’industria cotoniera, manifatturiera, della panificazione e così via.

 

Una comparazione tra La condizione della classe operaia in Inghilterra e il paragrafo del primo libro del Capitale Legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864 ci permette di conoscere non solo le condizioni della classe operaia in quegli anni ma anche la battaglia politica tra whigstories, tra industriali e borghesia agraria, e tra storici schieratisi con uno o con l’altro dei due fronti. Ne deriva una discrepanza di opinioni che è perfettamente in linea con i contorni dello scontro di classe, per cui – come precisa Marx- mai la borghesia avrebbe arrestato l’allungamento della giornata lavorativa senza una risposta battagliera della composizione sociale ad essa contrapposta per interessi:

 

“Après moi le deluge! E’ il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalista. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita di un operaio, finché la società non la costringa ad averne.”[1]

 

Infatti, era successo che la corsa per allungare le ore di lavoro aveva conosciuto fino al 1833 una forte accelerazione, imperocché «con la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII si ebbe un precipitare come di enorme, travolgente valanga», fino a che non si raggiunge un punto di non ritorno, stabilito intorno alle 12 ore effettive - che, poi, come illustra Marx citando il resoconto di un ispettore del lavoro, in realtà erano almeno 14:

 

E’ certo da rammaricarsi assai che una classe qualunque di persone debba sgobbare 12 ore al giorno. Calcolando i pasti e il tempo per andare e tornare dalla fabbrica, in realtà si arriva a 14 sulle 24 ore … A prescindere dalla salute, nessuno vorrà, spero, disconoscere che dal punto di vista morale un assorbimento così completo del tempo delle classi lavoratrici, senza interruzione, dalla tenera età di 13 anni e, nei rami d’industria “liberi”, anche da molto prima, sia estremamente nocivo, e rappresenti un male terribile … Nell’interesse della moralità pubblica, per l’educazione di una popolazione virtuosa, e perché la gran massa del popolo possa godere ragionevolmente della vita, bisogna imporre che in tutti i rami di industria una parte di ogni giornata lavorativa sia riservata al ristoro e all’ozio.”[2]

 

Le perplessità di Horner, ispettore del lavoro nel decennio ’40 dell’Ottocento, rientrano nel campo dei giudizi di quel gruppo di ispettori e di pensatori borghesi che dimostrarono una certa sensibilità per gli orrori dell’industrializzazione: come scrive Engels nel suo libro, tali filantropi provenivano spesso dalle fila tories e - se pure molti di essi difendevano tacitamente le ragioni conservatrici della borghesia agricola - erano stimati, se non amati, dai proletari:

 

Frattanto non cessava tra gli operai l’agitazione per le dieci ore; nel 1839 essa era nuovamente in pieno sviluppo, e al posto del defunto Sadler subentrò alla Camera bassa Lord Ashley e accanto a lui Richard Oastler, ambedue tories. Soprattutto Oastler, che senza posa teneva desta l’agitazione nei distretti industriali, come già aveva fatto al tempo di Sadler, era particolarmente amato dagli operai. Essi lo chiamavano il loro «buon vecchio re», «il re dei figli delle fabbriche», e in tutti i distretti industriali non v’è fanciullo che non lo conosca e non lo veneri, che non gli vada incontro in corteo insieme agli altri quando egli si reca nella città. Oastler combatté anche con molta energia la nuova leggi sui poveri, e per questo motivo venne fatto arrestare per debiti dal signor Thornill, un whig, della cui tenuta era amministratore ed al quale egli doveva una certa somma. I whigs gli offrirono più volte di pagare il suo debito e di favorirlo in ogni modo se avesse consentito ad abbandonare la sua opposizione alla legge sui poveri, ma inutilmente. Rimase in prigione e di là diffuse i suoi Fleet Papers [volantini - n.d.r.] contro il sistema di fabbrica e la legge sui poveri.”[3]

 

La schiera dei “sensibili” alle condizioni da subumani dei proletari del Lancashire e di tutta l’Inghilterra, soprattutto settentrionale, vantava tra le sue fila anche la notabile presenza di un abile storico del commercio, il Postlethwayt, il cui «dizionario commerciale» - come ricorda a buon pro Marx- «godeva allora [nella seconda metà del Settecento – n.d.r.] la stessa fama che ai nostri giorni circonda gli analoghi volumi di MacCulloch e MacGregor». Per motivare la convinzione che il capitalismo industriale avesse in sostanza fatto ruotare all’indietro le lancette del benessere, Marx recupera uno scambio polemico tra il suddetto storico del commercio Postlethwayt e il redattore anonimo di un opuscolo scritto contro la causa operaia e la presunta fiacchezza dei lavoratori. L’oggetto della discussione, riportata da Marx, gira intorno al fatto che gli operai dell’industria inglese non lavoravano secondo quanto avrebbero dovuto o potuto, ragion per cui era legittimo per l’anonimo autore dell’opuscolo sostenere le tesi di gran parte della borghesia whig, la quale era convinta che la vera libertà consistesse nella piena liberazione del lavoro, ovvero- come chiosa ironicamente l’autore del Capitale- in tutto ciò che fosse di ostacolo a «qualunque legislazione contraria al principio della libertà assoluta del lavoro!».

 

Insomma, centocinquanta anni fa la borghesia si muoveva con un profilo ideologico affatto tarato sulle sue esigenze e proprio sul diritto a “liberare il lavoro” costruiva le campagne politiche per l’ampliamento della giornata lavorativa e l’intensificazione dello sfruttamento: una serie di messaggi che -  sia detto qui solo per inciso - non può che riportarci come d’incanto alle infami bugie dei governi europei di inizio terzo millennio, con il codazzo di dichiarazioni a proposito della necessità di precarizzare e liberalizzare finalmente il mercato della forza-lavoro. Ma nella parte dedicata al pugnace tentativo della borghesia inglese di spremere il più possibile le forze fisiche dell’operaio, Marx non si concentra sul Renzi di turno o sui temi ideologici scientemente adoperati, quanto sulla contrapposizione significativa tra due fronti, ognuno dotato di verità tanto inconciliabili quanto opposte. Secondo Postlethwayt, l’operaio inglese lavorava circa 4 giorni su sette nella seconda metà del Settecento e ciò era assolutamente giustificabile secondo la norma prevista dal rispetto della vita e dei ritmi di lavoro conformi a uno stato di benessere accettabile; nel versante opposto, secondo i legislatori whigs e l’anonimo redattore dell’opuscolo Essay on Trade and Commerce la verità storica di Postlethwayt, pur essendo vera, corrispondeva a una ammissione preclara della pigrizia e dell’abbrutimento del proletariato inglese, per cui si dimostrava ineccepibile la necessità di estendere l’orario e le giornata di lavoro a esclusione della santa giornata del settimo giorno:

 

Se vale come istituzione divina che si debba festeggiare il settimo giorno della settimana, ciò implica che gli altri giorni settimanali appartengano al lavoro [Nota di Marx, (egli vuol dire al capitale, come si vedrà di seguito)] e non si può biasimare come crudele l’imposizione di questo precetto di Dio … Che l’umanità in generale sia incline per natura alla comodità e alla pigrizia, ne facciamo triste esperienza nel contegno del nostro volgo manifatturiero, che in media non lavora oltre i 4 giorni per settimana, salvo in caso di rincaro dei generi elementari …”[4]

 

Le prime due considerazioni che sorgono da queste prime letture e comparazioni sono di ambito e carattere diverso. La prima riguarda le condizioni odierne del proletariato mondiale che in Cina e vasti parti del pianeta –compresi i paesi capitalisticamente avanzati come l’Italia- versa in condizioni talmente miserabili che un paragone con l’Ottocento del capitalismo sarà necessario e forse persino costruttivo; la seconda riguarda l’assenza di un seppur minimo spirito filantropico nella borghesia contemporanea, divenuta così spietata e crudele che le condizioni di vita degli operai e dei lavoratori ove sono accettabili vengono attaccate, e dove sono già inaccettabili e brutali vengono nascoste o utilizzate, come nel caso della Cina, a fini propagandistici e politici. In definitiva, possiamo affermare che nella borghesia ha vinto lo spirito rapace e malfattore di coloro che, opposti a Postlethwayt, non solo attaccavano l’ozio e la pigrizia dei proletari ma sostenevano nel 1770 la necessità delle 12 ore lavorative e delle “House of terror”, altrimenti dette Workhouses. La storia ci insegna che nel giro di cinquant’anni sia il primo che il secondo proponimento vennero abilmente raggiunti e nel 1833 fu addirittura necessario limitare la giornata a 12 ore e porre un freno al lavoro notturno, stabilendo con un giudice persino cosa fosse il giorno e cosa la notte:

 

“Dopo che il capitale aveva messo secoli per prolungare la giornata lavorativa fino al suo limite massimo normale e, di là da questo, fino alla barriera della giornata naturale di 12 ore, con la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII si ebbe un precipitare come di enorme, travolgente valanga. Ogni confine di morale e natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, venne abbattuto. Perfino i concetti di giorno e di notte, che negli antichi statuti erano così rusticamente semplici, sfumarono al punto che un giudice inglese del 1860 dovette sfoggiare un acume veramente talmudico per chiarire «con valore di sentenza» che cosa sia il giorno e che cosa sia notte. Il capitale celebrò le sue orge.”[5] (p.390)

 

E a guardare quali sono oggi, per esempio, le condizioni nelle fabbriche cinesi si può ben dire che le orge del capitale non sono forse mai finite, ma anzi hanno trovato nella popolazione cinese una massa abbastanza grande da poter essere spremuta nelle braccia e nella mente fino allo sfinimento e alla completa saturazione. Anche in Europa, o nei paesi Brics, le legislazioni non sono da meno e qualora non vi fosse spazio per stracciarle nella legalità vi si aprono comunque ampi spazi d’azione per la soverchieria e lo schiavismo; due episodi su tutti e che ben conosciamo: le braccia impiegate nell’agricoltura da Rosarno ai campi del Pontino o della Sicilia, le fabbriche in nero gestite da imprenditori cinesi e italiani a Prato o le molteplici aziende del sommerso nell’area vesuviana. Lo scenario dunque non finisce di allargarsi e più lo si restringe più saltano fuori nuove situazioni assolutamente allarmanti e inquietanti; un quadro che, come  Istituto O. Damen, abbiamo sempre cercato di puntualizzare, edificando più connessioni possibili tra ciò che accade in Italia e quello che avviene dall’altra parte del mondo, nella convinzione che le sorti del proletariato siano come le trame di un unico intreccio, senza un finale scritto.

 

(seconda parte)

 

 

[1] K.Marx, Il Capitale, Libro primo, Il processo di produzione del Capitale, sez. VIII La giornata lavorativa, par. La lotta per la giornata lavorativa normale. Leggi per l’imposizione del prolungamento della giornata lavorativa dalla metà del XIV secolo alla fine del XVII, UTET, Torino, 2009, p.380.

 

[2] Marx riprende un passo da L.Horner, Reports of Insp. Of Fact, 31st Dec. 1841, in K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., par. La lotta per la giornata lavorativa normale. Limitazione obbligatoria per legge del tempo di lavoro. La legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864, p.390.

 

[3] F.Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma, 1978, p.235.

 

[4] Marx riporta un estratto da Essay on Trade and Commerce: containing Observations on Taxation, Londra, 1770 (la citazione è in K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p.387). Altro libello accusatore èConsiderations on Taxes, Londra, 1763.

 

[5] K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit.,pp.389-390.